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Sentenza

Abusi edilizi, quando la sanzione pecuniaria sostituisce la demolizione?...
Abusi edilizi, quando la sanzione pecuniaria sostituisce la demolizione?
Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 17 febbraio 2021, n. 1452.REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8693 del 2010, proposto dai signori

C.S. e R.M.A., rappresentati e difesi dagli avvocati Cristina Cittolin, Luca Mazzero, Giorgio Pinello, con domicilio eletto presso l'avv. Lidia Mandrà in Roma, via degli Scipioni, 268/A

contro

Comune di Belluno, non costituito in giudizio

per la riforma

della sentenza in forma semplificata del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Seconda) n. 1942/2009

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 12 gennaio 2021, tenuta ai sensi dell'art. 25 del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137 conv. dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, il Cons. Cecilia Altavista;
Svolgimento del processo

Gli odierni appellanti sono comproprietari di un immobile residenziale in via Sala n. 29 del Comune di Belluno (individuato al catasto al foglio (...) mappale (...)), in zona A del PRG, sottoposta a vincolo paesaggistico ai sensi del D.Lgs. n. 42 del 2004, nel quale sono state realizzate senza titolo opere di ristrutturazione sul cd. annesso laterale, anche tramite parziale demolizione e ricostruzione, con modifiche di sagoma e volume, per cui avevano presentato domanda di accertamento di conformità il 15 maggio 2006.

La istanza di sanatoria è stata respinta con provvedimento del 21 febbraio 2008, trattandosi di opere di ristrutturazione con modifiche di volumetria e sagoma in zona A del Piano regolatore generale, non consentite dalle NTA. Tale provvedimento non risulta impugnato.

Il 2 marzo 2009, il Comune di Belluno, ai sensi dell'art. 31 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, emanava ordinanza di demolizione del "corpo accessorio adiacente al fabbricato principale (realizzato tramite demolizione dei corpi edilizi preesistenti e successiva ricostruzione con modifica della sagoma ed aumento di volume)".

Avverso tale provvedimento è stato proposto ricorso al Tribunale amministrativo regionale del Veneto, formulando motivi di violazione di legge ed eccesso di potere, in relazione all'art. 33 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, deducendo che il provvedimento avrebbe dovuto essere adottato ai sensi dell'art. 33 e non dell'art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001, trattandosi di ristrutturazione e non di un intervento di nuova costruzione; di violazione di legge, in relazione agli artt. 7 e 8 della L. n. 241 del 1990, per la mancata comunicazione di avvio del procedimento; di violazione di legge ed eccesso di potere per la genericità della indicazione delle parti da demolire e per la mancata valutazione della demolizione sulle parti legittime del fabbricato; di violazione dell'art. 92 comma 5 della L.R. n. 61 del 1985 e dell'art. 7 della L.R. n. 63 del 1994 per la mancanza del parere della Commissione edilizia integrata.

Con la sentenza n. 1942 del 26 giugno 2009 pronunciata in forma semplificata il giudice di primo grado ha, pur sinteticamente, respinto tutte le censure.

Con il presente atto di appello sono stati riproposti tutti i motivi del ricorso di primo grado lamentando l'erroneità e la carenza della motivazione della sentenza appellata.

Il Comune di Belluno non si è costituito in giudizio.

La difesa appellante ha depositato memoria, per l'udienza pubblica, insistendo per l'accoglimento del primo motivo relativo alla mancata applicazione dell'art. 33 del D.P.R. n. 380 del 2001; ha poi presentato istanza di passaggio in decisione senza discussione orale

All'udienza pubblica del 12 gennaio 2021, tenuta ai sensi dell'art. 25 del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137 conv. dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, il giudizio è stato trattenuto in decisione
Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso riproposto in appello si lamenta che per le opere abusivamente realizzate avrebbe dovuto essere adottato un provvedimento, ai sensi dell'art. 33 del D.P.R. n. 380 del 2001, trattandosi di ristrutturazione e non di nuova costruzione.

Tale motivo è infondato.

L' art. 3 comma 3 lettera d) del D.P.R. n. 380 del 2001, nel testo vigente al momento di adozione del provvedimento di demolizione impugnato, definiva "interventi di ristrutturazione edilizia", "gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica".

Quindi, la disposizione poneva quale limite per la configurazione della ristrutturazione in caso di demolizione e ricostruzione, il rispetto della medesima sagoma e del medesimo volume dell'opera preesistente (limiti successivamente in parte superati dalle modifiche legislative - non applicabili al caso di specie - introdotte dal D.L. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 agosto 2013, n. 98, che ha eliminato il limite del volume, e dal D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 settembre 2020, n. 120, che ha ristretto il limite della sagoma agli interventi eseguiti nelle zone A).

Il rispetto dell'identità tra sagoma e volume, cioè, distingueva la ristrutturazione dalla nuova costruzione, per cui secondo la giurisprudenza si restava nell'ambito della ristrutturazione solo quando ad un manufatto preesistente fossero apportate modifiche qualitative inidonee ad incidere sulla volumetria, sulla superficie e sulla sagoma del fabbricato ovvero quando, a seguito della demolizione di un manufatto precedente, ne venisse realizzato, a breve distanza di tempo, uno nuovo, purché tuttavia uguale per sagoma, volume e superficie. Negli altri casi si ricadeva nell'ambito della nuova costruzione (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 5 agosto 2020, n. 4929).

Con riguardo alla disciplina normativa vigente fino al 2013, dunque, la nozione di ristrutturazione edilizia comprendeva la demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma, richiedendo la conservazione delle caratteristiche fondamentali dell'edificio preesistente, nel senso che dovevano essere presenti le linee fondamentali per sagoma e volumi. La ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione, doveva conservare le caratteristiche fondamentali dell'edificio preesistente e la successiva ricostruzione dell'edificio deve riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma, superfici e volumi (Cons. Stato Sez. IV, 9 agosto 2018, n. 4880; id. 30 maggio 2013 n. 2972; Cons. Stato Sez. IV, 9 luglio 2010, n. 4462).

Rispetto alla definizione contenuta nell'art. 3, non viene poi considerata in contraddizione la previsione dell'art. 10 comma 1 lettera c) del D.P.R. n. 380 del 2001, che richiede il permesso di costruire per "gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso".

Infatti, sulla base di tale differente disciplina la giurisprudenza ha individuato due ipotesi di ristrutturazione edilizia: la ristrutturazione edilizia cd. "conservativa", che può comportare anche l'inserimento di nuovi volumi o modifica della sagoma; la ristrutturazione edilizia cd. "ricostruttiva", attuata mediante demolizione, anche parziale, e ricostruzione, che deve rispettare il volume e la sagoma dell'edificio preesistente, con la conseguenza che, in difetto, viene a configurarsi una nuova costruzione.

Il legislatore nazionale - a fronte delle due tipologie di ristrutturazione edilizia - non ha escluso che quest'ultima possa comportare anche modifiche di volume o di sagoma, ma ha escluso che possano aversi queste ultime modifiche nel caso di ristrutturazione caratterizzata da demolizione e successiva ricostruzione del fabbricato, in cui è richiesta la ricostruzione di un fabbricato identico per sagoma e volume (cfr. Cons. Stato Sez. IV, 20 aprile 2017, n. 1847; id. 2 febbraio 2017, n. 443; Sez. II, 25 ottobre 2019, n. 7289).

Quindi, un intervento di demolizione e ricostruzione che non rispetti il volume e la sagoma dell'edificio preesistente configura un intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia.

Pertanto, si deve ritenere che, nel caso di specie, siano stati superati i limiti della ristrutturazione edilizia, essendo stato realizzato un intervento, anche se parziale, di demolizione e ricostruzione del corpo adiacente al fabbricato.

Risulta, infatti, chiaramente già dagli elaborati progettuali allegati alla domanda di accertamento di conformità presentata il 15 maggio 2006, poi respinta dal Comune il 21 febbraio 2008, che una parte del cd. "annesso laterale" sia stata demolita, che la ricostruzione sia avvenuta con sagoma e volume differente, con la realizzazione quindi di un organismo edilizio diverso rispetto a quello preesistente.

E' poi la stessa parte appellante, nell'atto di appello, a descrivere i lavori effettuati come opere di demolizione e ricostruzione con modifiche della sagoma (dovute oltre all'ampliamento del fabbricato, alla eliminazione della scala esterna) e del volume del fabbricato preesistente, rilevanti, quindi ai fini della qualificazione delle opere realizzate come nuova costruzione, anche se il nuovo volume ha comportato, in base agli allegati progettuali alla domanda di sanatoria, un aumento volumetrico di dimensioni contenute (pari a 5 metri cubi complessivi in base a quanto affermato anche nell'atto di appello).

Ne deriva che l'intervento realizzato esorbitava dalla definizione allora vigente di ristrutturazione, per il superamento dei limiti della sagoma e del volume, rientrando invece nella nuova costruzione, con conseguente corretta applicazione dell'art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001, come, pur sinteticamente, affermato dal giudice di primo grado.

Infatti, l'art. 33 del D.P.R. n. 380 del 2001 si riferisce espressamente solo agli interventi e alle opere di "ristrutturazione edilizia" realizzati in assenza del permesso di costruire o in totale difformità da esso, e non è applicabile al di fuori delle ipotesi di ristrutturazione edilizia (cfr. Cons. Stato Sez. VI, 24 settembre 2010, n. 7129).

Nel caso di specie, le opere non solo erano soggette a permesso di costruire (come anche sarebbe stato in caso di ristrutturazione), e sono state realizzate in assenza di esso, ma trattandosi di nuova costruzione, rientravano, quindi, nella disciplina dell'art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001.

Con l'ulteriore motivo si lamenta la violazione delle norme sulla partecipazione al procedimento.

Sul punto, ritiene il Collegio di richiamare il consolidato orientamento giurisprudenziale di questo Consiglio, per cui il provvedimento di demolizione, avendo natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, non essendo prevista la possibilità per l'amministrazione di effettuare valutazioni di interesse pubblico relative alla conservazione del bene (Cons. Stato, sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1281; Sez. II, 29 luglio 2019, n. 5317; id. Sez. II, 23 luglio 2020, n. 4704).

Poiché l'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura abusiva delle opere edilizie, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge per reprimere un abuso edilizio; inoltre, il presupposto di fatto del provvedimento di demolizione, ossia l'abuso, costituisce un elemento di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo (Consiglio di Stato, sez. VI, 5 giugno 2017, n. 2681; id., 25 febbraio 2019, n. 1281; Sez. II, 26 giugno 2019, n. 4386).

La natura vincolata del provvedimento di demolizione comporta, in ogni caso, l'applicazione anche dell'art. 21 octies, secondo comma, prima parte, della L. n. 241 del 1990, per cui "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato" (Cons. Stato Sez. II, 23 gennaio 2020, n. 561).

Nel caso di specie, inoltre, la parte era già a conoscenza dell'abusività della opera, avendo presentato domanda di sanatoria, espressamente respinta dall'Amministrazione comunale con il provvedimento del 21 febbraio 2008, a cui è seguita anche una successiva nota in data 29 febbraio 2008, di avvio del successivo procedimento.

Con ulteriore motivo si lamenta la mancata chiara indicazione nel provvedimento impugnato delle parti da demolire.

Anche tale motivo è infondato.

Premesso che nell'ingiunzione di demolizione è necessaria e sufficiente la descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento (Consiglio di Stato, Sez. VI, 6 febbraio 2019, n. 903; Sez. IV, 31 agosto 2018, n. 5124; sez. IV, 11 dicembre 2017, n. 5788), nel caso di specie, il riferimento contenuto nell'ordinanza di demolizione al "corpo accessorio al fabbricato" deve ritenersi sufficiente a descrivere le opere da demolire, considerando che le opere abusive risultavano dagli elaborati progettuali allegati alla domanda di sanatoria, presentata dalla stessa parte odierna appellante ed espressamente richiamata nel provvedimento di demolizione impugnato in primo grado unitamente al diniego della stessa.

Non sussisteva, quindi, alcuna incertezza circa l'individuazione delle opere oggetto della ingiunzione di demolizione.

Lamenta ancora la parte appellante che il Comune non avrebbe valutato la impossibilità di demolire la parte illegittima senza pregiudizio di quella legittima, in particolare del fabbricato principale, a cui il corpo accessorio sarebbe inscindibilmente connesso.

A parte la genericità della riproposizione in appello di tale motivo, ritiene il Collegio di richiamare il consolidato orientamento giurisprudenziale, per cui il D.P.R. n. 380 del 2001 distingue, ai fini sanzionatori, gli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, dagli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, la cui disciplina sanzionatoria è recata dall'art. 34, che contempla anche la possibilità di applicazione della sanzione pecuniaria, nel caso in cui la demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità (Cons. Stato, Sez. VI, 8 maggio 2018, n. 2739 e 24 giugno 2019, n. 4331).

Nel caso di specie, venendo in considerazione la realizzazione, in assenza di titolo edilizio, di opere di nuova costruzione, l'irrogazione della sanzione ripristinatoria, ai sensi dell'art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001 è conforme alle previsioni di legge.

Inoltre, la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria - posta dall'art. 34 del D.P.R. n. 380 del 2001- per la costante giurisprudenza deve essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione; fase esecutiva, nella quale le parti possono dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità del fabbricato, presupposto per l'applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria, con la conseguenza che tale valutazione non rileva ai fini della legittimità del provvedimento di demolizione (Cons. Stato Sez. II, 2 dicembre 2020, n. 7637; id Sez. II 23 gennaio 2020, n. 561; id. Sez. II, 30 ottobre 2020, n. 6653; id. Sez. II, 3 giugno 2020, n. 3476; Sez. VI, 15 giugno 2020, n. 3805).

Infatti, tale disposizione ha valore eccezionale e derogatorio; e non compete all'Amministrazione procedente di dover valutare, prima dell'emissione dell'ordine di demolizione dell'abuso, se essa possa essere applicata, piuttosto incombendo sul privato interessato la dimostrazione, in modo rigoroso e nella fase esecutiva, della obiettiva impossibilità di ottemperare all'ordine stesso senza pregiudizio per la parte conforme (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 23 gennaio 2020, n. 561 e 12 settembre 2019, n. 6147; Sez. VI, 15 luglio 2019, n. 4939, 21 maggio 2019, n. 3280, 9 luglio 2018, n. 4169, 19 novembre 2018, n. 6497 e 29 novembre 2017, n. 5585).

Ritiene, dunque, il Collegio in conformità a tali consolidati orientamenti che, nel caso di specie, il Comune non potesse che ordinare la demolizione delle opere abusivamente realizzate in difetto di titolo edilizio.

Infine, viene riproposta la censura relativa alla mancata acquisizione del parere della Commissione edilizia integrata prima di disporre la demolizione, parere obbligatorio in base all'art. 92 della L.R. del Veneto 27 giugno 1985, n. 61.

La giurisprudenza di questo Consiglio, da cui il Collegio non intende discostarsi nel caso di specie, ha già affermato che l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi, costituendo attività vincolata della amministrazione non comporta la necessità di acquisire il parere di organi, quali la Commissione edilizia integrata (Consiglio di Stato Sez. IV, 10 agosto 2011, n. 4764).

Con specifico riferimento all'art. 92 comma 4 della L.R. del Veneto n. 61 del 1985, che prevede il previo parere della Commissione Edilizia Comunale per i provvedimenti di demolizione, si deve rilevare che il parere della Commissione edilizia non è, comunque, previsto espressamente in tale disciplina regionale come obbligatorio; inoltre, in base alla norma statale dell'art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001, all'accertamento delle opere abusive consegue necessariamente la demolizione, senza alcun riferimento al parere della Commissione edilizia; infine, l'art. 41, comma 1, della L. 27 dicembre 1997, n. 449, aveva consentito alle amministrazioni comunali di eliminare la commissione edilizia, ritenendolo un organo collegiale non indispensabile.

Ne deriva che il parere della Commissione edilizia integrata non si può ritenere elemento di legittimità del provvedimento.

In conclusione l'appello è infondato e deve essere respinto.

Non si provvede alla liquidazione delle spese del presente grado di giudizio non essendo costituita l'Amministrazione resistente.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Nulla spese.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso dalla Seconda Sezione del Consiglio di Stato con sede in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 gennaio 2021 convocata con modalità da remoto e con la contemporanea e continuativa presenza dei magistrati:

Claudio Contessa, Presidente

Italo Volpe, Consigliere

Antonella Manzione, Consigliere

Cecilia Altavista, Consigliere, Estensore

Carla Ciuffetti, Consigliere
Avv. Antonino Sugamele

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