Il consiglio di Stato rigetta il ricorso di Zalando e ferma la “pubblicità parassitaria” durante i grandi eventi sportivi. Per l'organo giurisdizionale la pratica del cosiddetto “ambush marketing” determina una violazione della concorrenza, in quanto lo spettatore associa abusivamente l’immagine e il marchio di un’impresa ad un evento di particolare risonanza mediatica senza essere però legato da rapporti di sostegno, licenza o simili con l’organizzazione della manifestazione
Consiglio di Stato (sentenza n.3118/2025)
Pubblicato il 11/04/2025
N. 03118/2025REG.PROV.COLL.
N. 09655/2023 REG.RIC.
R E P U B B L I C A I T A L I A N A
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9655 del 2023, proposto da
Zalando s.e., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e
difesa dagli avvocati Giovanni De Vergottini, Marco Petitto, Luigi Goglia e
Tankred Thiem, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in persona del legale
rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale
dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione
Prima) n. 13478/2023, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’Autorità Garante della Concorrenza
e del Mercato;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 20 marzo 2025 il Cons. Giovanni
Pascuzzi e uditi per le parti gli avvocati Marco Petitto, Thiem Tankred,
Simona Lavagnini, per delega dell'avv. Luigi Goglia, e Anna Collabolletta
dell'Avvocatura Generale dello Stato;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Con ricorso del 2022 Zalando s.e. ha chiesto al Tar per il Lazio
l’annullamento del provvedimento n. 30099/2022, dell’Autorità Garante della
Concorrenza e del Mercato (AGCM), relativo al procedimento amministrativo
PV 16/2021.
2. Con tale atto AGCM ha irrogato a Zalando una sanzione amministrativa
pecuniaria di 100.000 € (centomila euro) per una attività pubblicitaria
parassitaria ai sensi dell’articolo 10, commi 1 e 2, lettera a), del decreto-legge
11 marzo 2020, n. 16, convertito con modificazioni dalla legge 8 maggio 2020,
n. 31, per la condotta di seguito descritta (punto II dell’atto impugnato):
«diffusione, nella stessa piazza di Roma in cui era allestita dalla UEFA l’area Football
Village ufficiale dell’evento calcistico internazionale “UEFA Euro 2020”, di una
affissione di grandi dimensioni in cui era presente l’espressione “Chi sarà il vincitore?”, era
indicato il nominativo di Zalando ed erano raffigurate le 24 bandiere delle Nazioni
partecipanti all’evento ed una maglia calcistica bianca in cui compariva il logo distintivo di
Zalando».
AGCM (punto 44 del provvedimento in parola) ha ritenuto che il messaggio
pubblicitario oggetto del provvedimento integrasse «una attività pubblicitaria
parassitaria vietata ai sensi dell’articolo 10, commi 1 e 2 del Decreto Legge 16/2020 in
quanto idonea, in ragione del luogo in cui è stata realizzata nonché delle espressioni e
raffigurazioni che compaiono nel messaggio, a creare un collegamento fra il marchio Zalando
e l’evento calcistico UEFA Euro 2020 e ad indurre in errore il pubblico dei destinatari
sulla identità degli sponsor lasciando intendere che Zalando sia, contrariamente al vero,
sponsor dell’evento».
3. A sostegno dell’impugnativa, Zalando formulava i seguenti motivi di
ricorso:
I. Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 l. 241/1990, nonché eccesso di
potere per motivazione generica e apodittica – Falsa applicazione dell’art. 10,
comma 2, lett. a) del decreto-legge 16/2020 convertito legge n. 131 del 31
maggio 2020 per ommessa valutazione dell’elemento “idoneo a indurre in
errore il pubblico”.
Si sosteneva che ai sensi dell’art. 10, comma 2, lett. a) del d.l. n. 16/2020 il
presupposto per poter affermare il carattere parassitario di una pubblicità è
duplice: (i) deve sussistere un collegamento anche indiretto fra un marchio o
altro segno distintivo e uno degli eventi di cui al comma 1; (ii) tale
collegamento deve essere idoneo a indurre in errore il pubblico sull’identità
degli sponsor ufficiali. Ma nella specie la decisione è stata fondata sulla base
del solo criterio del presunto collegamento tra marchio e evento sportivo,
tralasciando completamente l’analisi del secondo, e decisivo, requisito
dell’induzione in errore.
II. Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 l. 241/1990, nonché eccesso di
potere per carenza di istruttoria – Falsa applicazione dell’art. 10, comma 2,
lett. a) del decreto-legge 16/2020 convertito con legge n. 131 del 31 maggio
2020.
Si sosteneva che:
- nella fase istruttoria del procedimento amministrativo erano emersi indizi
chiari, precisi e concordanti che dovevano portare ad escludere ogni idoneità
della pubblicità in parola ad indurre in errore il pubblico;
- non erano stati adoperati elementi tipicamente utilizzati da sponsor di eventi
sportivi;
- l’Autorità non aveva considerato l’esatta portata della condotta della
ricorrente nella sua interezza;
- senza alcuna motivazione la maglietta riportata nell’immagine veniva definita
maglietta di calcio e l’impatto della presenza degli elementi grafici diversi dalle
bandiere non era stato preso in alcuna considerazione.
III. Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 l. 241/1990, nonché eccesso di
potere per carenza di istruttoria – Falsa applicazione dell’art. 10, comma 2,
lett. a) del decreto-legge 16/2020 convertito con legge n. 131 del 31 maggio
2020 per omessa ricostruzione delle caratteristiche di Piazza del Popolo nel
momento dell’avvenuta affissione della pubblicità contestata.
Si evidenziava che:
- l’inaugurazione del Football Village di Piazza del Popolo ha avuto luogo
soltanto in data 11 giugno 2021 e quindi dopo l’avvenuta rimozione
dell’affissione contestata;
- rientrava già nei piani di Zalando di sostituire il manifesto oggetto di
contestazione a decorrere dall’8 giugno;
- sarebbe stato corretto e opportuno parlare di Football Village solo dopo la
data dell’11 giugno 2021.
IV. Violazione e falsa applicazione dell’art. 10, comma 2, lett. a) del decreto-
legge 16/2020 convertito con legge n. 131 del 31 maggio 2020 per ommessa
considerazione di diritti fondamentali.
Si stigmatizzava l’omessa considerazione del fatto che la campagna
pubblicitaria fosse orientata a valorizzare tematiche di rilievo sociale quali
l’inclusione di minoranze di orientamento sessuale.
V. Illegittimità dell’omessa considerazione, a fini sanzionatori, della novità
della fattispecie - Violazione dell’art. 11 della l. n. 689/1981.
Il ricorrente si doleva dell’importo eccessivo della sanzione.
3. Nel giudizio di primo grado si costituiva in resistenza AGCM.
4. Con sentenza n. 13478/2023 il Tar per il Lazio ha respinto il ricorso.
4.1 Il Tar ha preliminarmente affermato che la normativa applicata alla
fattispecie si sostanzia in un’estensione dell’intervento repressivo pubblico al
fine di irrobustire e salvaguardare il corretto funzionamento del mercato e dei
professionisti che vi operano (viceversa, la tutela dei consumatori è affidata
alle regole del codice del consumo sulle pratiche commerciali scorrette).
4.2 Il Tar ha ritenuto esistente il collegamento tra Zalando e gli europei di
calcio, in ragione:
- della vicinitas del cartellone;
- della raffigurazione sullo stesso di una maglietta da calcio stilizzata, corredata
da 24 bandiere (proprio quelle delle squadre partecipanti alla manifestazione
sportiva) e dalla scritta «Chi sarà il vincitore?»;
- della insussistenza della scriminante rappresentata dal mancato impiego di
immagini protette o di parole come «Euro 2020» (atteso che la norma
sanzionatoria vieta anche i collegamenti indiretti);
- della riconoscibilità della maglietta come calcistica;
- della connessione con la competizione sportiva tanto della collocazione della
maglietta tra le 24 bandiere delle federazioni nazionali partecipanti al torneo
quanto dello slogan «Chi sarà il vincitore?»;
- del posizionamento dell’affissione in contiguità con il football village romano.
4.3 Secondo il primo giudice l’AGCM ha correttamente motivato in ordine
alla decettività del messaggio perché:
- gli elementi illustrati (ossia la maglietta calcistica, la vicinanza e lo slogan
impiegato), oltre a creare il collegamento indiretto, inducono, nell’avventore
medio, l’idea di inclusione della società ricorrente tra gli sponsor della
competizione;
- gli elementi di raccordo erano idonei a sviare il pubblico e il ricorrente non
ha spiegato per quale ragione il messaggio pubblicitario possa (o debba)
considerarsi lecito;
- non hanno rilievo le deduzioni circa il collegamento della disposta affissione
con le tematiche di inclusione delle minoranze di orientamento sessuale
poiché tale circostanza non emerge in alcun modo dalla pubblicità censurata,
risultando chiarita solo da un successivo cartellone che avrebbe dovuto
sostituire quello contestato;
- l’intervento dell’Autorità non limitava diritti fondamentali, né diveniva
censura autoritaria di una libera manifestazione del pensiero ma
semplicemente, bilanciava contrapposte libertà d’iniziativa economica privata
nell’ambito di un procedimento pienamente conforme alla legge nazionale,
nonché agli impegni sovranazionali assunti dallo Stato italiano;
- istanze ad alto valore sociale, come l’inclusione delle minoranze di
orientamento sessuale, ben avrebbero potuto essere promosse mediante
strumenti che non ingenerassero un collegamento indiretto con la
competizione sportiva.
4.4 Il Tar ha ritenuto irrilevante la circostanza che il cartellone avrebbe dovuto
rimanere affisso sino all’8 giugno 2021, ossia tre giorni prima dell’avvio degli
europei di calcio perché:
- le fotografie scattate dalla Guardia di finanza mostravano chiaramente la
contestuale presenza degli stand dell’UEFA e del cartellone contestato;
- le argomentazioni difensive sulla piena legittimità di questa nuova réclame
(raffigurante anch’essa la medesima maglietta calcistica con altra fantasia) non
appaiono convincenti visto che l’Autorità non rilevava la liceità della seconda
pubblicità, bensì ometteva l’indagine su di essa in quanto mai impiegata.
4.5 Con riferimento al quantum della sanzione, il Tar ha ritenuto corretto
l’operato dell’Autorità che ha determinato la sanzione nel limite edittale
minimo previsto dalla legge.
5. Avverso la sentenza del Tar per il Lazio n. 13478/2023 ha proposto appello
Zalando s.e. per i motivi che saranno più avanti esaminati.
6. Si è costituita AGCM chiedendo il rigetto dell’appello.
7. All’udienza del 20 marzo 2025 l’appello è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
1. Il primo motivo di appello è rubricato: «Error in iudicando. Violazione e falsa
applicazione dell’art. 3 l. 241/1990, nonché eccesso di potere per motivazione generica e
apodittica – Falsa applicazione dell’art. 10, comma 2, lett. a) del decreto-legge 16/2020
convertito legge n. 131 del 31 maggio 2020 per ommessa valutazione dell’elemento “idoneo
a indurre in errore il pubblico».
L’appellante sostiene che:
il Tar ha errato nel ritenere il provvedimento impugnato correttamente
motivato;
- l’atto impugnato ha analizzato soltanto uno dei due presupposti della norma
applicata, senza argomentare, in modo specifico e puntuale, le ragioni per le
quali tutti i singoli presupposti di applicazione della norma dovrebbero dirsi
nel caso di specie integrati;
- affinché si possa affermare il carattere illecito di una pubblicità, è necessario
che ricorra non solo (i) un collegamento tra marchio/segno distintivo ed
evento sportivo, bensì anche (ii) la sua attitudine e idoneità decettiva circa la
presenza del titolare di quel marchio/segno distintivo tra gli sponsor
dell’evento;
- provvedimento e sentenza del Tar hanno preso in considerazione soltanto il
criterio del presunto collegamento tra marchio e evento sportivo, tralasciando
completamente l’analisi del secondo, e decisivo, requisito dell’induzione in
errore;
- non è stato spiegato perché il presunto collegamento tra marchio ed evento
abbia indotto in errore il pubblico circa la presenza del marchio tra gli
sponsor dell’evento;
- l’AGCM ha ipotizzato una specie di automatismo tra la ricorrenza del primo
elemento e quella del secondo elemento: ma si tratta di un errore
fondamentale e tale da allargare le maglie della fattispecie in maniera
esorbitante rispetto alla ratio della norma e degli interessi, ancorché
corporativi ed esogeni, che essa si prefigge di tutelare;
- l’intenzione del legislatore non era quella di creare automatismi: se così fosse
stato, sarebbe bastato eliminare qualsiasi riferimento all’idoneità di induzione
in errore;
- il riferimento all’idoneità di induzione in errore, invece, ha la funzione di
restringere l’ipotesi sanzionatoria e di tutelare, per quanto possibile, un’area di
libertà con riguardo a diritti fondamentali quali quello di espressione e di
libertà economica;
- secondo la sentenza impugnata risulterebbe dalla «natura delle cose (specie nel
settore pubblicitario) che il collegamento tra un evento sportivo (ad alto impatto mediatico) e
una réclame sia subordinato, nella coscienza comune, all’esistenza di un rapporto negoziale,
in forza del quale è consentita appunto la sponsorizzazione»;
- si tratta di un postulato non dimostrato e apodittico che esclude in maniera
definitiva e mortale ogni evento sportivo “di alto impatto mediatico” dal
novero dei fatti “storici” anche solo “accennabili” nel contesto commerciale:
questo non è - e non può essere - il senso delle norme in esame;
- occorre partire dalla lettera della legge;
- affermare apoditticamente che in ogni caso di collegamento tra pubblicità ed
evento vi sarebbe “nella coscienza comune” sempre l’idea dell’esistenza “di un
rapporto negoziale” equivale ad un abbandono totale del criterio
dell’induzione nell’errore;
- un siffatto abbandono è una scelta che nel nostro sistema di ripartizione dei
poteri spetta al legislatore, che deliberatamente ha provveduto a qualificare
ulteriormente il criterio del “collegamento”.
2. Il secondo motivo di appello è rubricato: «Error in iudicando. Violazione e falsa
applicazione dell’art. 3 l. 241/1990, nonché eccesso di potere per carenza di istruttoria –
Falsa applicazione dell’art. 10, comma 2, lett. a) del decreto-legge 16/2020 convertito con
legge n. 131 del 31 maggio 2020 e violazione dell’onere della prova».
L’appellante sostiene che:
- il provvedimento impugnato non motiva e non adduce alcun mezzo di prova
idoneo a dimostrare che gli elementi di raccordo che costituirebbero il
“collegamento indiretto” sarebbero anche idonei all’induzione in errore in
merito alla sponsorizzazione dell’evento;
- la sentenza impugnata, nella parte in cui afferma che «le argomentazioni spese
dalla parte ricorrente si risolvono nella mera negazione di quanto sostenuto dall’AGCM,
senza allegazione di alcun elemento (neppure un principio di prova) che possa infirmare il
logico ragionamento dell’Autorità» introduce una inammissibile inversione
dell’onere della prova in ordine alla sussistenza del collegamento;
- in altri ordinamenti il criterio dell’induzione in errore assume la corretta
rilevanza e viene trattata con la corretta attenzione (si fa l’esempio di una
sentenza della Cassazione francese del 20 maggio 2014);
- fermo restando che non è giustificato l’inversione dell’onere della prova,
occorre rilevare che nella fase istruttoria del procedimento amministrativo
erano emersi indizi chiari, precisi e concordanti che militano per escludere
ogni idoneità della pubblicità in parola ad indurre in errore il pubblico;
- la decisione AGCM e la sentenza impugnata hanno semplicemente omesso
ogni analisi di tali indizi;
- tali indizi sono: (i) l’assenza di parole come “Euro 2020”, (ii) l’assenza di
immagini protette come marchi figurativi e (iii) l’assenza della riproduzione di
personaggi tutelati dal diritto d’autore (si tratta di situazioni in cui il titolare
e/o licenziatario si sarebbe trovato come detentore di un diritto assoluto
avvallata da garanzie costituzionali della proprietà);
- il concetto di idoneità all’induzione in errore è inversamente proporzionale a
quello di collegamento con l’evento, con la conseguenza che quanto più tenue
- se esistente - è il collegamento con la manifestazione, tanto più palese - ed
oggetto di una qualche onere probatorio da chi ne alleghi la sussistenza (e non
viceversa) - deve essere la caduta in errore del “pubblico” per la
configurazione dell’illecito;
- la sentenza impugnata non è sufficientemente argomentata nella parte in cui
afferma che il mancato impiego di immagini protette o di parole come «Euro
2020» non costituirebbe scriminante, atteso che la norma sanzionatoria vieta
anche i collegamenti indiretti, quale quello accertato con il provvedimento
gravato: la norma non vieta tutti i collegamenti indiretti ma soltanto coloro
che sono “idonei ad indurre il consumatore”;
- mentre nel caso di collegamenti diretti (vale a dire utilizzo di parole come
“UEFA” oppure “Euro 2020”) l’idoneità all’induzione in errore può (ma non
necessariamente deve) risultare in maniera evidente, lo stesso non si applica ai
collegamenti indiretti;
- per quanto riguarda gli elementi stigmatizzati (vale a dire la raffigurazione di
bandiere) non può essere oggetto di monopolio l’uso di stemmi, bandiere,
emblemi ufficiali (art. 10 c.p.i.; art. 6-ter Convenzione di Parigi);
- tanto il provvedimento impugnato quanto la sentenza del Tar non hanno
preso posizione sulle critiche mosse da Zalando in istruttoria in merito al
criterio del “collegamento” tra marchio ed evento (focalizzazione sulle
bandiere delle 24 Nazioni partecipanti senza considerare i plurimi elementi
aggiuntivi che compongono l’immagine pubblicitaria e che sono totalmente
slegati da qualsivoglia manifestazione sportiva: (i) presenza al centro del telo
di una semplice maglietta bianca priva degli elementi tipici delle magliette
calcistiche; (ii) presenza sul medesimo telo di ben sedici simboli stilizzati e
colorati che nulla hanno a che vedere con la manifestazione Euro 2020);
- nella sentenza impugnata la maglietta riportata nell’immagine è
apoditticamente definita “maglietta di calcio” e l’impatto della presenza degli
elementi grafici diversi dalle bandiere non viene preso in alcuna
considerazione;
- per un pubblico non specialistico l’immagine è semplicemente quella di una
maglietta bianca, circondata da diversi elementi colorati, alcuni di pura
fantasia, altri nei colori di bandiere di diverse nazioni (bandiere che solo un
conoscitore di calcio poteva ricondurre nell’immediatezza alle nazioni
partecipanti al torneo);
- Piazza del Popolo a Roma, (i) non è assimilabile ad uno Stadio durante una
partita di calcio: il luogo in parola costituisce l’ingresso alla zona pedonale
aperta a tutti ed anche ad un pubblico che non è minimamente interessato al
torneo di calcio; (ii) è una piazza spesso luogo di manifestazioni ed espressioni
del pensiero; e (iii) non poteva considerarsi “Football Village” nel momento
dell’affissione della pubblicità.
3. Il terzo motivo di appello è rubricato: «Error in iudicando. Violazione e falsa
applicazione dell’art. 3 l. 241/1990, nonché eccesso di potere per carenza di istruttoria –
Falsa applicazione dell’art. 10 comma 2 lett. a) del decreto-legge 16/2020 convertito con
legge n. 131 del 31 maggio 2020 per omessa ricostruzione delle caratteristiche di Piazza
del Popolo nel momento dell’avvenuta affissione della pubblicità contestata».
L’appellante critica la sentenza impugnata nella parte in cui, con riferimento al
luogo in cui è stato affisso il manifesto; afferma: (i) «va rilevato come le fotografie
scattate dalla Guardia di finanza mostrino chiaramente la contestuale presenza degli stand
dell’Uefa e del cartellone contestato: si tratta, quindi, di una chiara dimostrazione
dell’esistenza del collegamento indiretto tra il cartellone pubblicitario e la competizione
calcistica»; e (ii) «Infine, irrilevante è la circostanza che il cartellone avrebbe dovuto
rimanere affisso sino all’8 giugno 2021, ossia tre giorni prima dell’avvio degli europei di
calcio».
In particolare si sostiene che:
- l’inaugurazione del cosiddetto Football Village di Piazza del Popolo ha avuto
luogo soltanto in data 11 giugno 2021 e quindi dopo l’avvenuta rimozione
dell’affissione contestata;
- rientrava già nei piani di Zalando sostituire il manifesto oggetto di
contestazione a decorrere dall’8 giugno;
- una corretta ricostruzione dei fatti avrebbe dovuto considerare Piazza del
Popolo di Roma al più come luogo del “futuro Football Village” e avrebbe
altresì dovuto porre in evidenza che nei giorni di esposizione del manifesto
non esisteva di fatto, o comunque non era in funzione, alcun “Football Village”;
- se il Tar avesse dato atto di ciò, allora si sarebbe verosimilmente determinato
a rinvenire – ove mai esistente - un collegamento tra la ricorrente e l’evento
Euro 2020 ancora più tenue;
- sarebbe stato corretto e opportuno parlare di “Football Village” solo dopo la
data dell’11 giugno 2021, quando cioè le partite di calcio sarebbero state
effettivamente trasmesse;
- far riferimento ad un pubblico di “tifosi” in un momento in cui detto
pubblico neppure era ipotizzabile, rappresenta un’ulteriore grave distorsione
nel percorso logico della sentenza gravata;
- nel momento di fruizione del messaggio promozionale contestato, il
pubblico di Piazza del Popolo era quello ordinario di turisti e cittadini al pari
di quello rinvenibile in qualsiasi momento dell’anno.
4. Il quarto motivo di appello è rubricato: «Error in iudicando. Violazione e falsa
applicazione dell’art. 10, comma 2, lett. a) del decreto-legge 16/2020 convertito con legge
n. 131 del 31 maggio 2020 per ommessa considerazione di diritti fondamentali».
L’appellante sostiene che:
- la normativa in discussione è strettamente connessa all’esercizio di diritti
fondamentali (come libertà di iniziativa economica e libertà di espressione),
garantiti dalla Costituzione (artt. 41, comma 1; 21, comma 1) e dalla Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea (artt. 16; 11);
- il fine economico insito in ogni attività promozionale non toglie il carattere
prettamente politico del messaggio qui in parola e l’applicabilità allo stesso
delle garanzie che assistono il diritto fondamentale di cui all’art. 21 della
Costituzione (concetto affermato anche dalla CEDU anche con riferimento
specifico ai messaggi di natura promozionale: cfr. il caso Sekmadienis Ltd. v.
Lithuania);
- la sentenza impugnata non ha effettuato alcun bilanciamento tra libera
manifestazione del pensiero e libertà di iniziativa economica;
- dal provvedimento e dalla sentenza del Tar emerge un divieto di parlare
dell’evento che comporta una chiara violazione della libertà di espressione;
- il divieto cancella il diritto, quando invece l’ordinamento ne richiede, (i) la
salvaguardia e poi (ii), ove mai un interesse degno di tutela si affacciasse
all’orizzonte, quantomeno un adeguato bilanciamento;
- va ribadita (i) l’importanza di garantire la proporzionalità della tutela in sede
di attuazione e va sottolineata (ii) la centralità della libertà di espressione,
libertà che verrebbe svuotata di contenuto di fronte ad un eccesso di
privatizzazione;
- un evento sportivo non dovrebbe essere considerato come una “cerimonia
privata” da parte degli organizzatori e degli sponsor partecipanti;
- sussiste il timore che un eccesso di regolamentazione ed una percezione di
un evento sportivo come cerimonia privata rischi di ledere, ed anzi di
estinguere, proprio quell’euforia generale e partecipazione empatica di tutti
che costituiscono il presupposto emozionale dei grandi eventi sportivi;
- nel caso di specie, Zalando si è vista costretta ad abbandonare una iniziativa
che coniugava i propri interessi economici con il sostegno della diversità
(tutelata dalla Costituzione); e tutto questo in relazione ad un evento i cui
benefici pubblici sono certamente limitati rispetto ad altri eventi sportivi che
celebrano nella loro interezza sul territorio italiano: considerando che tra gli
augurati effetti degli eventi presi in considerazione dal d.l. 16/2020 vi era
anche l’impatto “in campo sociale e culturale”, saremmo di fronte ad un
risultato quasi grottesco.
5. Il quinto motivo di appello è rubricato: «Error in iudicando. Illegittimità
dell’omessa considerazione, a fini sanzionatori, della novità della fattispecie - Violazione
dell’art. 11 della l. n. 689/1981».
L’appellante sostiene che:
- ove anche fosse accertata l’infrazione, non sussisterebbero i presupposti per
l’irrogazione di una sanzione pecuniaria, in considerazione dei profili di
assoluta novità della fattispecie introdotta dalle disposizioni della legge n.
16/2020, che rappresenta il primo caso di attività pubblicitaria parassitaria
indagato dall’Autorità;
- nel contiguo ambito antitrust, l’Autorità ha riconosciuto l’esigenza di limitare
il valore della sanzione ad un ammontare simbolico o, comunque, minimo, in
considerazione della natura innovativa della fattispecie;
-tali principi devono operare anche con riferimento alla disciplina di cui all’art.
10 e ss. del decreto legge n. 16 dell’11 marzo 2020, che ai fini di
commisurazione della sanzione si basa, come la disciplina antitrust, sulla
applicazione dell’art. 11 della legge n. 689/81;
- la statuizione del Tar sul punto non è condivisibile: la presa in
considerazione della “novità della fattispecie” costituisce l’espressione di un
principio generale, che tiene conto dell’impossibilità della parte accusata della
commissione di un illecito amministrativo di interpretare una fattispecie
attraverso precedenti giurisprudenziali;
- tale principio non trova la sua origine nell’art. 15 della legge 10 ottobre 1990,
n. 287, menzionata nella sentenza impugnata.
6. L’appello è infondato.
7. Viene portata all’attenzione del collegio la prima applicazione concreta delle
nuove disposizioni in materia di divieto di attività parassitaria (cosiddetto
“ambush marketing”) contenute nel d.l. 11 marzo 2020 n. 16 (recante
«Disposizioni urgenti per l'organizzazione e lo svolgimento dei Giochi olimpici e
paralimpici invernali Milano Cortina 2026 e delle finali ATP Torino 2021 - 2025,
nonché in materia di divieto di attività parassitarie») convertito in legge, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, l. 8maggio 2020, n. 31 (in particolare negli
articoli da 10 a 14).
Per effetto dell’articolo 10 del d.l. citato (a far data dal 13 maggio 2020) «sono
vietate le attività di pubblicizzazione e commercializzazione parassitarie, fraudolente,
ingannevoli o fuorvianti poste in essere in relazione all'organizzazione di eventi sportivi o
fieristici di rilevanza nazionale o internazionale non autorizzate dai soggetti organizzatori
e aventi la finalità di ricavare un vantaggio economico o concorrenziale».
In particolare vengono vietate quattro condotte specifiche:
- (i) la creazione di un collegamento anche indiretto fra un marchio o altro
segno distintivo e uno degli eventi prima citati, idoneo a indurre in errore il
pubblico sull'identità degli sponsor ufficiali [è l’ipotesi cui è ascrivibile il caso
di specie];
- (ii) la falsa rappresentazione o dichiarazione nella propria pubblicità di essere
sponsor ufficiale di un evento tra quelli prima citati;
- (iii) la promozione del proprio marchio o altro segno distintivo tramite
qualunque azione, non autorizzata dall'organizzatore, che sia idonea ad attirare
l'attenzione del pubblico, posta in essere in occasione di uno degli eventi
prima citati, e idonea a generare nel pubblico l'erronea impressione che
l'autore della condotta sia sponsor dell'evento sportivo o fieristico medesimo;
- (iv) la vendita e la pubblicizzazione di prodotti o di servizi abusivamente
contraddistinti, anche soltanto in parte, con il logo di un evento sportivo o
fieristico tra quelli prima citati ovvero con altri segni distintivi idonei a indurre
in errore il pubblico circa il logo medesimo e a ingenerare l'erronea
percezione di un qualsivoglia collegamento con l'evento ovvero con il suo
organizzatore o con i soggetti da questo autorizzati.
Non costituiscono attività di pubblicizzazione parassitaria le condotte poste in
essere in esecuzione di contratti di sponsorizzazione conclusi con singoli
atleti, squadre, artisti o partecipanti autorizzati a uno degli eventi prima
richiamati.
I divieti appena elencati operano a partire dalla data di registrazione dei loghi,
brand o marchi ufficiali degli eventi in parola fino al centottantesimo giorno
successivo alla data ufficiale del termine degli stessi (art. 11 del d.l. in esame).
7.1 La normativa appena richiamata ha rilevanza squisitamente pubblicistica.
Nell’ipotesi, infatti, che qualcuno violi i divieti di cui sopra l’Autorità garante
della concorrenza e del mercato è chiamata ad accertare le violazioni e ad
irrogare la sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma
da 100.000 euro a 2,5 milioni di euro (art. 12 del d.l. in esame).
Ma il cosiddetto “ambush marketing” può assumere rilevanza anche sul piano
della tutela civile e della tutela penale. L’art. 12 appena citato prevede
l’irrogazione della sanzione pecuniaria «Salvo che la condotta costituisca reato o più
grave illecito amministrativo». E l’articolo 13 del d.l. 16/2020 chiarisce, ove ce ne
fosse stato bisogno, che le previsioni di natura pubblicistica in esame «non
escludono l'applicazione delle altre previsioni di legge a tutela dei soggetti che deducono la
lesione di propri diritti o interessi per effetto delle condotte di cui all'articolo 10» [si pensi
alla disciplina sulla tutela della concorrenza, ovvero alla disciplina dei marchi,
o, ancora, all’art. 21 del codice del consumo che vieta le pratiche commerciali
idonee ad indurre in errore i consumatori su elementi come l'esistenza o la
natura del prodotto, le sue caratteristiche, la portata degli impegni del
professionista e così via].
Sul tema della pubblicità parassitaria il giudice civile ha stabilito alcuni principi
che possono essere così sintetizzati:
- la pratica dell’“ambush marketing” consiste nell’associazione di un marchio o
di un prodotto ad un evento di grande risonanza mediatica, effettuata senza
l’autorizzazione dell’organizzatore dell’evento; [per inciso, conviene ricordare
che la European Sponsorship Association nel «Policy Paper on Ambush Marketing» del
2014 distingue tre tipi fondamentali di pratiche di questo tipo: “ambush by
association”, caratterizzato da un’associazione indiretta del marchio all’evento;
“ambush by intrusion”, con il quale l’ambusher dà visibilità al suo marchio nei
luoghi in cui si svolge l’evento o nelle loro immediate vicinanze; “opportunistic
marketing”, con il quale l’ambusher approfitta di determinati episodi svoltisi
durante l’evento per dare visibilità al suo marchio];
- la pratica dell’“ambush marketing” è considerata ingannevole, poiché induce in
errore il consumatore medio sull’esistenza di rapporti di sponsorizzazione
ovvero di affiliazione o comunque di collegamenti con i titolari di diritti di
proprietà intellettuale invece, insussistenti e costituisce un’ipotesi particolare di
concorrenza sleale contraria alla correttezza professionale che può trovare
tutela nell’alveo generale dell’art. 2598, comma 3, c.c.;
- con la figura dell’“ambush marketing” il concorrente sleale associa
abusivamente l’immagine ed il marchio di un’impresa ad un evento di
particolare risonanza mediatica senza essere legato da rapporti di
sponsorizzazione, licenza o simili con l’organizzazione della manifestazione;
in tal guisa lo stesso si avvantaggia dell’evento senza sopportarne i costi, con
conseguente indebito agganciamento all’evento ed interferenza negativa con i
rapporti contrattuali tra organizzatori e soggetti autorizzati;
- si tratta di illecito plurioffensivo, ove i soggetti danneggiati sono
l’organizzatore dell’evento, il licenziatario (o sponsor) ufficiale ed infine il
pubblico.
7.2 Come si diceva, nel caso di specie si discute unicamente della disciplina di
rilevanza pubblicistica emanata nel 2020.
L’appellante ricorda come, in dottrina, si sia affermato che il d.l. del 2020 non
considera illecite tutte le forme di “ambush marketing” ma solo quelle idonee a
indurre il pubblico in errore circa l’identità degli sponsor ufficiali.
Del pari in dottrina (ricorda sempre l’appellante) si è fatto notare che se è
giusto che i soggetti che acquistano i diritti di sponsorship sui grandi eventi
abbiano un’esclusiva sullo sfruttamento senza essere superati da chi non ha
assunto alcun onere economico rispetto agli stessi non bisogna dimenticare
che i Campionati mondiali di calcio o le Olimpiadi sono eventi rispetto ai
quali non sarebbe giusto ma neanche fattibile precludere la possibilità di una
qualche forma di agganciamento da parte di altri soggetti al di fuori dei veri e
propri sponsor, fermo restante il discrimine del divieto di inganno del
consumatore.
L’illecito di cui si discorre ( previsto dall’art. 10 del D.L. n. 16 del 2020
consiste nella “creazione di un collegamento ((anche)) indiretto fra un
marchio o altro segno distintivo e uno degli eventi di cui al comma 1 ((,))
idoneo a indurre in errore il pubblico sull'identità degli sponsor ufficiali” ) è
un illecito di pericolo concreto (che richiede la concreta messa a rischio del
bene protetto) ove rileva l’idoneità decettiva di un messaggio pubblicitario
formulato in modo anche indiretto, da accertarsi in concreto non
necessariamente mediante una rilevazione statistica fatta sui destinatari del
messaggio ma con riferimento alle caratteristiche concrete del messaggio
medesimo.
Occorre pertanto analizzare le caratteristiche del messaggio in ogni singolo
caso concreto al fine di stabilire il confine tra “ambush marketing” lecito e
“ambush marketing” illecito. Ed è quello che il Collegio si accinge a fare.
8. È infondato il primo motivo di appello nel quale si sostiene che il
provvedimento e la sentenza del Tar avrebbero preso in considerazione
soltanto il criterio del presunto collegamento tra marchio e evento sportivo,
tralasciando completamente l’analisi del secondo, e decisivo, requisito
dell’induzione in errore.
Non vero che non sarebbe stato spiegato perché il presunto collegamento tra
marchio ed evento abbia indotto in errore il pubblico circa la presenza del
marchio tra gli sponsor dell’evento; né è vero che AGCM abbia ipotizzato una
specie di automatismo tra la ricorrenza del primo elemento e quella del
secondo elemento.
Conviene ricordare che gli argomenti ancorati alla rilevanza dell’induzione in
errore erano stati già evidenziati durante l’istruttoria da Zalando. Tali
argomenti erano stati presi in considerazione da AGCM in maniera esplicita.
Al punto 35 del provvedimento impugnato si legge: «Il complesso degli elementi
inclusi nell’affissionale è idoneo a creare un collegamento fra il nominativo e il marchio
Zalando, da un lato, e l’evento calcistico, dall’altro, e ad indurre in errore il pubblico
lasciando intendere, in ragione di tale collegamento, che Zalando sia, contrariamente al vero,
sponsor ufficiale dell’evento».
Al punto 40 del provvedimento impugnato si legge: «Pertanto, diversamente da
quanto sostenuto dalla Società, la disciplina in parola [art. 10, comma 2, d.l. 16/2020:
n.d.r.] individua poi definisce in maniera puntuale gli elementi al ricorrere dei quali la
fattispecie della “attività di pubblicizzazione parassitaria” risulta integrata, ivi compresa
l’induzione in errore del pubblico su uno specifico aspetto, “l’identità degli sponsor”, che può
discendere da un collegamento anche indiretto tra il marchio pubblicizzato e l’“evento”».
Non si può pertanto affermare che il requisito dell’induzione in errore non sia
stato preso in considerazione. Al contrario esso è stato considerato e sono
state addotte le ragioni per le quali l’Autorità che tale requisito fosse integrato
nella fattispecie.
Analogo discorso può farsi per le considerazioni esposte nella sentenza
impugnata che pure ha esaminato gli elementi caratterizzante la specifica
fattispecie anche al fine di condurre un autonomo esame del requisito
dell’induzione in errore (il Tar ha usato la locuzione “avventore medio”).
Nella sentenza si legge infatti: «va osservato come correttamente l’AGCM abbia
motivato in ordine alla decettività del messaggio. Difatti, gli elementi illustrati supra (ossia
la maglietta calcistica, la vicinanza e lo slogan impiegato), oltre a creare il collegamento
indiretto, inducono, nell’avventore medio, l’idea di inclusione della società ricorrente tra gli
sponsor della competizione».
Né possono essere condivise le critiche al passaggio della sentenza nel quale il
primo giudice afferma: «D’altronde, risulta nella natura delle cose (specie nel settore
pubblicitario) che il collegamento tra un evento sportivo (ad alto impatto mediatico) e una
réclame sia subordinato, nella coscienza comune, all’esistenza di un rapporto negoziale, in
forza del quale è consentita appunto la sponsorizzazione».
Tale inciso, lungi dal rappresentare un “abbandono del criterio dell’induzione
in errore”, come sostenuto dall’appellante, si preoccupa di esprimere in
maniera compiuta le modalità attraverso le quali, nel caso di specie, si è
verificata l’induzione in errore.
Già da diversi anni gli studi di psicologia cognitiva hanno messo in evidenza i
forti limiti delle ipotesi di razionalità su cui poggiano i modelli economici
tradizionali. Le persone ricorrono frequentemente a regole euristiche che
consentono di semplificare i processi decisionali e di effettuare le proprie
scelte non solo risparmiando tempo, ma anche riducendo le informazioni
necessarie. Ciò, tuttavia, può determinare errori cognitivi e scelte che, in
ultima analisi, riducono il benessere. Uno tra i principali e più noti fenomeni
analizzati dagli studi è definito “effetto framing”: numerosi esperimenti hanno
dimostrato che le scelte degli individui possono essere significativamente
influenzate dal modo in cui un determinato problema viene loro esposto o dal
modo in cui sono loro presentate una serie di alternative (vedi Cons. Stato,
Sez. VI, ordinanza 10 ottobre 2022 n. 8650; e la sentenza 14 novembre 2024 -
nella causa C-646/22- della Quinta Sezione della Corte di giustizia dell’Unione
Europea).
Il Tar non ha fatto altro che dare corpo a siffatto tipo di consapevolezza:
l’insieme degli elementi caratterizzanti la fattispecie concreta (ossia la maglietta
calcistica, la vicinanza al Football Village e lo slogan impiegato) costruivano un
“framing” idoneo ad indurre in errore il pubblico nel senso di indurlo a credere
che Zalando fosse tra gli sponsor dell’evento.
9. È infondato il secondo motivo di appello nel quale si sostiene che: (i) non
sarebbe stato dimostrato che gli elementi di raccordo integrerebbero il
“collegamento indiretto”; (ii) il Tar avrebbe introdotto una inammissibile
inversione dell’onere della prova; (iii) nella fase istruttoria del procedimento
amministrativo sono emersi indizi chiari, precisi e concordanti che militano
per escludere ogni idoneità della pubblicità in parola ad indurre in errore il
pubblico.
Ancora una volta conviene ricordare che gli argomenti ancorati alla asserita
inesistenza del collegamento indiretto erano stati già evidenziati durante
l’istruttoria da Zalando. Tali argomenti erano stati presi in considerazione da
AGCM in maniera esplicita.
Al punto 35 del provvedimento impugnato si legge: «Il messaggio pubblicitario,
infatti, non autorizzato dai soggetti organizzatori dell’evento in questione, è stato affisso
nelle immediate vicinanze dell’area commerciale allestita dalla UEFA in occasione
dell’evento ed è caratterizzato dall’indicazione del nominativo di Zalando e dall’immagine
di una maglietta di calcio bianca in cui compare il logo distintivo di Zalando, circondata
dalle “bandiere appartenenti alle 24 Nazioni che partecipano all’evento” e dal claim “chi
sarà il vincitore?”».
Al punto 41 del provvedimento si legge: «Pertanto, diversamente da quanto
sostenuto dalla Società, la disciplina in parola definisce in maniera puntuale gli elementi al
ricorrere dei quali la fattispecie della “attività di pubblicizzazione parassitaria” risulta
integrata, ivi compresa l’induzione in errore del pubblico su uno specifico aspetto, “l’identità
degli sponsor”, che può discendere da un collegamento anche indiretto tra il marchio
pubblicizzato e l’“evento”».
Al punto 43 del provvedimento si legge: «Anche la circostanza che la campagna
pubblicitaria fosse orientata a valorizzare tematiche di rilievo sociale quali l’inclusione di
minoranze di orientamento sessuale non appare idonea a far venir meno il suddetto
collegamento tra il marchio Zalando e l’evento sportivo e quindi l’induzione in errore del
pubblico sulla identità degli sponsor ufficiali, tanto più che l’obiettivo dichiarato dalla
Società è risultato chiaro solo dall’affissionale che ha sostituito quello qui in esame».
L’Autorità ha ancorato l’esistenza del collegamento ai seguenti elementi:
- affissione del cartellone nelle immediate vicinanze dell’area commerciale
allestita dalla UEFA in occasione dell’evento;
- indicazione del nominativo di Zalando;
- riproduzione dell’immagine di una maglietta di calcio bianca in cui compare
il logo distintivo di Zalando;
- riproduzione della maglietta circondata dalle “bandiere appartenenti alle 24
Nazioni che partecipano all’evento”;
- esistenza del claim “chi sarà il vincitore?”.
Si tratta di una pluralità di elementi che configurano un insieme combinato di
condotte di ambush marketing, per associazione indiretta all’evento, per
intrusione, per aggancio opportunistico, aventi nel loro complesso astratta
idoneità decettiva sulla identità dello sponsor.
Non si può negare, quindi, che manchi una motivazione circa l’esistenza del
collegamento. Tale motivazione c’è ed è convincente.
Non è vero che il Tar abbia introdotto un’inversione dell’onere della prova: il
Tar si è limitato a dire che le allegazioni esposte dalla società si limitavano a
negare quanto sostenuto dall’AGCM senza produrre argomenti in grado di
minare il fondamento del ragionamento seguito dall’Autorità. Il Tar non ha
detto che Zalando avrebbe dovuto dimostrare che non esisteva il
collegamento. Il Tar ha detto che Zalando non ha dimostrato che l’Autorità
avesse torto o che gli elementi dall’Autorità valorizzati non fossero idonei a
fondare la contestazione e l’applicazione conseguente della sanzione.
Non appare pertinente il richiamo alla sentenza della Corte di Cassazione
francese del 20 maggio 2014 relativa al criterio della induzione in errore anche
alla luce di quanto esposto al punto precedente a proposito dell’effetto framing.
Non è vero che in istruttoria fossero emersi elementi di fatto idonei ad
escludere l’induzione in errore del pubblico.
L’assenza di parole come “Euro 2020”, l’assenza di immagini protette come
marchi figurativi e l’assenza della riproduzione di personaggi tutelati dal diritto
d’autore sono elementi che nulla tolgono al quadro prima delineato di per sé
sufficiente a far ritenere sussistente l’induzione in errore ( anche perché si
tratta di elementi tutti volti a stabilire una più forte valenza indiziante alla
pubblicità indiretta ma non ad inficiare il quadro probatorio raccolto ).
Stesso discorso può farsi per tutti gli altri argomenti spesi dell’appellante
ovvero: l’impossibilità assoggettare a monopolio l’uso di stemmi, bandiere,
emblemi ufficiali; l’asserita mancata presa di posizione sia del provvedimento
che del Tar sulle critiche mosse da Zalando in istruttoria in merito al criterio
del “collegamento” tra marchio ed evento; l’asserita mancata considerazione
della definizione apodittica di “maglietta di calcio” e dell’impatto della
presenza degli elementi grafici diversi dalle bandiere; le caratteristica di Piazza
del Popolo a Roma.
A parte il fatto che tali aspetti sono stati analizzati sia nel provvedimento che
nella sentenza, resta la constatazione che nessuno di essi (tanto se presi
unitariamente quanto se considerati nell’insieme) è in grado di far venir meno
il fondamento complessivo del ragionamento seguito dall’Autorità per
dimostrare tanto l’esistenza del collegamento quanto dell’induzione in errore.
10. È infondato il terzo motivo di appello nel quale si sostiene che non
sarebbero stati presi in considerazione elementi di fatto come (i)
l’inaugurazione dell’evento dopo la rimozione del cartellone; (ii) il progetto di
Zalando di affiggere un nuovo cartellone che avrebbe spiegato meglio il
primo; (iii) la non assimilabilità di Piazza del Popolo ad un “Football Village”.
Ancora una volta i citati elementi non fanno venir meno l’esistenza della
condotta illecita.
Le persone che vedevano il cartello attraversando Piazza del Popolo nei giorni
in cui lo stesso è rimasto affisso potevano essere indotte a credere che
Zalando fosse tra gli sponsor della manifestazione per le ragioni più volte
esposte.
Correttamente il Tar ha sottolineato: (i) l’irrilevanza del fatto che il cartello
avrebbe dovuto rimanere affisso solo fino a 3 giorni prima dell’evento; (ii) la
contestuale presenza degli stand dell’UEFA e del cartellone contestato
(testimoniata dalle foto della Guardia di Finanza); ( iii ) la correttezza della
decisione di non valutare la rilevanza del cartello che sarebbe stato affisso in
un secondo momento, trattandosi, appunto, di evenienza futura e incerta.
Sotto quest’ultimo profilo è appena il caso di rilevare che le persone che
avrebbero visto il secondo cartello non sarebbero state necessariamente le
stesse che avevano visto il primo così da ricostruire l’interezza del messaggio
pubblicitario, sicchè la condotta successiva non avrebbe potuto avere valore
scriminante l’illecito.
Compito dell’Autorità era di accertare e, se del caso, sanzionare le violazioni al
d.l. 16/2020 di condotte già realizzate indipendentemente da eventuali
sviluppi futuri. Ed è ciò che è accaduto nella specie.
11. È infondato il quarto motivo di appello nel quale si sostiene che dal
provvedimento e dalla sentenza del Tar emergerebbe un divieto di parlare
dell’evento con conseguente chiara violazione della libertà di espressione.
Sotto un primo profilo occorre rilevare che secondo l’appellante la sentenza
impugnata non avrebbe effettuato alcun bilanciamento tra libera
manifestazione del pensiero e libertà di iniziativa economica. In realtà se
davvero la libertà di espressione avesse tutta l’importanza che Zalando le
attribuisce nel caso di specie essa avrebbe valore di scriminante ( non
potendosi né dovendosi fare oggetto di bilanciamento l’accertamento del fatto
illecito ), trattandosi di esercizio di un diritto di libertà che non tollera
limitazioni o zone franche se non nei casi costituzionalmente consentiti. Ma
non è questo l’ argomento che chiude la questione ( alla luce
dell’inammissibilità della censura come formulata invocando in modo non
pertinente il bilanciamento ).
Occorre infatti – andando alla sostanza delle censure avanzate - valutare il
caso alla luce dei principi CEDU.
Non pertinente appare il richiamo operato da parte appellante alla decisione
della IV sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo del 30 gennaio del
2018 Sekmadienis Ltd. c. Lithuania.
Il caso ha avuto origine da un ricorso (n. 69317/14) contro la Repubblica di
Lituania, depositato presso la CEDU ai sensi dell'articolo 34 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali da una società a responsabilità limitata lituana, Sekmadienis Ltd.,
il 20 ottobre 2014.
La società ricorrente lamentava un'ingerenza nel suo diritto alla libertà di
espressione, in contrasto con l'articolo 10 della Convenzione, in quanto le era
stata inflitta una multa per aver pubblicato annunci pubblicitari ritenuti
contrari alla morale pubblica.
In particolare nel mese di settembre e ottobre 2012, per circa due settimane, la
società ricorrente aveva condotto una campagna pubblicitaria per presentare
una linea di abbigliamento dello stilista RK. La campagna comprendeva tre
annunci visivi che sono stati affissi su venti cartelloni pubblicitari in aree
pubbliche di Vilnius e sul sito web di RK.
La prima delle tre pubblicità mostrava un giovane con i capelli lunghi, una
fascia, un'aureola intorno alla testa e diversi tatuaggi, che indossava un paio di
jeans. Una didascalia in basso all'immagine recitava «Gesù, che pantaloni!».
La seconda pubblicità mostrava una giovane donna con un abito bianco e un
copricapo decorato con fiori bianchi e rossi. Aveva un'aureola intorno alla
testa e teneva in mano una collana di perline. La didascalia in basso
all'immagine recitava «Cara Mary, che vestito!».
La terza pubblicità mostrava l'uomo e la donna insieme, con gli stessi abiti e
accessori delle pubblicità precedenti. L'uomo era sdraiato e la donna era in
piedi accanto a lui, con una mano sulla sua testa e l'altra sulla sua spalla. La
didascalia in basso all'immagine recitava «Gesù [e] Maria, cosa indossate!».
La società veniva sanzionata dalle autorità competenti della Lituania per
l’utilizzazione a fini commerciali di simboli religiosi che si risolveva in
un’offesa al sentimento religioso di determinate fasce di cittadini.
La vicenda è giunta dinanzi alla Corte di Strasburgo che ha ritenuto che nella
specie fosse stato violato l’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo che così recita: «Ogni persona ha diritto alla libertà d'espressione. Tale
diritto include la libertà d'opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o
idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza
considerazione di frontiera (omissis)».
Come si diceva questo caso citato dall’appellante non è rilevante perché in
quella fattispecie non si discuteva di pubblicità parassitaria ma di un
messaggio pubblicitario avente ad oggetto simboli religiosi.
Nel caso di specie non è in discussione il diritto di Zalando di produrre e
diffondere messaggi pubblicitari diretti a sensibilizzare la società civile su temi
ed argomenti di rilevanza sociale come, ad esempio, l’inclusione sociale di
minoranze di vario genere.
Nel caso di specie si discute se sia lecito che Zalando affigga, in una piazza
dove sono presenti installazioni UEFA, un manifesto di grandi di dimensioni
con contenuti tali da creare un collegamento con un grande evento sportivo sì
da indurre il pubblico e credere, sbagliando, che Zalando fosse sponsor della
manifestazione.
Il contenuto del messaggio (e l’eventuale libertà di espressione ad esso
connesso) non era in sé rilevante, essendo evidente che la campagna
pubblicitaria orientata alle finalità di inclusione avrebbe potuto svolgersi
tranquillamente in altre modalità meno suggestive.
Nessun problema (nemmeno quello della limitazione della libertà di
espressione) si sarebbe posto se lo stesso identico messaggio fosse stato
pubblicato in altro luogo e non avesse ingenerato un collegamento con
“Europa 2020”, mentre nel caso lituano l’intervento dell’autorità era volto ad
interdire il messaggio come tale.
Nella specie non si vede come si possa parlare di privatizzazione della libertà
di espressione. Zalando non è stata costretta ad abbandonare la sua iniziativa.
Semplicemente avrebbe dovuto condurla con modalità diverse e con la cautela
derivante dalla necessità di non ingenerare errori percettivi ed un effetto
decettivo nel messaggio destinato al pubblico che segue lo sport ( da tempo
attraversato simbolicamente da tematiche relative a protezione dell’identità di
genere volte ad includere minoranze che possono essere discriminate in
ragione del loro differente orientamento sessuale).
Correttamente, quindi, il Tar ha ritenuto che: «Viepiú, va osservato come istanze ad
alto valore sociale, come quelle rappresentate dalla società (ossia l’inclusione delle minoranze
di orientamento sessuale), ben avrebbero potuto essere promosse mediante strumenti che non
ingenerassero un collegamento indiretto con la competizione sportiva». Aggiunge il
Collegio che non tanto il collegamento in sé era da evitare quanto – come già
specificato - le modalità della sua realizzazione che – come si è detto –
potevano ingenerare un errore nel pubblico circa l’identità dello sponsor (
data anche la natura di impresa commerciale dell’attività dell’appellante e le
altre circostanze evidenziate ivi compresa la chiarificazione progressiva degli
intenti del messaggio che poteva nella specie indurre in inganno alla prima
affissione incorrendo così formalmente nella violazione non scriminata da
condotta successiva ).
12. È infondato il quinto motivo di appello nel quale si sostiene che la
sanzione comminata sarebbe eccessiva perché non sarebbe stato tenuto in
debito conto la circostanza costituita dalla assoluta novità della fattispecie
introdotta dalle disposizioni della legge n. 16/2020.
Come correttamente rilevato dal Tar, la sanzione comminata corrisponde al
minimo edittale.
In ogni caso l’Autorità si è attenuta ai parametri di riferimento individuati
dall’art. 11 della l. n. 689/81 (in particolare, della gravità della violazione,
dell’opera svolta dall’impresa per eliminare o attenuare l’infrazione, della
personalità dell’agente nonché delle condizioni economiche dell’impresa
stessa), specificando puntualmente i criteri a tal fine adottati (cfr. §§ 46-48 del
provvedimento).
L’Autorità ha tenuto conto, quanto alla gravità della violazione, sia della
dimensione economica della società sia di ulteriori elementi rilevanti nella
fattispecie de qua (§ 89 del Provvedimento), tra i quali: (i) la circoscritta
diffusione del messaggio pubblicitario; (ii) il contesto di prima applicazione
della normativa violata (§ 47 del provvedimento).
13. Per le ragioni esposte l’appello deve essere rigettato.
Sussistono giusti motivi, data la novità della questione, per compensare le
spese del grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente
pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 marzo 2025 con
l'intervento dei magistrati:
Giancarlo Montedoro, Presidente
Giordano Lamberti, Consigliere
Davide Ponte, Consigliere
Lorenzo Cordi', Consigliere
Giovanni Pascuzzi, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Giovanni Pascuzzi Giancarlo Montedoro
IL SEGRETARIO
03-05-2025 21:20
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