Differenza tra una condivisione di meme e apposizione di un like in FacebooK.
Pubblicato il 23/12/2024
N. 10323/2024REG.PROV.COLL.
N. 00138/2024 REG.RIC.
R E P U B B L I C A I T A L I A N A
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Settima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 138 del 2024, proposto dal prof.
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avv. Rocco Mauro Todero e con
domicilio digitale come da P.E.C. da Registri di Giustizia;
contro
Università degli Studi di Milano, in persona del Rettore pro tempore,
rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliata
presso gli Uffici della stessa, in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
Ministero dell’Università e della Ricerca, non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia,
Milano, Sezione Prima, n. -OMISSIS-del 12 giugno 2023, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Università degli Studi di Milano;
Viste la memoria e la documentazione dell’Università;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 8 ottobre 2024 il Cons. Pietro De
Berardinis e udito per la parte appellante l’avv. Rocco Mauro Todero;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
FATTO
Con ricorso al T.A.R. Lombardia, Milano, il prof. -OMISSIS- ha impugnato il
decreto del Rettore dell’Università degli Studi di Milano del 14 maggio 2021,
recante irrogazione a suo carico della sanzione disciplinare della sospensione
per un mese (dal 1° giugno al 30 giugno 2021) dallo svolgimento delle
funzioni di professore universitario e da ogni altro incarico comunque
assegnatogli in ambito accademico, con privazione della retribuzione e
corresponsione di un assegno alimentare in misura non superiore a metà dello
stipendio.
Ha impugnato, altresì, gli atti presupposti, connessi e conseguenti, tra cui la
delibera del Consiglio di Amministrazione dell’Università del 14 maggio 2021
di inflizione di detta sanzione disciplinare (con il relativo verbale), il parere del
Collegio di disciplina e la nota del Rettore del 16 novembre 2020 di
contestazione formale degli addebiti al docente, nonché, ove occorresse, il
Codice di comportamento dei dipendenti dell’Ateneo e il Codice etico dello
stesso Ateneo.
In punto di fatto, l’odierno appellante, professore ordinario di Storia delle
Dottrine politiche presso l’Università di Milano, in data 8 novembre 2020 ha
condiviso sulla propria pagina “Facebook” un “meme” (equivalente a una
vignetta) prodotto negli Stati Uniti d’America, recante l’immagine della Vice
Presidente degli Stati Uniti Kamala Harris con un testo a lei riferito. La
pubblicazione di questo “meme” ha suscitato vaste reazioni di indignazione per
il suo contenuto, il che ha indotto il docente a rimuoverlo in data 13
novembre 2020, accompagnando la cancellazione con parole di scusa e con il
riconoscimento che il messaggio “era di cattivo gusto”. Pur tuttavia l’Università
ha avviato nei suoi confronti il procedimento disciplinare, conclusosi con
l’irrogazione della sanzione della sospensione ai sensi dell’art. 10 della l. n.
240/2010 e dell’art. 33 dello Statuto dell’Ateneo.
Il docente, come già detto, ha avversato la sanzione innanzi al T.A.R.
Lombardia, Milano, ma l’adito Tribunale con sentenza della Sez. I n. -
OMISSIS-del 12 giugno 2023 ha respinto il ricorso, ritenendo infondate tutte
le censure in esso contenute.
Avverso detta sentenza è insorto il prof. -OMISSIS-, impugnandola con
l’appello indicato in epigrafe e chiedendone la riforma.
Dopo un’analitica esposizione dei fatti che hanno portato all’irrogazione a suo
carico della sanzione della sospensione, nonché dello svolgimento del
procedimento disciplinare e del giudizio di primo grado, l’appellante ha
dedotto a supporto del gravame i seguenti motivi:
I) violazione degli artt. 2 e 21 Cost., violazione degli artt. 8 e 10 della
Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (CEDU);
II) violazione degli artt. 10 e 11 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea, violazione dell’art. 54 del d.lgs. n. 165/2001;
III) violazione degli artt. 1 e 9 del Codice di comportamento dei dipendenti
dell’Università degli Studi di Milano;
IV) violazione dell’art. 8 del Codice etico dell’Università degli Studi di Milano;
V) eccesso di potere per sviamento, contraddittorietà, illogicità ed ingiustizia
manifesta, eccesso di potere per travisamento, violazione del principio di
proporzione.
In estrema sintesi e salvo quanto si dirà in sede di analisi delle singole censure,
l’appellante lamenta l’erroneità della sentenza impugnata nelle parti in cui: 1)
ha considerato il “post” (“meme”) offensivo; 2) ha ritenuto pregiudicata
l’immagine e il decoro dell’Università; 3) non ha ritenuto che la sanzione
disciplinare violasse la libertà di manifestazione del pensiero dello stesso
docente; 4) ha considerato la condotta dell’appellante rientrante fra quelle
disciplinate dall’art. 9 del Codice di comportamento dell’Ateneo; 5) non ha
ritenuto violato il principio di proporzione.
Si è costituita in giudizio l’Università degli Studi di Milano, depositando di
seguito una memoria e documentazione sui fatti di causa e concludendo per la
reiezione dell’appello, in quanto infondato in fatto e in diritto.
All’udienza pubblica dell’8 ottobre 2024 è comparso il difensore
dell’appellante, che ha brevemente discusso la causa. Di seguito, questa è stata
trattenuta in decisione dal Collegio.
DIRITTO
Viene in decisione l’appello del prof. -OMISSIS- contro la sentenza del T.A.R.
Lombardia, Milano, che ha respinto il ricorso da lui promosso avverso la
sospensione per un mese dalle funzioni di professore universitario e da ogni
altro incarico accademico, nonché dalla relativa retribuzione, inflittagli
dall’Università degli Studi di Milano.
In via preliminare, va escluso che la circostanza, riferita dall’Ateneo in sede di
memoria difensiva, delle dimissioni del prof. -OMISSIS- dall’incarico di
docente presso l’Università degli Studi di Milano a far data dal 4 marzo 2024,
possa incidere sul suo interesse alla decisione dell’appello, residuando in capo
al docente un’utilità sia patrimoniale, sia morale a una decisione di
accoglimento del ricorso da lui proposto e dovendo, perciò, escludersi che
questo sia divenuto improcedibile (cfr. C.d.S., Sez. V, 27 ottobre 2022, n. 9172;
id., 22 ottobre 2018, n. 6025; Sez. IV, 9 settembre 2022, n. 7857; id., 20 agosto
2018, n. 4969; Sez. VII, 16 febbraio 2022, n. 1155; Sez. VI, 9 marzo 2021, n.
2004; Sez. II, 29 gennaio 2020, n. 742; Sez. III, 10 aprile 2017, n. 1678).
Come riferisce la sentenza appellata, la sanzione è stata inflitta al docente per
avere egli condiviso sulla sua pagina “Facebook” un “meme”, equivalente a una
vignetta, creato da altri, con un’immagine raffigurante la Vice Presidente degli
Stati Uniti d’America, Kamala Harris, accompagnata dal testo seguente: “She
will be an inspiration to young girls by showing that if you sleep with the right powerfully
connected men then you too can play second fiddle to a man with dementia. It’s basically a
Cinderella story” (“Sarà una fonte di ispirazione per le giovani ragazze giacché ha
dimostrato che se vai a letto con gli uomini giusti e potenti anche tu puoi diventare il secondo
violino di un uomo affetto da demenza. Essenzialmente è la storia di Cenerentola”), senza
l’aggiunta di alcun commento o considerazione.
Come si legge nel verbale del Consiglio di Amministrazione dell’Università del
14 maggio 2021, che riporta in proposito il parere del Collegio di Disciplina
(ambedue tali atti hanno formato oggetto di impugnazione), l’Ateneo ha
ritenuto:
- che pur avendo il prof. -OMISSIS- dichiarato di non condividere più il
“meme” da lui pubblicato e di avere compreso la natura potenzialmente
offensiva del messaggio ivi espresso, non fosse possibile escludere la
responsabilità del docente;
- che pur nel rispetto della libertà di manifestazione del pensiero,
costituzionalmente garantita, la condotta dell’appellante contrastasse con il
suo ruolo di docente e con le responsabilità educative ad esso connaturate,
tanto più per la diffusione della notizia sui mezzi di stampa nazionali e locali,
ove era stata sottolineata la qualifica dell’autore di docente dell’Università di
Milano, così da arrecare un danno all’immagine e alla reputazione
dell’Università stessa;
- che anche se la condivisione di un “meme” differisce dalla pubblicazione di
un messaggio originale, può avere lo stesso effetto per intensità, forza del
pensiero espresso e visibilità;
- che pertanto il prof. -OMISSIS- avesse “violato il Codice di comportamento
dell’Università degli Studi di Milano e le norme di buona condotta che, ai sensi di legge, un
docente universitario è tenuto ad osservare sia nel diretto esercizio delle proprie funzioni sia
nei rapporti privati di rilevanza pubblica” e che il suo comportamento
rappresentasse “una violazione di particolare gravità nei confronti della sua funzione
docente” (così il verbale del Consiglio di Amministrazione sopra citato).
Il T.A.R. ha disatteso il primo gruppo di censure dedotte nel ricorso,
osservando:
I) che la condivisione da parte del docente sulla sua pagina “Facebook” del
“post” realizzato da altri anche sotto forma di “meme”, senza l’adozione di
espresse cautele o di prese di distanza dal contenuto del documento che si
rende pubblico anche nella cerchia delle proprie conoscenze, equivale,
secondo l’id quod plerumque accidit, ad approvazione del contenuto del
documento stesso;
II) che il contenuto intrinseco della pubblicazione, non accompagnata
dall’aggiunta di altri elementi di contrario avviso, “è sicuramente offensivo del genere
femminile”, in quanto veicola la convinzione dell’opportunità di
strumentalizzare i rapporti intimi per raggiungere scopi diversi da quelli che li
caratterizzano, e di fatto asseconda una categoria di persone a tenere simili
condotte;
III) che la pubblicazione è avvenuta nel “canale social” personale del docente,
dove però costui indica il ruolo istituzionale da lui ricoperto nell’Ateneo, il che
determina il coinvolgimento dell’Istituzione accademica di cui egli fa parte;
IV) che in questa prospettiva la “condivisione” del “post” nella propria pagina
“Facebook”, in cui il prof. -OMISSIS- dà evidenza al ruolo da lui svolto
nell’Ateneo, data la natura offensiva del “post” stesso, determina un contrasto
con il ruolo e la funzione del docente universitario chiamato ad assolvere un
importante compito formativo ed educativo verso gli allievi e lede, perciò, la
dignità della professione svolta;
V) che nel caso di specie la condotta del professore ha avuto un ampio risalto
nei media ed è stata oggetto di forti critiche, essendosi da più parti richiesto
all’Università un intervento sanzionatorio, a tutela anche della reputazione ed
immagine dell’Ateneo. Quest’ultimo ha ritenuto che tale condotta avesse
incrinato il patto di fiducia tra l’Istituzione universitaria e i cittadini/utenti.
Anche il secondo gruppo di censure formulate dal ricorrente è stato respinto
dal T.A.R., il quale sul punto ha evidenziato:
VI) che l’Università ha correttamente individuato, oltre alla norma attributiva
del potere disciplinare (art. 10 della l. n. 240/2010 e art. 33 dello Statuto), la
norma di condotta violata (l’art. 9 del Codice di comportamento della stessa
Università, in base al quale il docente, nei rapporti privati, “non usa in modo
improprio la posizione che ricopre nell’Ateneo e non assume alcun comportamento che possa
recare danno all’immagine e alla reputazione dell’Università, al fine di preservare la fiducia
dei cittadini/utenti”) e la sanzione da infliggere;
VII) che la violazione dell’art. 9 del Codice di comportamento è sanzionata
sotto il profilo disciplinare ai sensi del combinato disposto dell’art. 15 dello
stesso Codice e dell’art. 54, comma 3, del d.lgs. n. 165/2001 e che la condotta
non avrebbe potuto essere sanzionata in base al Codice etico dell’Ateneo –
come sostenuto dal ricorrente – opponendovisi la preferenza per il “canale
disciplinare” espressa dall’art. 16, comma 2, del Codice di comportamento;
VIII) che nella fattispecie per cui è causa non vale invocare la libertà di
manifestazione del pensiero, in quanto rileva il contenuto del pensiero
espresso liberamente, ritenuto lesivo della reputazione e dell’immagine
dell’Università e per tal ragione sanzionato.
Infine, il T.A.R. ha disatteso anche l’ultimo gruppo di censure, osservando:
IX) in relazione alla lamentata disparità di trattamento rispetto alle vicende di
un altro docente della stessa Università, che la disparità di trattamento non
può essere dedotta, ove la posizione dell’altro soggetto invocata quale tertium
comparationis sia stata conseguita contra legem, perché frutto di una procedura
non corretta, e che, peraltro, nel caso di specie la condotta del collega del
prof. -OMISSIS- da quest’ultimo invocata a titolo di tertium comparationis non è
analoga a quella da lui tenuta e censurata dall’Ateneo;
X) che neppure sussiste la lamentata violazione del principio di
proporzionalità della sanzione, poiché la condotta contestata al professore,
ravvisata nell’avere egli tenuto un comportamento “in contrasto rispetto al suo
ruolo di docente ed alle responsabilità educative che gli sono connaturate”, rientra nella
fattispecie di cui all’art. 89 del r.d. n. 1592/1933, costituita da “atti in genere, che
comunque ledono la dignità o l’onore del professore” e in ogni caso è stata scelta la
sanzione meno afflittiva per l’interessato dopo la censura.
Nell’appello il prof. -OMISSIS- contesta la sentenza di prime cure, deducendo
avverso la stessa una serie articolata di censure, che di seguito si vanno ad
esaminare, facendo precedere tale esame da una breve sintesi della normativa
richiamata dal decreto che ha inflitto la sanzione disciplinare.
Al riguardo il predetto decreto richiama, innanzitutto, gli artt. 80, 81 e 82 del
d.P.R. n. 3/1957 (T.U. recante lo “statuto” degli impiegati civili dello Stato),
che disciplinano: le ipotesi di riduzione dello stipendio del dipendente, la loro
misura, durata ed effetti (art. 80); la sospensione del dipendente dalla qualifica
(art. 81); l’assegno alimentare concesso all’impiegato sospeso (art. 82).
Viene menzionato, in secondo luogo, l’art. 10 della l. n. 240/2010, che
disciplina lo svolgimento del procedimento disciplinare promosso nei
confronti dei docenti universitari, stabilendo in particolare, al comma 2, che
l’avvio di tale procedimento compete al Rettore, il quale “per ogni fatto che possa
dar luogo all’irrogazione di una sanzione più grave della censura tra quelle previste
dall’articolo 87 del testo unico delle leggi sull’istruzione superiore di cui al regio decreto 31
agosto 1933, n. 1592, entro trenta giorni dal momento della conoscenza dei fatti, trasmette
gli atti al collegio di disciplina, formulando motivata proposta”.
Da ultimo, il decreto rettorale menziona l’art. 33, comma 5, dello Statuto
dell’Università, ai sensi del quale il Collegio di disciplina propone e il
Consiglio di amministrazione dell’Università infligge “le sanzioni previste
dall’articolo 87 e seguenti del Testo Unico delle leggi sull’istruzione superiore di cui al regio
decreto 31 agosto 1933, n. 1592 come confermate dall’articolo 12 della legge 18 marzo
1958, n. 311”. Nel caso di specie, la sanzione inflitta è la “sospensione dall’ufficio e
dallo stipendio fino ad un anno” prevista dall’art. 87, n. 2) del r.d. n. 1592/1933
per le mancanze di cui al successivo art. 89. Quest’ultima disposizione, al
primo comma, prevede che le “punizioni” di cui ai numeri da 2 a 5 del
precedente art. 87 (tra le quali, al n. 2), la “sospensione dall’ufficio e dallo stipendio
fino ad un anno”) si applicano per le seguenti mancanze: a) grave
insubordinazione; b) abituale mancanza ai doveri di ufficio; c) abituale
irregolarità di condotta; d) atti in genere, che comunque ledano la dignità o
l’onore del professore.
A) Tanto premesso e venendo ora all’esame delle censure dedotte nel
gravame, con il primo gruppo di esse l’appellante lamenta che il “post” da lui
pubblicato non avrebbe un contenuto offensivo e che il T.A.R. ne avrebbe
frainteso il significato.
Il fraintendimento sarebbe in ciò, che al contrario di quanto sostiene il T.A.R.
(il quale non si sarebbe avveduto della carica ironica del “post”, simile a uno
sberleffo), il messaggio non direbbe che è giusto per le donne utilizzare i loro
rapporti intimi per fare carriera, né inciterebbe a tale comportamento, ma,
criticando la condotta della Vice Presidente Harris, vorrebbe mettere in
guardia le altre donne dal seguire l’esempio di quest’ultima.
Ciò, tenuto conto che negli Stati Uniti la condotta privata della Harris avrebbe
formato oggetto del dibattito pubblico, come provato dal ricorrente con il
deposito in primo grado di un’ampia rassegna stampa, e le critiche si
sarebbero incentrate proprio sulla (presunta) strumentalizzazione, da parte
sua, dei propri rapporti intimi per raggiungere ruoli di potere: nel condividere
il “post”, al netto del valore da riconoscere alla suddetta “condivisione”, il prof.
-OMISSIS- avrebbe inteso evidenziare una condotta (quella attribuita alla
Harris) ritenuta disdicevole e diffidare dal seguirne l’esempio. Al contrario, il
primo giudice avrebbe inteso il “post” come condivisione da parte del prof. -
OMISSIS- dell’opportunità che le donne strumentalizzino i propri rapporti
intimi e che fosse giusto persino incitare le donne ad adottare questa
condotta.
Quanto al contenuto intrinseco del “post”, esso non sarebbe offensivo
dell’intero genere femminile, né lesivo dell’immagine dell’Università,
limitandosi ad alludere a una condotta attribuita alla Vice Presidente e a una
condizione mentale verosimilmente ascritta al Presidente Biden. Detto
contenuto non si potrebbe ritenere “sessista”, intendendosi per “sessismo”,
secondo il dizionario Treccani, “l’atteggiamento di chi sostiene l’inferiorità del sesso
femminile nei confronti di quello maschile”, mentre il “meme” non alluderebbe ad
un’inferiore capacità del genere femminile, né a una condotta che sarebbe
costante di tutte le donne che intendano fare carriera politica, ma si
limiterebbe a indicare alcune condotte private di Kamala Harris oggetto di
dibattito da parte dei media e dell’opinione pubblica statunitense. In altre
parole, si tratterebbe di un “meme” politico, né, di certo, l’Università potrebbe
intervenire sotto il profilo disciplinare per tutelare il buon nome e l’immagine
della Vice Presidente.
Ci si muoverebbe, insomma, all’interno di una critica politica, rispetto alla
quale risulterebbe esclusa ogni possibilità di intervento del datore di lavoro –
Università a sanzionare la libera manifestazione del pensiero.
Nel senso della caduta dell’Ateneo in un’interpretazione tendenziosa del
“meme” deporrebbe anche il fatto che in questo si attribuisce al Presidente
degli Stati Uniti una condizione mentale di demenza, ma, nonostante ciò, gli
organi dell’Università non avrebbero formulato alcun rilievo su questa parte
del messaggio, perché – sostiene l’appellante – evidentemente concentrati a
rinvenire un “sessismo” invero inesistente.
Le doglianze non sono suscettibili di positivo apprezzamento.
Si può convenire con l’odierno appellante che la pubblicazione del “post” o
“meme” sul suo profilo “Facebook”, senza alcuna considerazione o commento
da parte sua, non possa di per sé valere come approvazione del contenuto del
documento, come sostiene invece la sentenza appellata. Il richiamo al c.d. id
quod plerumque accidit non convince, di fronte alla mancanza di elementi di
segno positivo da cui possa desumersi detta approvazione, che il T.A.R. – in
modo eccessivo – pretende all’inverso di ricavare dalla sussistenza di elementi
negativi (il mancato accompagnamento della pubblicazione del “post” con una
presa di distanza dal suo contenuto).
Nel senso ora visto – quello della necessità di elementi di segno positivo, da
cui si possa desumere la “condivisione”, intesa come approvazione, dei
documenti altrui pubblicati sui propri profili “social” – depone anche la
giurisprudenza penale richiamata dalla difesa erariale (Cass. pen., Sez. I, 9
febbraio 2022, n. 4534; Sez. V, 23 luglio 2020, n. 22066): questa, infatti, ha
ritenuto necessario, per integrare le fattispecie di cd. reati d’odio da essa
analizzati, l’apposizione, sull’altrui messaggio, di un “like”, cioè di un’esplicita
manifestazione di apprezzamento del messaggio stesso, che, però, nella
vicenda qui in esame manca.
Semmai, qualche perplessità la può generare la condotta processuale dello
stesso docente, che, come si vedrà meglio infra, nel terzo gruppo di censure ha
sostenuto l’illegittimità della sanzione inflittagli, per avere questa violato il suo
diritto alla libera manifestazione del pensiero, che egli avrebbe inteso
esercitare nel caso in esame mediante la pubblicazione del “meme” sulla sua
pagina “Facebook”: ma ciò sembrerebbe presupporre un’adesione da parte sua
al contenuto del “meme” (pur in una forma per così dire “postuma”, cioè
rivelata solo in sede processuale).
Ad ogni modo è innegabile l’esistenza, in capo a ciascun soggetto che
pubblichi un messaggio sulla propria pagina “Facebook” (o su un qualsiasi altro
canale “social”), di un obbligo di controllarne il contenuto, al fine di verificare
che lo stesso non risulti ingiurioso, diffamatorio o comunque dotato di
carattere offensivo nei confronti di terzi, onde evitare una cooperazione (a
livello non doloso ma colposo) nella divulgazione di contenuti di tal fatta.
In altre parole, se nel caso di specie non si può affermare, come fa la sentenza
di prime cure, che il docente abbia “condiviso” il “meme” nel senso di
approvarne il contenuto e farlo proprio, mancando sufficienti elementi di
prova in tal senso, deve tuttavia ritenersi che il prof. -OMISSIS- sia venuto
meno a un dovere di diligenza che certamente era tenuto a osservare, quello,
cioè, di controllare il contenuto del messaggio pubblicato onde verificarne
eventuali significati ingiuriosi, diffamatori o altrimenti lesivi per i terzi: tale
dovere, come detto, incombe in via generale su ogni soggetto che si avvalga
dei canali “social” per pubblicare contenuti propri o altrui, e tanto più
incombeva sul citato docente, alla luce del ruolo da lui rivestito, come meglio
si vedrà infra.
Che il contenuto del “meme” pubblicato fosse offensivo e andasse ben oltre
una mera critica politica, con conseguente superficialità e mancanza di
diligenza del docente nel non accorgersene per tempo, emerge dalla sua
semplice lettura, essendo innegabile che ad esso sia sotteso un giudizio
grossolano e del tutto falso sulle modalità di condotta delle donne che
intendono fare carriera politica.
Una conferma in tal senso si ricava, d’altro canto, dal comportamento del
medesimo prof. -OMISSIS- successivo alla pubblicazione del “meme”,
consistito nella sua rimozione, in data 13 novembre 2020, accompagnata da
un messaggio in cui egli ha ammesso di essere stato “imprudente” e di essersi
poi reso conto che il “meme” era “di cattivo gusto”, aggiungendo il suo dispiacere
per chi fosse “rimasto male” a causa della pubblicazione stessa.
L’esorbitanza del messaggio dalla mera critica politica giustifica, poi,
l’intervento dell’Ateneo quale datore di lavoro del docente, effettuato non
certo a tutela della Vice Presidente degli Stati Uniti, ma dell’immagine
dell’Università, messa a rischio dalla condotta del professore (da lui stesso
definita “imprudente” nel messaggio del 13 novembre 2020).
Non convincono le ulteriori argomentazioni formulate dall’appellante.
Invero, che la condotta serbata in passato dalla Vice Presidente Harris abbia
formato oggetto, negli Stati Uniti, di un ampio dibattito nei media e
nell’opinione pubblica, è circostanza irrilevante, poiché la condivisione del
“meme” sulla pagina “Facebook” del prof. -OMISSIS- si mostra slegata
dall’intento di illustrare in Italia l’evoluzione di tale dibattito per finalità
storico-cronachistiche: non vi è, infatti, nessun elemento che dimostri un
simile intento nel comportamento dell’interessato, pur essendo egli docente di
Storia delle Dottrine politiche presso l’Ateneo milanese.
Il “fraintendimento” che l’appellante imputa al T.A.R. è anch’esso irrilevante, a
fronte del carattere intrinsecamente offensivo e degradante per le donne che
intendono fare politica, che il messaggio pubblicato riveste.
Da ultimo, è infondato il richiamo alla circostanza che il “meme” recasse un
contenuto altrettanto offensivo e sgradevole verosimilmente riferito al
neoeletto (a novembre 2020) Presidente Biden, tacciato di demenza, senza che
per questo aspetto l’Università abbia promosso alcuna iniziativa disciplinare a
carico del docente. In realtà, si tratta di una circostanza che, lungi dal poter
essere addotta a difesa dell’appellante (come dal medesimo preteso, giacché
proverebbe la tendenziosità dell’interpretazione dell’Università), dimostra
semmai il contrario, in quanto conferma il contenuto offensivo posseduto dal
“meme” nella sua interezza e, con ciò, la negligente leggerezza del docente nel
pubblicarlo sulla sua pagina “Facebook” senza valutarne previamente il tenore.
B) Acclarata, perciò, la complessiva infondatezza del primo gruppo di censure
e passando all’analisi del secondo, con lo stesso l’appellante critica la sentenza
gravata per avere questa affermato che la condotta del prof. -OMISSIS- ha
coinvolto direttamente l’Università e ne ha leso l’immagine e il decoro, in
quanto egli si presenta sul suo profilo “Facebook” come docente
dell’Università.
Lamenta l’appellante che la sua condotta non avrebbe pregiudicato l’immagine
dell’Ateneo, atteso che il contenuto del “meme” da lui condiviso non
rappresenterebbe una critica all’Ateneo stesso, né attribuirebbe agli organi di
questo comportamenti illeciti, illegittimi o disdicevoli. In proposito, egli
richiama l’insegnamento giurisprudenziale che ha escluso lesioni
dell’immagine e dell’onorabilità di un’Università anche quando le critiche
siano rivolte direttamente alla stessa: a fortiori, non sarebbero ipotizzabili
lesioni della predetta immagine e onorabilità quando, come nel caso di specie,
si tratti di affermazioni espresse in ambito privato, non riguardanti l’Ateneo.
La tesi che l’opinione che suscita proteste sia ipso facto illegittima e lesiva
dell’immagine dell’Ateneo svuoterebbe la tutela accordata dall’art. 21 Cost.
alla libertà di manifestazione del pensiero; inoltre il clamore e le proteste
suscitati dal “post” condiviso non sarebbero sintomi della perdita di prestigio
dell’Università, essendo stato il clamore indotto dal Rettore e dalle reazioni
interne alla P.A., nonché dal carattere sensazionalistico volutamente attribuito
dalla stampa alla notizia. Non vi sarebbe prova della diminuita considerazione
dell’Università degli Studi di Milano tra i consociati, né detta prova potrebbe
essere sostituita da presunzioni basate su proteste non disinteressate e per
consistenza prive di rilievo.
L’assunto dell’Università di Milano, fatto proprio dalla sentenza di primo
grado, violerebbe i diritti del prof. -OMISSIS-, pretendendo di disconoscere
l’autonomia della sfera privata dell’essere umano che non coinvolga il ruolo di
docente del ricorrente: non esisterebbe, cioè, -OMISSIS-, in qualità di
individuo titolare della libertà di esprimere le proprie opinioni in ambito
privato, ma sempre e solo il prof. -OMISSIS-, docente dell’Università di
Milano, il quale in ogni occasione, anche privata, dovrebbe ricordare tale suo
ruolo di professore, che con ogni sua parola può coinvolgere e ledere
l’immagine e la reputazione dell’Istituzione per cui lavora.
L’Università si arrogherebbe la pretesa di conformare qualsiasi manifestazione
della personalità del ricorrente, senza distinguere i casi in cui egli opera come
docente e quelli in cui agisce come semplice individuo, dotato di personalità e
di diritti inviolabili: ma in questo modo realizzerebbe un’illegittima
interferenza nella vita privata del prof. -OMISSIS-, in violazione dell’art. 8
della Convenzione EDU (che ha ad oggetto il diritto al rispetto della vita
privata e familiare).
Le doglianze non sono suscettibili di condivisione.
In via preliminare, deve rilevarsi come l’appellante non abbia contestato
l’affermazione, contenuta nella lettera di contestazione degli addebiti inviatagli
dal Rettore dell’Università, che nel suo profilo “Facebook” egli si presenta come
“Docente di Storia delle Dottrine Politiche”. Infatti, nella lettera di osservazioni
difensive da lui trasmessa al Rettore, il docente si limita (a pag. 2) a negare che
nel “post” “incriminato” o in altri “post”, da lui pubblicati sulla sua pagina
“Facebook”, fossero presenti anche indirettamente cenni e/o richiami
all’Università degli Studi di Milano ed alla sua posizione di professore al
servizio di detta Istituzione accademica. Non nega, però, la circostanza – ben
diversa – di presentarsi a quanti vadano a visionare il suo profilo “social” nella
sua veste di docente poc’anzi rammentata e, quindi, di avere egli stesso creato
su tale profilo “social” quella commistione tra sfera privata e ruolo pubblico da
lui rivestito, che rimprovera all’Ateneo.
In altre parole, l’appellante non contesta che coloro che hanno preso visione
del “meme” sulla sua pagina “Facebook” sapessero – o fossero stati messi in
condizione di sapere – che lo stesso era stato “condiviso” non da un quivis de
populo, ma dal prof. -OMISSIS-, docente di Storia delle Dottrine politiche, il
quale aveva speso siffatta sua qualità: ed è di pubblico dominio che l’incarico
di docenza in detta materia venisse svolto dal prof. -OMISSIS-, fino alle
dimissioni da lui rassegnate con decorrenza dal 4 marzo 2024, presso
l’Università degli Studi di Milano.
Inoltre, la natura di “social medium” di “Facebook” e le modalità del suo
funzionamento portano ad escludere la possibilità di assimilare le
comunicazioni di contenuti attraverso tale strumento alle forme tradizionali di
comunicazioni tra privati, come preteso dall’appellante, e tantomeno a mere
conversazioni: infatti, i messaggi inseriti nelle bacheche “Facebook” sono
potenzialmente idonei a raggiungere un numero indeterminato di persone,
tanto che la giurisprudenza consolidata afferma che la diffusione di messaggi
diffamatori tramite l’uso di una bacheca “Facebook” integra la diffamazione
aggravata punita dall’art. 595, terzo comma, c.p., sotto il profilo dell’offesa
arrecata con “qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa, proprio
perché la condotta così realizzata è capace potenzialmente di raggiungere un
numero di persone indeterminato, o comunque quantitativamente
apprezzabile (cfr. Cass. pen., Sez. V, 16 novembre 2023, n. 14345; id., 25
gennaio 2021, n. 13979). Inoltre, la diffusione di tali messaggi dipende dalla
maggiore interazione con le pagine interessate ad opera degli utenti, in quanto
l’algoritmo che regola il funzionamento di tale “social network” assegna un
valore maggiore ai “post” che ricevono più commenti o che vengono
contrassegnati dal “mi piace” o “like” (Cass. pen., Sez. I, n. 4534/2022, cit.).
Ma, allora, deve ritenersi che la commistione ingenerata dallo stesso ricorrente
(con la spendita della sua posizione istituzionale sul suo profilo “Facebook”
personale) tra la sua sfera privata ed il ruolo pubblico da lui rivestito, in uno
con il sistema di funzionamento del “social medium” “Facebook”, abbiano
comportato l’inevitabile coinvolgimento dell’immagine dell’Università degli
Studi di Milano nei contenuti divulgati dal docente stesso su tale canale
“social”, con conseguente infondatezza delle censure formulate nel motivo ora
in esame.
Così inquadrato il problema, infatti, diventa irrilevante che il “meme” condiviso
dal professore non esponesse una critica all’Università di Milano, né
attribuisse comportamenti illeciti o disdicevoli ad organi della stessa, poiché
l’immagine dell’Ateneo è lesa non solo dall’attribuzione a questo di fatti non
veritieri o di critiche con toni che eccedano la continenza e la normale
dialettica, come afferma l’appellante, ma anche dal coinvolgimento indiretto
dell’Ateneo nella condotte di un suo docente, in forza: a) della spendita da
parte di quest’ultimo della sua veste e del suo ruolo; b) della diffusione dei
messaggi da lui “condivisi” a un numero potenzialmente illimitato di utenti.
Si richiama sul punto l’art. 9 del Codice di comportamento dei dipendenti
dell’Università degli Studi di Milano (su cui si tornerà infra), il quale al comma
1 dispone che “il dipendente nei rapporti privati, anche con pubblici ufficiali nell’esercizio
delle loro funzioni, […] non assume alcun comportamento che possa recare danno
all’immagine e alla reputazione dell’Università, al fine di preservare la fiducia dei
cittadini/utenti”.
Gli effetti dannosi del comportamento dell’appellante sull’immagine e sulla
reputazione dell’Ateneo appaiono sufficientemente comprovati dalla
documentazione (segnatamente: le e-mail di protesta e gli articoli di stampa)
prodotta dalla difesa dell’Università nel giudizio di primo grado. Ed anche da
questo punto di vista, la conferma di tale quadro emerge dalla condotta del
medesimo prof. -OMISSIS- posteriore alla pubblicazione del “meme” e in
specie dalla scelta di rimuoverlo in data 13 novembre 2020, dettata dal
clamore e dalle reazioni negative suscitate dai contenuti pubblicati, come si
evince con chiarezza dal suo messaggio di comunicazione di detta scelta.
L’appellante lamenta che l’Università e con essa il T.A.R. abbiano desunto la
lesione dell’immagine dell’Ateneo non da fatti concreti ma da mere
presunzioni, ma trascura che, secondo la giurisprudenza, il danno
all’immagine può essere provato dal soggetto leso anche tramite presunzioni
gravi, precise e concordanti, purché fondate su elementi indiziari diversi dal
fatto in sé (nel caso qui in esame: non la pubblicazione del “meme” in sé, ma le
reazioni che ha suscitato), ed assumendo quali parametri di riferimento la
diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della
vittima (cfr. Cass. civ., Sez. III, ord. 18 febbraio 2020, n. 4005; id., ord. 26
ottobre 2017, n. 25420; in ordine alla possibilità di dimostrare il danno non
patrimoniale attraverso il ricorso a presunzioni, purché plurime, precise e
concordanti, cfr. C.d.S., Sez. VII, 19 luglio 2022, n. 6262).
Quanto all’affermazione che il clamore sarebbe stato indotto dal Rettore e
dalle reazioni “scomposte” interne all’Amministrazione, osserva il Collegio che
l’appellante, come nel ricorso di primo grado, ha sottolineato nella
ricostruzione dei fatti la condotta del Rettore, il quale avrebbe preannunciato
ai giornali la punizione del docente prima ancora di promuovere nei suoi
confronti l’azione disciplinare. Tuttavia tale condotta, che sembra confermata
dalla documentazione prodotta dallo stesso Ateneo nel giudizio innanzi al
T.A.R., non ha formato oggetto di apposita censura nella parte “in diritto”, né
nel ricorso originario, né nell’appello: ne discende che, in disparte i dubbi sulla
sua inopportunità, non censurabile in sede di giudizio di legittimità (cfr., ex
multis, C.d.S., Sez. VII, 2 febbraio 2022, n. 743; Sez. V, 16 novembre 2020, n.
7096; id. 23 agosto 2019, n. 5835; Sez. IV, 22 maggio 2017, n. 2380; id., 9
ottobre 2010, n. 7383), a questo Giudice, nell’esercizio del sindacato di
legittimità, è preclusa qualsiasi disamina della condotta stessa e delle ipotetiche
sue ricadute sugli atti oggetto, essi sì, di specifica impugnazione, in base alla
regola processuale per la quale nel processo amministrativo il thema decidendum
è delimitato dalle censure ritualmente sollevate dalla parte nel giudizio di
primo grado, che circoscrivono anche il perimetro del giudizio di appello ai
sensi dell’art. 104 c.p.a. (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. V, 18 luglio 2024, n. 6440;
id., 21 agosto 2023, n. 7856; Sez. VI, 15 luglio 2024, n. 6336; id., 30 giugno
2023, n. 6405; id. 29 gennaio 2020, n. 714; Sez. IV, 3 gennaio 2023, n. 108; id.,
31 luglio 2018, n. 4715).
Né vi è alcuna traccia, agli atti di questo giudizio, delle reazioni “scomposte”
sopra menzionate, che l’appellante, del resto, richiama in modo estremamente
generico, senza munire tale allegazione di un idoneo principio di prova.
Per le ragioni fin qui esposte, nel caso di specie non è rinvenibile neppure
alcuna violazione dell’art. 8 della Convenzione EDU, cosicché, in definitiva,
anche le censure ora analizzate risultano nel loro complesso prive di
fondamento.
C) Passando ora al terzo gruppo di censure, con queste l’appellante contesta la
sentenza impugnata per avere la stessa disconosciuto la sussistenza di una
violazione, ad opera degli atti impugnati, del principio di libera manifestazione
del pensiero (art. 21 Cost.).
In particolare, il docente universitario ha lamentato il concetto “fisico” di
limitazione della libertà di manifestazione del pensiero che trasparirebbe dalla
sentenza appellata, secondo il quale la punizione inflitta per un pensiero
liberamente espresso non costituirebbe una limitazione della manifestazione
dello stesso, ma solo una sanzione del suo contenuto. In realtà l’Ateneo,
sanzionando il prof. -OMISSIS- per una semplice manifestazione di un
pensiero non suo, avrebbe violato numerose norme di rango costituzionale ed
altrettante disposizioni di fondamentali carte internazionali.
Anzitutto, l’Università avrebbe disatteso l’art. 21 Cost., che pone alla libertà di
manifestazione del pensiero il solo limite espresso del buon costume, il quale
nel caso di specie non sarebbe stato violato. Né verrebbero in rilievo gli altri
limiti alla predetta libertà riconosciuti dalla giurisprudenza (l’onore, il decoro,
la reputazione e l’ordine pubblico). Il “meme” condiviso dall’appellante non
costituirebbe un incitamento all’odio di alcun genere, né all’uso della violenza;
esso non lederebbe la reputazione di soggetti che hanno reclamato tutela e si
inscriverebbe in un contesto di critica politica a personaggi pubblici, per la cui
tutela dell’onore e della reputazione la giurisprudenza avrebbe sempre
utilizzato – aggiunge l’appellante: correttamente – maglie larghissime.
Mancherebbe un corretto bilanciamento degli interessi coinvolti, avendo
l’Università limitato diritti e libertà di rango costituzionale per la tutela di un
interesse che non assumerebbe pari rilievo. Infatti, la sospensione inflitta al
prof. -OMISSIS-, oltre a limitare la sua libertà di manifestazione del pensiero,
ingenerando a suo carico una “remora” al futuro esercizio di tale libertà
fondamentale, inciderebbe sull’altrettanto fondamentale diritto al lavoro del
docente, privandolo dei mezzi di sostentamento per sé e per la propria
famiglia.
Le violazioni lamentate dall’Ateneo non sarebbero paragonabili alle
gravissime limitazioni di diritti di rango costituzionale inflitte all’appellante. Il
“meme” “incriminato” conterrebbe solo una sorta di sberleffo contro la
seconda carica di governo più importante del mondo, esposta ordinariamente
alle critiche anche aspre, sarebbe stato condiviso da migliaia di persone nel
mondo senza patirne alcuna conseguenza e avrebbe passato il vaglio,
tipicamente assai stretto e protettivo nei confronti dei politici appartenenti al
Partito Democratico degli Stati Uniti, dei controlli della piattaforma
“Facebook”. Se anche si fosse trattato di una critica al genere femminile – ciò
che l’appellante nega – non avrebbe assunto i caratteri dell’ingiuria,
diffamazione o critica oltre i limiti della continenza, all’indirizzo, in ogni caso,
di una categoria indeterminata e non di un singolo soggetto individuato, che
possa dolersi della lesione di beni costituzionali di cui è titolare.
Tali argomentazioni avrebbero ancora più forza alla luce dell’art. 10 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo e della giurisprudenza della Corte
europea espressasi al riguardo. Infatti, secondo il citato art. 10 le limitazioni
della libertà di manifestazione del pensiero sarebbero legittime soltanto se
assolutamente necessarie per tutelare la reputazione e i diritti altrui, ma il
“meme” condiviso dal prof. -OMISSIS- non avrebbe offeso la reputazione e i
diritti dell’Ateneo milanese e quest’ultimo non sarebbe titolato ad agire a
tutela della reputazione di soggetti terzi. Non sussisterebbe, poi, il nesso di
stretta necessarietà prescritto dall’art. 10 della Convenzione tra la tutela della
reputazione e dei diritti altrui (ove effettivamente offesi) e la limitazione del
diritto alla libera manifestazione del pensiero, nonché del diritto al lavoro.
La Corte europea dei diritti dell’uomo – aggiunge l’appellante – ha più volte
dichiarato l’illegittimità delle misure restrittive della libertà di manifestazione
del pensiero e delle sanzioni “dissuasive”, cioè che ingenerano il timore di
subire conseguenze gravi nella sfera dei soggetti che vorrebbero esprimere
opinioni e critiche nei confronti del potere politico o in occasione di dibattiti
pubblici. Anche nel caso del prof. -OMISSIS- la sanzione inflitta, per la sua
natura, la genericità dell’addebito che l’ha originata e l’evanescenza
dell’interesse tutelato, avrebbe la suddetta natura “dissuasiva”, nel senso di
dissuadere il docente dal manifestare le sue opinioni private attraverso i
“social”.
Le doglianze, pur suggestive, non possono essere condivise.
Nel caso di specie, infatti, anche a voler seguire la prospettazione
dell’appellante, secondo cui egli ha inteso esercitare il suo diritto alla libera
manifestazione del pensiero ex art. 21 Cost. nella forma del diritto di critica
politica (il che, peraltro, come si è avuto modo di osservare, lascerebbe
presupporre l’adesione da parte sua al contenuto del “meme” divulgato), non
risultano rispettati i limiti della verità e della continenza, cioè i limiti che sono
stati individuati dalla giurisprudenza consolidata quale forma di bilanciamento
di tale diritto fondamentale con altri diritti anch’essi fondamentali, e
segnatamente con i diritti alla dignità, al decoro e alla reputazione delle
persone.
Invero, in una recente pronuncia di cui è opportuno richiamare i passaggi
fondamentali la Cassazione penale (Sez. V, 18 gennaio 2021, n. 8898) ha
offerto rilevanti spunti ricostruttivi in ordine al limite all’esercizio del diritto di
critica.
Ritiene il Collegio che, nonostante la differenza fra le due res controversae (nel
caso definito dalla Corte di cassazione veniva infatti in rilievo una fattispecie
di reato-diffamazione), i richiamati spunti risultino certamente rilevanti anche
ai fini del presente giudizio
È stato al riguardo evidenziato che “il diritto di critica, rappresentando l’esternazione
di un’opinione relativamente a una condotta ovvero a un’affermazione altrui, si inserisce
nell’ambito della libertà di manifestazione del pensiero, garantita dall’art. 21 della Carta
costituzionale e dall’art. 10 della Convenzione EDU.
Proprio in ragione della sua natura di diritto di libertà, esso può essere evocato quale
scriminante, ai sensi dell’art. 51 c.p., rispetto al reato di diffamazione, purché venga
esercitato nel rispetto dei limiti della veridicità dei fatti, della pertinenza degli argomenti e
della continenza espressiva”.
Preliminarmente rispetto alla verifica dei requisiti in discorso, la pronuncia in
esame ha ribadito che “la nozione di “critica” rimanda non solo all’area dei rilievi
problematici, ma, anche e soprattutto, a quella della disputa e della contrapposizione, oltre
che della disapprovazione e del biasimo anche con toni aspri e taglienti, non essendovi limiti
astrattamente concepibili all’oggetto della libera manifestazione del pensiero, se non quelli
specificamente indicati dal legislatore. Limiti che sono rinvenibili, secondo le linee
ermeneutiche tracciate dalla giurisprudenza e dalla dottrina, nella difesa dei diritti
inviolabili, quale è quello previsto dall’art. 2 Cost., onde non è consentito attribuire ad altri
fatti non veri, venendo a mancare, in tale evenienza, la finalizzazione critica
dell’espressione, né trasmodare nell’invettiva gratuita, salvo che la offesa sia necessaria e
funzionale alla costruzione del giudizio critico (Sez. 5 n. 37397 del 24/06/2016, Rv.
267866)”.
Venendo al requisito della continenza, la sentenza in commento sottolinea
come lo stesso riguardi “un aspetto sostanziale e un profilo formale.
La continenza sostanziale, o “materiale”, attiene alla natura e alla latitudine dei fatti
riferiti e delle opinioni espresse, in relazione all’interesse pubblico alla comunicazione o al
diritto-dovere di denunzia: essa si riferisce, dunque, alla quantità e alla selezione
dell’informazione in funzione del tipo di resoconto e dell’utilità/bisogno sociale di esso.
La continenza formale attiene, invece, al modo con cui il racconto sul fatto è reso o il
giudizio critico esternato, e cioè alla qualità della manifestazione: essa postula, quindi, una
forma espositiva proporzionata, “corretta” in quanto non ingiustificatamente
sovrabbondante al fine del concetto da esprimere. Questo significa che le modalità espressive
attraverso le quali si estrinseca il diritto alla libera manifestazione del pensiero, con la
parola o qualunque altro mezzo di diffusione, di rilevanza e tutela costituzionali (ex art.
21 Cost.), postulano una forma espositiva corretta della critica – e cioè astrattamente
funzionale alla finalità di disapprovazione – senza trasmodare nella gratuita e immotivata
aggressione dell’altrui reputazione.
Si ritiene, peraltro, che essa non sia incompatibile con l’uso di termini che, pure
oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, per non
esservi adeguati equivalenti (Sez. 5, n. 11905 del 05/11/1997, G, Rv. 209647).
In realtà, secondo il consolidato canone ermeneutico di questa Corte, al fine di valutare il
rispetto del criterio della continenza, occorre contestualizzare le espressioni intrinsecamente
ingiuriose, ossia valutarle in relazione al contesto spazio – temporale e dialettico nel quale
sono state profferite, e verificare se i toni utilizzati dall’agente, pur forti e sferzanti, non
risultino meramente gratuiti, ma siano invece pertinenti al tema in discussione,
proporzionati al fatto narrato e funzionali al concetto da esprimere (Sez. 5 n. 32027 del
23/03/2018, Rv. 273573).
Con questo si intende ribadire che la diversità dei contesti nei quali si svolge la critica, così
come la differente responsabilità e natura della funzione dei soggetti ai quali la critica è
rivolta, possono giustificare attacchi anche violenti, se proporzionati ai valori in gioco che si
ritengono compromessi: sono, in definitiva, gli interessi in gioco che segnano la “misura” delle
espressioni consentite (Sez. 1, n. 36045 del 13/06/2014, P.M in proc. Surano, Rv.
261122; Sez. 5, n. 21145 del 18/04/2019 Rv. 275554).
Compito del giudice è, dunque, quello di verificare se il negativo giudizio di valore espresso
possa essere, in qualche modo, giustificabile nell’ambito di un contesto critico e funzionale
all’argomentazione, così da escludere l’invettiva personale volta ad aggredire personalmente
il destinatario (Sez. 5 n. 31669 del 14/04/2015, Rv. 264442), con espressioni
inutilmente umilianti e gravemente infamanti (Sez. 5 n. 15060 del 23/02/2011, Rv.
250174).
Il contesto dialettico nel quale si realizza la condotta può, sì, essere valutato ai limitati fini
del giudizio di stretta riferibilità delle espressioni potenzialmente diffamatorie al
comportamento del soggetto passivo oggetto di critica, ma non può mai scriminare l’uso di
espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona in quanto tale (Sez. 5 n.
37397 del 24/06/2016, Rv. 267866). Si è così affermato che esula dai limiti del diritto
di critica l’accostamento della persona offesa a cose o concetti ritenuti ripugnanti, osceni, o
disgustosi, considerata la centralità che i diritti della persona hanno nell’ordinamento
costituzionale (Sez. 5 n. 50187 del 10/05/2017, Rv. 271434)”.
Tirando le somme del discorso ora visto, il Giudice, al fine di verificare se la
fattispecie portata al suo esame costituisca o meno legittimo esercizio del
diritto di critica, dovrà preliminarmente stabilire se il contenuto della
comunicazione rivolta a più persone rechi in sé la portata lesiva della
reputazione altrui. Una volta compiuto detto accertamento, la sua attenzione
dovrà spostarsi sulla verifica della sussistenza dei requisiti di verità e
continenza: quest’ultimo requisito postula, in specie, una forma espositiva
corretta della critica rivolta e cioè strettamente funzionale alla finalità di
disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione
dell’altrui reputazione (cfr., ex plurimis, Cass. pen., Sez. V, 22 maggio 2024 n.
29661).
Con specifico riguardo alle condotte realizzate mediante “social network”
(com’è nella vicenda ora in esame), secondo la giurisprudenza costituisce
legittimo esercizio del diritto di critica politica la diffusione, con mezzo di
pubblicità, di giudizi negativi circa condotte biasimevoli poste in essere da
amministratori pubblici, purché la critica prenda spunto da una notizia vera, si
connoti di pubblico interesse e non trascenda in un attacco personale (Cass.
pen., Sez. V, 7 maggio 2024, n. 34057; id., 28 marzo 2024, n. 17326; id., 10
novembre 2022, n. 4530; id., 21 luglio 2009, n. 41767). In merito a
quest’ultimo profilo, la valutazione del requisito della continenza comporta
che si debba tenere conto non solo del tenore del linguaggio utilizzato, ma
anche dell’eccentricità delle modalità di esercizio della critica, restando fermo
il limite del rispetto dei valori fondamentali, che si deve ritenere superato
quando la persona offesa, oltre che al ludibrio della sua immagine, sia esposta
al pubblico disprezzo (Cass. pen., Sez. V, n. 8898/2021, cit.).
La giurisprudenza ha altresì specificato che nella valutazione del requisito della
continenza si deve tenere conto del complessivo contesto in cui si realizza la
condotta e verificare che i toni utilizzati, sebbene aspri e forti, non siano
gravemente infamanti e gratuiti, ma risultino, invece, pertinenti al tema in
discussione: ove i commenti pubblicati siano gratuiti, offensivi e tutt’altro che
funzionali alla denuncia dell’episodio cui si riferisce la critica, allora gli stessi
non potranno ritenersi compresi nei limiti di una continenza espressiva, pur se
aspra e pungente (Cass. pen., Sez. V, 31 maggio 2023, n. 36468).
Orbene, nel caso di specie si è già avuto modo di evidenziare il carattere
sgradevole e grossolano del messaggio veicolato dal “meme” contestato, che
non si limita a una (legittima) critica politica aspra rivolta alla Vice Presidente
e al Presidente degli Stati Uniti d’America, ma contiene un giudizio
gratuitamente offensivo per le “giovani ragazze” sulle modalità da seguire per
fare carriera politica, così venendo meno al requisito di continenza, per come
sopra ricordato.
Da un lato, dunque, nella fattispecie in esame non si ravvisano violazioni del
diritto di libertà sancito dall’art. 21 Cost., avendo l’appellante oltrepassato i
limiti del legittimo esercizio del diritto di critica, scolpiti dalla giurisprudenza a
tutela di diritti anch’essi di portata fondamentale. Nel bilanciamento dei
diversi interessi, l’Ateneo prima e il T.A.R. poi non hanno fatto altro che
applicare, correttamente, i suddetti limiti, e in specie quello della continenza,
al cui rispetto l’appellante era tenuto sia uti civis, sia, ancora di più, nella sua
veste di educatore, fortemente sottolineata dall’Università nei propri atti: con
il ché si deve escludere che la sanzione irrogatagli abbia avuto le connotazioni
“dissuasive”, e in sostanza intimidatorie, che il prof. -OMISSIS- pretende di
riconnettervi.
Gli altri diritti fondamentali del docente, e segnatamente quelli al lavoro e alla
retribuzione, risultano adeguatamente tutelati dalla normativa sopra ricordata,
con il graduare la sanzione in relazione alla gravità della condotta posta in
essere e con il concedere al dipendente sospeso in via disciplinare un assegno
alimentare (art. 82 del T.U. n. 3/1957): assegno, la cui corresponsione
all’appellante viene esplicitamente accordata dal provvedimento impugnato.
Neppure si può affermare che il tenore del messaggio giudicato offensivo
dall’Ateneo fosse rivolto, in realtà, a un destinatario indeterminato, visto il
riferimento in esso contenuto alle “giovani ragazze” interessate alla carriera
politica.
Da ultimo, anche a voler affermare che l’Università abbia inteso emettere un
“caveat” nei confronti del docente, lo stesso si ricollega legittimamente alla
veste di pubblico educatore (in una posizione di particolare rilievo) da lui
ricoperta: è questo un aspetto già visto (e di cui ci si dovrà ancora occupare in
sede di analisi del quarto gruppo di censure), dal quale non si può prescindere,
perché la suddetta veste, che d’altronde l’appellante fa valere anche sul suo
profilo “social”, vale a differenziarne la posizione dagli altri consociati e a
provocare alcune restrizioni della sua sfera giuridica soggettiva, anche nei
rapporti privati. Ciò trova un’innegabile conferma nell’assoggettamento
dell’appellante, al pari degli altri docenti, al Codice di comportamento dei
dipendenti dell’Università di Milano, che contiene una specifica disposizione
(l’art. 9) dedicata alle condotte che i dipendenti devono mantenere nei
rapporti privati, nonché al “Codice etico e per l’integrità della ricerca” adottato
dall’Ateneo, il quale all’art. 8, comma 5, stabilisce che “nell’utilizzo dei mezzi di
comunicazione, inclusi i social media, i componenti dell’Università si impegnano a non
recare danno al prestigio e all’immagine dell’Università e a rispettare la riservatezza delle
persone, salvo il legittimo esercizio della libera manifestazione del pensiero e della libertà di
critica”.
Per questo verso, nemmeno soccorre l’appellante la circostanza, da lui dedotta
come specifica censura nel ricorso di primo grado, della vicenda di altro
docente dello stesso Ateneo resosi protagonista anni fa di una condotta
asseritamente analoga e al quale, però, l’Ateneo, per il tramite del Rettore,
avrebbe riconosciuto la scriminante dell’esercizio del diritto alla libera
manifestazione del pensiero. Ciò, per la decisiva ragione, evidenziata dal
T.A.R., che il vizio di disparità di trattamento non è configurabile quando si ha
come parametro di riferimento un atto eventualmente adottato
dall’Amministrazione contra legem (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. VII, 28 maggio
2024, n. 4764; Sez. IV, 2 luglio 2021, n. 5070; id., 7 giugno 2021, n. 4351; Sez.
V, 18 novembre 2003, n. 7314): le eventuali illegittimità in favore di un altro
soggetto, infatti, non legittimano mai l’estensione anche alla parte richiedente
dello stesso trattamento contra legem poiché, alla stregua del principio di legalità,
la legittimità dell’operato della P.A. non può essere inficiata dall’eventuale
illegittimità compiuta in altra situazione (cfr. C.d.S., Sez. VI, 20 marzo 2020, n.
1987; id., 30 dicembre 2019, m. 8893). Pertanto, qualora le due situazioni
fossero effettivamente sovrapponibili (il che qui non interessa, vista la
mancata riproposizione della doglianza in appello), sarebbe incorsa in errore
l’Università nel non riconoscere anche in passato l’assoggettamento del
docente interessato al suindicato limite della continenza nella manifestazione
del pensiero.
In conclusione, nel caso ora in esame non sono ravvisabili violazioni della
libertà di manifestazione del pensiero garantita dall’art. 21 Cost. e dall’art. 10
della Convenzione EDU.
D) Venendo al quarto gruppo di censure, esso ha ad oggetto la motivazione
della sentenza di prime cure che ha ritenuto che la condotta del docente
rientrasse fra quelle previste dall’art. 9, comma 1, del Codice di
comportamento dell’Università, secondo cui il dipendente, nei rapporti
privati: a) non usa in modo improprio la posizione che ricopre nell’Ateneo; b)
“non assume alcun comportamento che possa recare danno all’immagine e alla reputazione
dell’Università, al fine di preservare la fiducia dei cittadini/utenti”. Sulla base di tale
previsione normativa, l’Università ha inflitto all’appellante la sospensione dalle
funzioni, per effetto del combinato disposto dell’art. 15 del medesimo Codice
di comportamento (che assegna rilevanza disciplinare alla violazione degli
obblighi previsti dal Codice in discorso) e dell’art. 54, comma 3, del d.lgs. n.
165/2001. La sanzione della sospensione, come si è visto, è prevista dall’art.
89, primo comma, lett. d), del r.d. n. 1592/1933 per gli “atti in genere, che
comunque ledano la dignità o l’onore del professore”.
L’appellante contesta che la sua condotta rientri nella fattispecie di cui al
riferito art. 9, né in alcuna altra fattispecie, non avendo rilievo disciplinare.
Infatti, la disciplina dell’Università (per l’esattezza: l’art. 33, comma 5, dello
Statuto) rimanda alle sanzioni previste dal r.d. 1592/1933, tuttavia – lamenta
l’appellante – l’art. 89 del regio decreto prevede la sospensione dall’ufficio e
dallo stipendio solo per “abituale mancanza ai doveri di ufficio” e non già per una
condotta che, ai sensi dell’art. 9 del citato Codice di comportamento, possa
recare danno all’immagine e alla reputazione dell’Università, al fine di
preservare la fiducia dei cittadini/utenti: orbene, la condotta del prof. -
OMISSIS- sarebbe priva del requisito dell’abitualità (essendo la sanzione
inflittagli la prima e l’unica da lui subita) e, dunque, non si configurerebbe
come abituale mancanza ai doveri d’ufficio.
Qualora, invece, si intendesse ricondurre la condotta in questione alla
categoria degli “atti in genere, che comunque ledano la dignità o l’onore del professore”
prevista anch’essa dall’art. 89 cit. – come ha fatto la sentenza gravata –, si
fuoriuscirebbe in ogni caso dall’art. 9 del Codice di comportamento, che
individua condotte rilevanti disciplinarmente in quanto lesive dell’immagine
dell’Ateneo: infatti, per esplicita indicazione dell’art. 15 del Codice, le
condotte lesive della predetta immagine rientrano fra le violazioni dei doveri
d’ufficio, le quali violazioni, però, per avere rilievo disciplinare devono, ai sensi
del già visto art. 89 del r.d. n. 1592/1933, essere abituali. E nel caso ora in
esame – ribadisce l’appellante – la sua condotta sarebbe priva del requisito
dell’abitualità.
Il docente aggiunge che: 1) la lettera di contestazioni inviatagli dal Rettore
farebbe riferimento solo a condotte private che ledono l’immagine
dell’Università e mai a condotte che ledono l’onore del professore; 2) la
delibera del Consiglio di Amministrazione non recherebbe richiami alla
fattispecie degli “atti in genere, che comunque ledano la dignità o l'onore del professore”.
Sotto ulteriore profilo, l’appellante nega che la fattispecie che lo riguarda sia
sussumibile all’interno dell’art. 9 del Codice di comportamento per le seguenti
ragioni, tra loro concatenate.
- Anzitutto, perché l’espressione di un pensiero, nell’ambito della sfera privata,
non avente a oggetto l’attribuzione all’Università di condotte false, o critiche
all’Ateneo oltre i limiti della continenza, non potrebbe ledere l’immagine e la
reputazione dell’Università stessa. Una diversa interpretazione del citato art. 9
farebbe venir meno i fondamentali requisiti della tassatività, della
determinatezza e della prevedibilità nell’individuazione delle condotte lesive
della suddetta immagine e reputazione, poiché il docente non saprebbe mai
ciò che è lecito manifestare per l’Università e ciò che invece è precluso.
Inoltre, in base all’art. 1, comma 3, del Codice di comportamento, per i
docenti universitari le norme del Codice stesso costituirebbero solo principi
generali, e non norme di dettaglio che regolano la loro condotta. Facendo uso
della distinzione tra norme e principi, allora, l’art. 9 del predetto Codice non
sarebbe applicabile in maniera restrittiva onde punire condotte come quella
ascritta al prof. -OMISSIS-. In aggiunta l’appellante osserva che se egli avesse
espresso il pensiero contenuto nel “meme” durante la sua attività di docente,
sarebbe stato di certo tutelato dalla libertà d’insegnamento ex art. 33 Cost.; la
manifestazione di un’opinione di carattere generale su un tema di politica
internazionale tramite un “social network” non potrebbe ledere la lealtà e
l’imparzialità del docente universitario, né la qualità dei servizi resi. Da ultimo,
il Codice di comportamento sarebbe stato redatto per tutelare soprattutto
interessi pubblici relativi alla prevenzione della corruzione, alla qualità dei
servizi e all’imparzialità del pubblico dipendente: la disciplina delle condotte
private dei docenti – in specie di quelle in cui si concretizza la libera
manifestazione del pensiero – sarebbe, di conseguenza, estranea al suindicato
Codice.
- In secondo luogo, perché il ricorrente ha sostenuto innanzi al T.A.R. e
ribadisce in appello che la condotta da lui tenuta potrebbe al più rientrare tra
quelle descritte dal Codice etico, con esclusione di una sua rilevanza
disciplinare e con inapplicabilità della sanzione della sospensione dall’ufficio,
non prevista dal Codice etico. In particolare, alla fattispecie avrebbe dovuto
applicarsi l’art. 8, comma 5, di detto Codice (che, come già visto, disciplina
l’uso dei “social media” da parte dei “componenti dell’Università”), cosicché
avrebbe errato il T.A.R. nel richiamare l’art. 16, comma 2, del Codice di
comportamento, che, in caso di concorso tra violazione disciplinare e
violazione del Codice etico, dà prevalenza al procedimento disciplinare: infatti,
al contrario di quanto afferma il Tribunale, nel caso di specie si applicherebbe,
in base ai principi di specialità e di tassatività, la norma del Codice etico,
trattandosi della sola norma regolante la comunicazione a mezzo “social
media”. Deporrebbe in tale senso anche il fatto che solo con d.P.R. del 13
giugno 2023 è stato inserito nel d.P.R. n. 62/2013 (c.d. Codice di
comportamento nazionale) l’art. 11-ter, che disciplina l’utilizzo dei “social
media” da parte dei dipendenti pubblici, con cui hanno assunto rilievo
disciplinare le lesioni al prestigio, al decoro o all’immagine
dell’Amministrazione di appartenenza conseguenti all’utilizzo dei “social
media”: con il ché – osserva l’appellante – anteriormente a tale novella,
emanata in attuazione dell’art. 54, comma 1-bis, del d.lgs. n. 165/2001, e
dunque all’epoca dei fatti qui in esame, non sarebbe stato possibile
considerare illecita una condotta come quella da lui tenuta. Orbene, in base al
citato art. 8 del Codice etico la condotta del docente universitario non
potrebbe assumere rilevanza disciplinare allorché essa costituisca legittimo
esercizio della manifestazione del pensiero su tematiche generali interessanti il
dibattito pubblico internazionale. Peraltro, anche nella denegata ipotesi di
violazione del predetto art. 8, la conseguenza non potrebbe essere l’inflizione
della sanzione disciplinare irrogata al prof. -OMISSIS-, ciò essendo escluso
dall’art. 46 del medesimo Codice etico, che non contempla la sospensione tra
le sanzioni da esso previste. Se poi l’art. 8, comma 5, del Codice etico dovesse
intendersi nel senso di vietare manifestazioni del pensiero come quella per cui
è causa, lo stesso risulterebbe illegittimo e da annullare (tanto che il docente lo
ha impugnato in via subordinata).
Le doglianze, che in parte ripropongono quelle dedotte con il secondo e terzo
gruppo di censure, non sono suscettibili di positivo apprezzamento.
In via preliminare, con riferimento alla riproposizione dei profili già dedotti
con il secondo e il terzo gruppo di censure, si rinvia a tutto quanto si è già
detto più sopra a confutazione degli stessi: ciò vale, tra l’altro, per le questioni
attinenti alla lesione all’immagine e alla reputazione dell’Università e per i
limiti al legittimo esercizio del diritto di critica e, più in generale, alla libertà di
manifestazione del pensiero, che non può essere concepita come libertà di
offendere in maniera gratuita ed impunemente chiunque.
È d’uopo, quindi, richiamare in questa sede quanto detto sopra circa l’utilizzo
da parte dell’odierno appellante, nei “social media”, della sua qualità di docente
universitario, per trarne il corollario che, a tale stregua, è innegabile come la
condotta rimproveratagli abbia integrato sia la fattispecie prevista dall’art. 9
del Codice di comportamento dell’Università, sia quella contemplata dall’art.
89, primo comma, lett. d), del r.d. n. 1592/1933. Egli infatti, ha tenuto nei suoi
rapporti privati – in particolare, con la pubblicazione sulla sua pagina
“Facebook del “meme” incriminato – un comportamento tale da poter “recare
danno all’immagine e alla reputazione dell’Università” (art. 9 del Codice) e allo stesso
tempo detto comportamento ha integrato la fattispecie degli “atti in genere, che
comunque ledano la dignità o l’onore del professore”, contemplata dall’art. 89, primo
comma, lett. d), del regio decreto, che vi riconnette le sanzioni di cui ai nn. da
2 a 5 del precedente art. 87 (e dunque anche la sanzione della sospensione
dall’ufficio e dallo stipendio).
A quest’ultimo riguardo, non corrisponde al vero che l’Università non abbia
richiamato la fattispecie prevista dal citato art. 89, primo comma, lett. d), il
richiamo essendo contenuto nell’art. 33, comma 5, dello Statuto dell’Ateneo, a
sua volta menzionato in modo esplicito nel decreto di irrogazione della
sanzione. Il docente, del resto, non poteva ignorare che per la condotta
rimproveratagli egli avrebbe potuto essere punito con la sospensione
dall’ufficio e dallo stipendio, cioè con una sanzione più grave della censura,
visto che, ai sensi del già ricordato art. 33, comma 2, dello Statuto
dell’Università, il procedimento disciplinare si svolge innanzi al Collegio di
disciplina (com’è avvenuto nella vicenda in esame) quando riguarda fatti che
possano dare luogo “all’irrogazione di una sanzione più grave della censura fra quelle
previste dall’articolo 87 del TU delle leggi sull’Istruzione superiore di cui al regio decreto
31 agosto 1933, n. 1592”.
La riconducibilità della condotta alle previsioni dei citati artt. 9 e 89, primo
comma, lett. d), esclude che nel caso di specie siano configurabili violazioni
dei principi di tassatività e determinatezza della fattispecie e di prevedibilità
dei comportamenti sanzionabili; inoltre, il fatto che la condotta sia stata tenuta
dal professore al di fuori dell’insegnamento universitario rende fuorviante
ogni richiamo alle guarentigie spettanti ai sensi dell’art. 33 Cost. per il
suddetto insegnamento.
Non può essere condiviso l’utilizzo strumentale della distinzione tra norme e
principi per farne discendere una presunta esenzione del docente dei doveri di
cui all’art. 9 del Codice di comportamento: questo, per inciso, ha ad oggetto
specifico i comportamenti dei dipendenti dell’Università “nei rapporti privati”, il
che va a confutare la tesi dell’appellante secondo cui la disciplina delle
condotte private dei docenti sarebbe estranea al suindicato Codice.
Erronea è poi l’argomentazione che sostiene l’esorbitanza della fattispecie
dagli ambiti delle condotte aventi rilevanza disciplinare in ragione dell’assenza
del requisito dell’abitualità della violazione dei doveri d’ufficio, poiché essa
discende da un fraintendimento nell’interpretazione delle norme che regolano
la fattispecie stessa.
Invero l’abitualità nella violazione dei doveri d’ufficio è requisito di un’altra e
distinta fattispecie di condotta rilevante a livello disciplinare contemplata
dall’art. 89, primo comma, del r.d. n. 1592/1933, quella, cioè, della lett. b), che
prevede, appunto, l’“abituale mancanza ai doveri di ufficio” (oltre che di quella
della lett. c), avente ad oggetto l’“abituale irregolarità della condotta”, che in questa
sede non rileva). Nel caso ora in esame, invece, assume rilievo la diversa
previsione della lett. d), avente a oggetto, come visto, gli “atti in genere, che
comunque ledano la dignità o l’onore del professore”: per questi la norma non richiede
per nulla che consistano in condotte abituali, potendo perciò trattarsi, come
nella vicenda del prof. -OMISSIS-, di comportamenti singoli.
D’altro canto, non corrisponde al vero che le violazioni dei doveri di ufficio
da parte del professore universitario, per avere rilevanza disciplinare, debbano
essere “abituali”. Il requisito dell’abitualità, infatti, è previsto solo per le
fattispecie di responsabilità disciplinare di cui all’art. 89, primo comma, lett. b)
e lett. c), del r.d. n. 1592/1933, estranee al caso ora in esame, mentre non è
prescritto né dalla lett. d) dell’art. 89, primo comma, cit., né dal Codice di
comportamento dell’Università. Quest’ultimo, infatti, all’art. 15, comma 1, si
limita a disporre che le violazioni degli obblighi da esso stabiliti – e quindi, per
quanto di interesse, degli obblighi di cui all’art. 9 (nonché degli obblighi del
Codice di comportamento Nazionale e degli obblighi e doveri del Piano
Nazionale Anticorruzione e del Piano triennale di prevenzione della
corruzione dell’Ateneo) – “integra comportamenti contrari ai doveri d’ufficio e
determina responsabilità disciplinare accertata all’esito del procedimento disciplinare, nel
rispetto dei principi di gradualità e proporzionalità delle sanzioni […]”: l’art. 15,
comma 1, non richiede, dunque, che le ridette violazioni, per determinare
responsabilità disciplinare, debbano essere abituali, né il requisito
dell’abitualità è previsto per alcuna delle condotte elencate dal precedente art.
9 del Codice di comportamento dell’Università.
In altre parole, le violazioni da parte del dipendente universitario degli
obblighi previsti dal Codice di comportamento dell’Ateneo costituiscono atti
contrari ai doveri d’ufficio e integrano responsabilità disciplinare: vi rientrano
anche le condotte di cui all’art. 9 del predetto Codice e, quindi, l’assunzione di
un comportamento “che possa recare danno all’immagine e alla reputazione
dell’Università, al fine di preservare la fiducia dei cittadini/utenti”. Per individuare la
sanzione applicabile all’illecito disciplinare si fa riferimento all’art. 89 del r.d.
n. 1592/1933 (cui, come detto, rinvia l’art. 33, comma 5, dello Statuto
dell’Ateneo), cosicché ove l’atto contrario ai doveri d’ufficio abbia carattere
abituale, rientrerà nelle previsioni della lett. b) del citato art. 89, primo comma,
mentre ove esso non abbia tale carattere, potrà rientrare in una delle altre
ipotesi dell’art. 89, tra cui quella degli “atti in genere, che comunque ledano la dignità
o l’onore del professore”, contemplata dalla lett. d).
In definitiva, l’erroneo convincimento dell’appellante, secondo cui la condotta
attribuitagli, ritenuta lesiva dell’immagine dell’Ateneo, per poter dare luogo
all’applicazione di una sanzione disciplinare avrebbe dovuto avere il requisito
dell’abitualità, è frutto di un equivoco. L’appellante, infatti, si fonda sul fatto
che, in base all’art. 15 del Codice di comportamento dell’Università, la
condotta in questione rappresenta una violazione dei doveri d’ufficio, ma
l’equivoco consiste nel ritenere che, ai sensi del combinato disposto del
succitato art. 15 e dell’art. 89 del r.d. n. 1592/1933, le violazioni dei doveri
d’ufficio, per poter essere sanzionate a livello disciplinare, debbano essere
abituali: tuttavia, nessuna disposizione, tantomeno quelle invocate
dall’appellante, giustifica una simile conclusione.
Dunque, la condotta tenuta dal docente ha rilevanza disciplinare e ciò è
sufficiente ad escludere che alla stessa possano applicarsi le disposizioni del
Codice etico, pur se in ipotesi anch’esse violate, visti – come giustamente
osserva il T.A.R. – il principio del ne bis in idem e la clausola di specialità dettata
dall’art. 16 del Codice di comportamento (che privilegia il “canale disciplinare”,
ove una medesima condotta rilevi sia disciplinarmente sia come violazione del
Codice etico, cosicché entrambi i canali siano in astratto praticabili).
L’infondatezza anche per questo verso delle doglianze dell’appellante emerge
con chiarezza, ove si consideri:
a) che la preferenza per il “canale disciplinare” espressa dall’art. 16 del Codice di
comportamento si mostra del tutto logica e ragionevole, atteso che, di fronte a
condotte che integrino, al tempo stesso, violazioni sia del Codice di
comportamento sia del Codice etico, l’applicazione delle sole sanzioni previste
dal Codice etico – che lo stesso appellante ammette essere più lievi – sarebbe
discriminatoria e ingiusta nei confronti dei soggetti che abbiano posto in
essere, invece, condotte integranti violazioni del solo Codice etico e non
anche del Codice di comportamento;
b) che comunque la clausola di specialità di cui al citato art. 16 esprime un
favor per il soggetto che abbia violato sia il Codice di comportamento, sia il
Codice etico, poiché evita una duplicazione delle sanzioni a suo danno, tenuto
conto che, in difetto di una simile clausola, una stessa condotta, qualora
integrante una violazione sia del Codice di comportamento, sia del Codice
etico, sarebbe punita con le sanzioni previste sia dall’uno, sia dall’altro, con
un’applicazione del meccanismo del bis in idem assai penalizzante per l’autore
dell’(unica) condotta.
Inoltre l’appellante, con l’insistere sul criterio di specialità quale strumento per
individuare la norma applicabile alla fattispecie, optando per l’art. 8, comma 5,
del Codice etico, quale unica disposizione specifica dedicata all’uso dei “social
media” da parte dei dipendenti dell’Università, non considera la gerarchia delle
fonti. Infatti, secondo il criterio di gerarchia delle fonti (che osta
all’applicazione del criterio di specialità, il quale si applica in presenza di
un’antinomia o un concorso tra due norme pari ordinate nella gerarchia delle
fonti: C.d.S., Sez. IV, 14 giugno 2024, n. 5357; id., 16 febbraio 2012, n. 812;
Sez. V, 24 ottobre 2023, n. 9210; id., 7 giugno 2022, n. 4643), sulla disciplina
di cui all’art. 8, comma 5, del Codice etico dell’Ateneo prevale quella dell’art.
89, primo comma, lett. d), del r.d. n. 1592/1933, in base alla quale sono
sanzionabili gli atti “che comunque ledano la dignità o l’onore del professore” (a
prescindere dallo strumento con cui detta lesione viene prodotta e dunque
anche se la stessa consegue all’utilizzo in modo inappropriato dei “social
media”).
Quale logico corollario di quanto appena esposto, risultano infondate le
censure dell’appellante sull’inapplicabilità, nei suoi confronti, della sanzione
della sospensione dall’ufficio e dallo stipendio, siccome non contemplata
dall’art. 46 del Codice etico, poiché la stessa, come detto, è applicabile alla
fattispecie che lo riguarda ai sensi del combinato disposto degli artt. 87 e 89
primo comma, lett. d), del r.d. n. 1592/1933.
Analogamente, risultano infondate le argomentazioni che l’appellante
pretende di desumere dalla normativa del giugno 2023 intervenuta a dare
attuazione all’art. 54, comma 1-bis, del d.lgs. n. 165/2001 in tema di disciplina,
da parte del Codice di comportamento nazionale, del corretto utilizzo ad
opera dei dipendenti pubblici delle tecnologie informatiche e dei mezzi di
informazione e “social media”, “anche al fine di tutelare l’immagine della pubblica
amministrazione” (comma 1-bis il quale, peraltro, è anch’esso posteriore
all’episodio per cui è causa, essendo stato inserito dall’art. 4, comma 1, lett. a),
del d.l. n. 36/2022, conv. con l. n. 79/2022). Parimenti, non rileva
l’impugnazione, in via subordinata, del riferito art. 8, comma 5, del Codice
etico, stante la sua inapplicabilità alla fattispecie per cui è causa.
In definitiva, quindi, anche il quarto gruppo di censure dedotte dall’appellante
risulta nel complesso destituito di fondamento.
Venendo, da ultimo, all’analisi del quinto gruppo di censure, con questo il
prof. -OMISSIS- si duole del mancato accoglimento del motivo di ricorso
inerente all’illegittimità da cui sarebbe affetta la sanzione inflittagli, perché
emessa in violazione del principio di proporzione.
Non sarebbe vero – lamenta l’appellante – che la sospensione fosse l’unica
misura afflittiva possibile, residuando la mera censura o le sanzioni previste
dal Codice etico. Il provvedimento sanzionatorio, quindi, apparirebbe illogico
e contraddittorio, perché da un lato l’Università avrebbe ripetuto, in tutti i
propri atti, che: 1) la condotta è consistita nella sola condivisione di un
“meme”; 2) è riconosciuta e tutelata a livello costituzionale la libertà di
manifestazione del pensiero; 3) il “meme” è stato rimosso prontamente ed in
maniera spontanea dal professore; 4) quest’ultimo ha pubblicato un messaggio
di chiarimenti nel quale ha precisato di non avere voluto offendere nessuno e
di non abbracciare nessuna idea discriminatoria. Dall’altro lato, tuttavia,
l’Ateneo avrebbe irrogato al docente una sanzione così grave da colpire il suo
diritto al lavoro, alla retribuzione necessaria, ex art. 36 Cost., a condurre una
vita libera e dignitosa, e alla libera manifestazione del pensiero, laddove le
considerazioni poc’anzi riportate ai nn. da 1) a 4) avrebbe dovuto indurre
l’Università ad archiviare il procedimento o ad una sanzione più mite. Di qui –
conclude l’appellante – la sussistenza del vizio di eccesso di potere per
contraddittorietà e per mancata applicazione del principio di proporzionalità.
Le doglianze non possono essere condivise.
In via preliminare il Collegio richiama il consolidato orientamento
giurisprudenziale, secondo cui la valutazione della P.A. sulla gravità dei fatti
addebitati in relazione all’applicazione di una sanzione disciplinare costituisce
espressione di discrezionalità amministrativa, non sindacabile in via generale
in sede di giudizio di legittimità, salvo che nelle ipotesi di eccesso di potere,
nelle sue varie forme sintomatiche, quali la manifesta illogicità, la manifesta
irragionevolezza, l’evidente sproporzionalità e il travisamento. Spetta alla P.A.,
in sede di adozione del provvedimento sanzionatorio, stabilire il rapporto tra
l’infrazione e il fatto, il quale assume rilevanza disciplinare in base a un
apprezzamento di larga discrezionalità. “Le valutazioni in ordine al convincimento
sulla gravità delle infrazioni e alla conseguente sanzione da infliggere sono dunque connotate
da amplissima discrezionalità: ciò in considerazione degli interessi pubblici che devono essere
attraverso tale procedimento tutelati. Quindi, il provvedimento disciplinare sfugge ad un
pieno sindacato di legittimità del giudice, il quale non può sostituire le proprie valutazioni a
quelle operate dall’Amministrazione, salvo che queste ultime siano inficiate da travisamento
dei fatti, evidente sproporzionalità o qualora il convincimento non risulti formato sulla base
di un processo logico e coerente ovvero sia viziato da palese irrazionalità” (così C.d.S.,
Sez. II, 21 agosto 2023, n. 7886; cfr. altresì, ex multis, Sez. II, 4 aprile 2024, n.
3107; Sez. IV, 29 marzo 2021, n. 2629; id., 16 giugno 2020, n. 3869; id., 10
febbraio 2020, n. 1013; id., 21 gennaio 2020, n. 484; id., 6 giugno 2019, n.
3824; id., 9 marzo 2018, n. 1507; Sez. VI, 16 agosto 2017, n. 4012; id., 20
aprile 2017, n. 1858; id., 16 aprile 2015, n. 1968; id., 22 marzo 2007, n. 1350;
Sez. III, 5 giugno 2015, n. 2791; id., 20 marzo 2015, n. 1537). Ma nessuno dei
vizi suesposti è ravvisabile nel provvedimento impugnato.
Con specifico riferimento al lamentato difetto di proporzionalità, osserva il
Collegio, a confutazione della doglianza, che la sanzione concretamente
irrogata al prof. -OMISSIS- è stata la sospensione per un mese dall’ufficio e
dallo stipendio e cioè la sanzione meno afflittiva – a parte la censura – tra
quelle elencate dall’art. 87 del r.d. n. 1592/1933: in detto elenco, strutturato
secondo un ordine ascendente, la sospensione è infatti collocata al n. 2) su un
totale di cinque. Quanto alla durata della sospensione, la stessa è stata inflitta
al docente in misura pari a un dodicesimo del massimo, che l’art. 87 cit. fissa
in un anno.
Da questi elementi si ricava, dunque, che le circostanze attenuanti sopra
riferite dal docente sono state attentamente vagliate dalla P.A.: del resto, anche
l’appellante ammette che l’Ateneo le ha riconosciute e menzionate “in tutti gli
atti istruttori e nel provvedimento finale”.
Pertanto, nella condotta della P.A. non è ravvisabile nessuna violazione del
principio di proporzione, né alcuna contraddittorietà, avendo l’Università
operato in piena conformità all’art. 15, comma 1, del Codice di
comportamento, il quale, come già accennato, afferma che la responsabilità
disciplinare conseguente alla violazione dei doveri del Codice stesso viene
“accertata all’esito del procedimento disciplinare, nel rispetto dei principi di gradualità e
proporzionalità delle sanzioni”.
In conclusione, l’appello è infondato, vista l’infondatezza di tutte le doglianze
con lo stesso dedotte, e deve perciò essere respinto, dovendo la sentenza
gravata essere confermata.
Sussistono, comunque, giusti motivi per disporre l’integrale compensazione
tra le parti costituite delle spese del giudizio di appello, attesa la rilevante
complessità delle questioni affrontate, mentre non si fa luogo a pronuncia
sulle spese nei confronti del M.U.R., non costituitosi in giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione Settima (VII),
definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo
respinge.
Compensa le spese del giudizio di appello tra le parti costituite.
Nulla spese nei confronti del Ministero dell’Università e della Ricerca, non
costituitosi in giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, commi 1 e 2, del d.lgs.
30 giugno 2003, n. 196, e all’art. 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del
Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti e
della dignità della parte interessata, dà mandato alla Segreteria di procedere
all’oscuramento delle generalità, nonché di qualsiasi altro dato idoneo a
consentire l’identificazione della parte appellante.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 8 ottobre 2024, con
l’intervento dei magistrati:
Claudio Contessa, Presidente
Massimiliano Noccelli, Consigliere
Angela Rotondano, Consigliere
Sergio Zeuli, Consigliere
Pietro De Berardinis, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Pietro De Berardinis Claudio Contessa
IL SEGRETARIO
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati
nei termini indicati.
11-01-2025 01:04
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