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Sentenza

Il risarcimento del danno derivante da ritardata assunzione alle dipendenze dell...
Il risarcimento del danno derivante da ritardata assunzione alle dipendenze della P.A.: requisiti e criteri
T.A.R. Lazio Roma Sez. I quater, Sent., (ud. 15/12/2020) 29-12-2020, n. 14061

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Prima Quater)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 15991 del 2014, proposto da

M.P., rappresentato e difeso dall'avvocato Antonio Manganiello, con domicilio eletto presso lo studio Maria Letizia Spasari in Roma, via Panama, 88;

contro

Ministero dell'Interno, in persona del Ministro pro-tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per il risarcimento dei danni

- relativo alla tardiva assunzione a seguito di annullamento della esclusione del ricorrente dal concorso pubblico per esami a n. 40 posti di Commissariato del ruolo dei Commissari della Polizia di Stato.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 dicembre 2020 il dott. Alessandro Tomassetti e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Svolgimento del processo - Motivi della decisione

Con atto notificato in data 11 dicembre 2014, l'odierno ricorrente proponeva ricorso per il risarcimento del danno da ritardata assunzione, esponendo i seguenti fatti.

Nell'ambito del concorso indetto con D.M. 1 febbraio 2007 per il reclutamento di 40 posti di Commissario del ruolo dei Commissari della Polizia di Stato, il ricorrente veniva sottoposto all'accertamento del possesso dei requisiti fisici, psichici ed attitudinali al servizio di Polizia previsti dall'art. 11 del bando.

In data 10 settembre 2007, la Commissione medica giudicava l'istante non idoneo al servizio di polizia ai sensi del D.M. n. 198 del 2003.

Avverso detto provvedimento l'odierno ricorrente proponeva ricorso innanzi al T.A.R. per il Lazio, definitosi con favorevole sentenza n. 2339/2008, depositata in data 14 marzo 2008.

L'Amministrazione, pur dopo la rituale notifica del provvedimento decisorio, rimaneva inerte e l'odierno ricorrente notificava una prima diffida stragiudiziale in data 18 aprile 2008.

A seguito della ricezione di tale atto, l'Amministrazione, con una prima nota del 19 maggio 2008 comunicava l'imminente convocazione della Commissione medica al fine di sottoporre nuovamente il candidato agli accertamenti psico-fisici ed attitudinali; con provvedimento notificato il 21 giugno 2008, il ricorrente, infatti, veniva convocato, per il giorno 26 giugno 2008, presso la Caserma Ferdinando di Savoia in Roma, per essere sottoposto ad un nuovo accertamento sanitario.

Dopo tali ulteriori accertamenti, il ricorrente veniva riconosciuto "idoneo" come da comunicazione del Centro Psicotecnico del Ministero dell'Interno - Dipartimento della Pubblica Sicurezza - Direzione Centrale delle Risorse Umane del 1 luglio 2008.

A seguito della espletata e descritta attività, l'Amministrazione, tuttavia, rimaneva nuovamente inerte per oltre un anno, omettendo di compiere la necessaria attività procedimentale finalizzata al completamento dell'iter concorsuale, tanto che, in data 10 novembre 2009, il ricorrente era costretto a notificare un ulteriore atto di avvertimento e messa in mora al Ministero dell'Interno, invitandolo, entro trenta giorni dalla notifica del predetto atto, a voler provvedere all'assunzione degli atti di propria competenza, al fine di consentire all'interessato di concludere l'iter concorsuale procedendo, in particolare, a sottoporre l'istante ai successivi accertamenti attitudinali ed alle successive prove d'esame, come previsto dalla disciplina del D.M. 1 febbraio 2007.

Solo all'esito dell'ulteriore atto di diffida notificato, l'Amministrazione, con nota in data 9 dicembre 2009, provvedeva a convocare l'odierno ricorrente per i giorni 27 e 28 gennaio 2010 presso la Caserma Ferdinando di Savoia in Roma, per il prosieguo della procedura concorsuale.

Con nota in data 29 gennaio 2010 - notificata il 1 febbraio 2010 - veniva, quindi, comunicato al ricorrente il superamento delle prove sostenute nei giorni 27 e 28 gennaio e che, conseguentemente, lo stesso avrebbe dovuto presentarsi per il giorno 10 marzo 2010 presso il Compendio Ferdinando di Savoia in Roma per sostenere il colloquio finale previsto nel bando.

In data 10 marzo 2010, il ricorrente sosteneva anche la prova orale, risultando idoneo e collocandosi al 22 posto della graduatoria finale del concorso in esame, graduatoria poi approvata con D.M. 22 marzo 2010, pubblicato sul Bollettino Ufficiale del personale del Ministero dell'Interno del 26 marzo 2010.

Il competente ufficio del Dicastero, con nota del 15 marzo 2010, interessava poi la Scuola Superiore di Polizia in ordine alla opportunità di convocazione ed avvio dell'interessato al 100 corso di formazione per Commissari della Polizia di Stato, corso, peraltro, già iniziato in data 30 dicembre 2009 (di durata biennale). Dal carteggio intercorso tra la Direzione Centrale delle Risorse Umane con nota del 15 marzo 2010 e la relativa risposta fornita dalla Scuola Superiore di Polizia con nota del 18 marzo 2010, si evince la scelta dell'Amministrazione di non avviare il ricorrente al 100 corso già iniziato, ma di destinarlo a quello successivo.

Infatti, l'Amministrazione, in virtù dei troppi giorni trascorsi dall'inizio del 100 corso, inseriva il ricorrente al successivo corso di formazione (il 101) relativo al bando di concorso che veniva indetto il 19 marzo 2010 e che sarebbe iniziato a fine dicembre 2010, procrastinando di ulteriori nove mesi l'attesa del ricorrente a veder riconosciuto il proprio diritto ad essere inserito nei ranghi della Polizia di Stato e la conseguente decorrenza degli effetti economici della propria carriera in seno all'Amministrazione.

Con provvedimento del 16 dicembre 2010 il ricorrente, nella sua qualità di vincitore del concorso pubblico per esami per il conferimento di quaranta posti di Commissario del ruolo dei Commissari della Polizia di Stato indetto con D.M. 1 febbraio 2007, veniva invitato per il giorno 29 dicembre

2010 presso la Scuola Superiore di Polizia, per la frequenza del corso di formazione previsto dall'art. 23 del bando.

A seguito del positivo esito del corso frequentato, il ricorrente veniva, dunque, assegnato a far data dal 7 gennaio 2013, presso la Questura di Milano; dopo circa un anno, con nota del 21 febbraio 2014, veniva poi assegnato al Commissariato di P.S. Garibaldi/Venezia di Milano.

Con decorrenza 14 aprile 2014, l'odierno ricorrente veniva trasferito d'ufficio alla Questura di Alessandria dove, in forza provvedimento del Questore del 15 aprile 2014, ha assunto l'incarico di Dirigente della Squadra Mobile con decorrenza dal 22 aprile 2014.

Con nota raccomandata del 21 febbraio 2014, inviata al Ministero dell'Interno - Dipartimento di Pubblica Sicurezza - Direzione Centrale delle Risorse Umane - Prima Divisione, l'odierno ricorrente, prima di azionare le proprie pretese risarcitorie nei confronti della Pubblica Amministrazione in sede giurisdizionale, chiedeva alla medesima Amministrazione di valutare ogni possibilità finalizzata a giungere ad una liquidazione stragiudiziale del danno patito quale conseguenza immediata e diretta dell'illegittimo comportamento posto in essere dalla stessa Amministrazione.

In risposta alla richiesta presentata, il Ministero dell'Interno, con nota del 24 marzo 2014, riteneva di non ravvisare elementi tali da ritenere concretizzata la prospettata fattispecie di illecito in capo all'Amministrazione e, pertanto, respingeva ogni addebito di responsabilità.

Con il ricorso in epigrafe, il ricorrente chiedeva l'accertamento della responsabilità in capo all'Amministrazione ed il conseguente risarcimento del danno patrimoniale per ritardata assunzione, nella misura di Euro 101.269,26 oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, nonché il risarcimento del danno non patrimoniale nella misura di Euro 50.000,00.

Si è costituito in giudizio il Ministero dell'Interno deducendo, in via preliminare, la incompetenza territoriale e l'intervenuta prescrizione del diritto e, nel merito, l'infondatezza del ricorso.

All'udienza del 15 dicembre 2020 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

Preliminarmente il Collegio ritiene infondata l'eccezione di incompetenza territoriale avanzata dalla difesa erariale.

Il criterio della competenza territoriale della "sede di servizio", infatti, trova applicazione solo allorquando la controversia sulla quale è chiamato a pronunciarsi il giudice amministrativo muove dalla impugnazione di un atto o provvedimento relativo al rapporto di lavoro.

Nel caso di specie, al contrario, il ricorso ha ad oggetto la richiesta risarcitoria extracontrattuale scaturente dall'annullamento del giudizio di non idoneità (sentenza n. 2339/08), richiesta relativa alla fase prodromica rispetto a quella lavorativa in senso proprio.

Occorre, infatti, osservare come la richiesta risarcitoria giudizialmente avanzata dal ricorrente risulti connessa non già allo svolgimento del rapporto di lavoro quanto, piuttosto, all'agire illecito dell'Amministrazione in una fase precedente l'instaurarsi del rapporto di impiego.

Allo stesso modo risulta infondata l'eccezione di prescrizione.

Osserva il Collegio come il "fatto" causativo del danno sia rappresentato non solo dall'illegittimo provvedimento di esclusione del ricorrente dalla partecipazione al concorso a 40 posti di Commissario di P.S., risalente al 10 settembre 2007, ma anche dal comportamento successivo del Ministero dell'Interno, attivatosi esclusivamente in forza degli atti di diffida e messa in mora ricevuti, sì da ritardare colpevolmente le possibilità del ricorrente di sostenere le prove concorsuali.

In tale prospettiva, l'odierno ricorrente ha potuto avere contezza del danno arrecatogli soltanto

all'esito dell'assunzione in servizio avvenuta non prima del 29 dicembre 2010; solo da tale data, dunque, può ritenersi computabile il periodo prescrizionale quinquennale riferito all'azione risarcitoria esperita con ricorso tempestivamente proposto in data 11 dicembre 2014.

Nel merito il ricorso è fondato nei sensi e nei limiti di cui alla motivazione.

Devono, infatti, ritenersi sussistenti nella fattispecie in esame tutti gli elementi costitutivi dell'illecito extracontrattuale oggetto del petitum (danno da ritardata assunzione).

Occorre preliminarmente precisare, anche in relazione alle difese della Avvocatura dello Stato, come nella fattispecie in esame, gli elementi costitutivi dell'illecito non possano riferirsi solo ed esclusivamente al giudizio di non idoneità della Commissione medica - oggetto della sentenza del TAR Lazio, sez. I ter, n. 2339/2008 - ma devono essere rinvenuti anche nel periodo temporale successivo all'annullamento del provvedimento di esclusione, costituendo l'illegittimità del giudizio di non idoneità il presupposto fattuale della successiva fase rivalutativa anch'essa oggetto di censura (sotto il profilo del perdurare degli effetti illeciti sotto il profilo temporale) da parte del ricorrente.

La verifica in merito alla sussistenza degli elementi costitutivi dell'illecito (colpa o del dolo dell'Amministrazione, lesione di un interesse tutelato dall'ordinamento e presenza di un nesso causale che colleghi la condotta commissiva o omissiva della Amministrazione all'evento dannoso), deve, dunque, essere compiuta sia con riguardo alla fase relativa alla emissione del giudizio di non idoneità che al conseguente comportamento inerte ed omissivo dell'Amministrazione nel periodo successivo all'annullamento del giudizio di non idoneità.

Quanto al primo profilo (giudizio valutativo annullato in sede giurisdizionale), è principio comune quello secondo cui l'apprezzamento della colpa, in tale ambito, deve essere effettuato alla luce delle motivazioni che, in sede giurisdizionale, hanno condotto all'accertamento della illegittimità del provvedimento e al suo annullamento, motivazioni che costituiscono l'unico parametro obiettivo per valutare, ai fini della loro eventuale qualificazione come colpose ex art. 2043 c.c., le modalità di condotta dell'amministrazione.

In tale ambito, il Collegio ritiene sussistente l'elemento soggettivo della colpa in capo alla Amministrazione; né appaiono ostative al riconoscimento di tale colpa, le osservazioni compiute dalla Avvocatura dello Stato nella memoria in data 14 novembre 2020 e concernenti la complessità del giudizio valutativo posto in essere dalla Commissione medica e la conseguente carenza di colpa in capo alla Amministrazione nella emanazione di un atto (esclusione per non idoneità) successivamente annullato.

Sotto tale profilo, infatti, è sufficiente osservare come la valutazione posta in essere dalla Commissione medica sia stata censurata dal Tribunale (sentenza n. 2339/2008) sotto un profilo riconducibile (quantomeno) ad imperizia, in considerazione della accertata violazione della norma regolamentare volta a stabilire che sono causa di "inidoneità" i tumori benigni ed i loro esiti quando per sede, volume, estensione o numero siano deturpanti o producano alterazioni strutturali o funzionali.

Il giudizio medico annullato, infatti, risulta stato formulato sul presupposto che il semplice esito dell'asportazione di un tumore benigno possa configurare una causa di non idoneità, senza, tuttavia, valutare l'ulteriore circostanza - richiesta dalla norma applicabile alla fattispecie - secondo cui detto esito al fine di costituire causa di esclusione deve risultare altresì deturpante ovvero produttivo di alterazioni strutturali o funzionali nella costituzione fisica dell'interessato.

La Commissione, dunque e come risulta dalla sentenza del TAR Lazio, sez. I ter, n. 2339/2008, pur avendo sottoposto il ricorrente ad una serie di esami clinici, non si è data carico di accertare se il rilevato esito dell'asportazione del tumore benigno potesse concretamente costituire, in base alla norma regolamentare applicabile alla fattispecie, un motivo di idoneità al servizio di polizia.

Quanto al secondo profilo (comportamento inerte ed omissivo della Amministrazione nel periodo successivo all'annullamento del giudizio di non idoneità), allo stesso modo si ritiene sussistente la colpa dell'Amministrazione nel complessivo comportamento tenuto nei confronti del ricorrente sino alla conclusione della procedura concorsuale.

Risulta, infatti, dagli atti e documenti del giudizio come il complessivo iter concorsuale - successivo all'annullamento del giudizio di non idoneità - sia durato circa tre anni e che l'interessato abbia dovuto porre in essere più di una intimazione e messa in mora dell'Amministrazione ai fini della conclusione della procedura.

Ritiene il Collegio che tale ampio periodo temporale risulti ingiustificato e soggettivamente imputabile a colpa dell'Amministrazione che avrebbe ben potuto completare la procedura concorsuale con una diversa e più rapida scansione temporale.

Né appare legittima causa di ritardo e, quindi, motivo giustificativo in grado di elidere l'elemento soggettivo, la motivazione contenuta nella memoria della Avvocatura dello Stato in data 14 novembre 2020 e relativa alla opportunità di svolgere le nuove prove scritte concentrando in un'unica sessione di esame una pluralità di ricorrenti nell'ambito di diverse procedure concorsuali riguardanti l'accesso alla stessa qualifica di Commissario.

Appare evidente, infatti, che una tale motivazione - peraltro postuma ed esplicitata solo da parte della Avvocatura - non appare comunque idonea a giustificare un così ampio periodo di inerzia, risultando evidente che le esigenze organizzative dell'Amministrazione ben avrebbero potuto essere realizzate con una diversa e ristretta tempistica in modo da garantire le legittime aspettative dell'odierno ricorrente, già leso dalla illegittima dichiarazione di "non idoneità".

D'altra parte, appare allo stesso modo colposo il ritardo dell'Amministrazione nell'avvio del ricorrente al 101 corso di formazione in luogo dell'avvio al 100 corso formativo e ciò non solo poiché risultava, al momento della scelta operata dalla Amministrazione, ancora possibile tale opzione - risultando dagli atti che gli altri frequentatori avevano effettuato solo 55 giornate di attività didattica e addestrativa, laddove la normativa vigente specificamente prevede quale causa di dimissione dal corso 90 giorni di assenza anche non consecutivi - ma anche poiché tale ritardo non poteva in alcun modo essere imputato all'odierno ricorrente quanto, piuttosto, allo stesso comportamento colposo dell'Amministrazione.

Né appare determinante, sotto il profilo della richiesta risarcitoria, la mancata contestazione del provvedimento con cui veniva disposto l'invio del ricorrente al 101 corso di formazione per Commissari e non a quello già iniziato (il 100) e ciò in considerazione del fatto che l'eventuale impugnativa non avrebbe in ogni caso eliminato o diminuito le conseguenze dannose del ritardo, se non in ipotesi di ripristino dello status quo ante (partecipazione al 100 corso), fattispecie, tuttavia, non concretamente ipotizzabile in considerazione del (già accertato) numero di assenze dall'attività didattica e del prevedibile decorso di ulteriore tempo (e, quindi, di assenze) ai fini della predisposizione e notifica di un eventuale ricorso giurisdizionale.

Sussiste, del resto, anche il necessario presupposto della lesione di un interesse tutelato dall'ordinamento e, in particolare, della lesione economica derivante dalla mancata corresponsione delle retribuzioni relative al periodo di ritardo nell'assunzione.

Quanto, poi, al nesso causale tra la condotta posa in essere dall'Amministrazione ed il lamentato danno, appare evidente che l'illegittima valutazione di non idoneità unitamente al colpevole ritardo della Amministrazione abbiano comportato la tardiva assunzione del ricorrente e che, conseguentemente, il lamentato danno sia stato causato proprio dall'agire illecito della Amministrazione.

In ordine, poi, alla quantificazione del danno, il Collegio rileva come la giurisprudenza abbia costantemente affermato che nel caso di ritardata costituzione di un rapporto di impiego conseguente all'illegittima esclusione dalla procedura di assunzione, non possa riconoscersi all'interessato il diritto alla corresponsione della piena retribuzione relativa al periodo di ritardo nell'assunzione; ciò in quanto detto diritto, in ragione della sua natura sinallagmatica, presuppone necessariamente l'avvenuto svolgimento dell'attività di servizio. In altri termini, il danno non può identificarsi direttamente nella mancata erogazione della retribuzione e della contribuzione al dipendente, poiché tali voci di natura economica presuppongono, in ogni caso, l'avvenuto espletamento della prestazione lavorativa, trattandosi di emolumenti che, sinallagmaticamente, presuppongono l'avvenuto svolgimento dell'attività di servizio (Cons. Stato, sez. IV, 12 settembre 2018, n. 5350; Cons. Stato, sez. V, 30 gennaio 2017, n. 370; Cons. Stato, sez. III, 28 dicembre 2016, n. 5514).

Ai fini della quantificazione del danno risarcibile, quindi, l'entità della mancata percezione della retribuzione in capo al ricorrente costituirà solo uno, per quanto il principale, dei criteri di determinazione.

Sotto tale aspetto, il Collegio ritiene di aderire al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, in ipotesi di ritardata costituzione del rapporto di impiego, il danno deve essere liquidato in via equitativa e tenendo, altresì, conto del fatto che l'interessato, nel periodo in questione, non ha comunque svolto attività lavorativa in favore dell'Amministrazione che avrebbe dovuto assumerlo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 8 ottobre 2018, n. 5762; Cons. Stato, sez. IV, 12 settembre 2018, n. 5350; Cons. Stato, sez. VI, 17 febbraio 2017, n. 730; Cons. Stato, sez. V, 27 marzo 2013, n. 1773; Cons. Stato, sez. III, 4 giugno 2013, n. 3049; Cons. Stato, sez. IV, 11 novembre 2010, n. 8020).

La base di calcolo di detta quantificazione è rappresentata dall'ammontare del trattamento economico netto non goduto con esclusione della parte variabile della retribuzione relativa alle funzioni (ossia con esclusione di ogni voce retributiva diversa e ulteriore allo stipendio tabellare, in quanto tali voci sono comunque correlate, direttamente o indirettamente, allo svolgimento di quell'attività lavorativa che in effetti non c'è stata); tale importo, tuttavia, deve essere sottoposto ad una percentuale di abbattimento, la quale, anch'essa, non può che essere quantificata equitativamente ai sensi dell'art. 1226, cod. civ. (Cons. Stato, sez. III, 22 febbraio 2019, n. 1230).

A parere del Collegio, dunque, nella fattispecie concreta e rilevato il grado di colpa della Amministrazione, il danno può essere quantificato - in via equitativa - nel 60% della retribuzione (al netto di oneri fiscali e previdenziali e con esclusione della parte variabile della retribuzione relativa alle funzioni), che la parte avrebbe potuto percepire ove fosse stata tempestivamente assunta ed immessa in servizio.

Il periodo di riferimento, come precisato, va correlato all'inerzia colposa della Amministrazione che, nel caso in esame, deve ricollegarsi al periodo temporale 17 marzo 2008 (decorrenza economica relativa ai vincitori del medesimo concorso) - 29 dicembre 2010 (decorrenza degli effetti economici coincidenti con il primo giorno di corso al quale lo stesso ricorrente è stato tardivamente avviato).

In aderenza alla richiesta del ricorrente, il Collegio stabilisce, ancora, che sulle somme così quantificate dovranno essere computati sia la rivalutazione che gli interessi legali (non trattandosi, nel caso di specie, di ritardata corresponsione di crediti di natura retributiva), in linea con i seguenti, ulteriori rilievi:

- l'obbligazione di risarcimento ha natura di debito di valore, sicché la somma a tali fini liquidata non può che essere ragguagliata, secondo gli indici Istat, ai valori monetari correnti alla data in cui è compiuta la liquidazione giudiziale;

- gli interessi vanno computati non già sulla complessiva somma rivalutata bensì su quella originaria rivalutata anno dopo anno, cioè con riferimento ai singoli momenti con riguardo ai quali la predetta somma si incrementa nominalmente in base agli indici di rivalutazione monetaria (cfr., ex multis, TAR Lazio, Roma, 6 giugno 2016, n. 6489).

All'importo risarcitorio va comunque sottratto l'eventuale aliunde perceptum derivante da altra attività lavorativa svolta dal ricorrente nel periodo in esame e, a tal fine, il ricorrente è onerato di produrre al Ministero dell'Interno, che peraltro potrà autonomamente acquisirla dall'Amministrazione finanziaria, la dichiarazione dei redditi del periodo in questione, salvo che non dichiari di non aver percepito alcun reddito, o altra idonea documentazione.

Per quello che riguarda le modalità di liquidazione dell'obbligazione risarcitoria, la Sezione ritiene di poter far ricorso, in mancanza di opposizione delle parti, al meccanismo previsto dall'art. 34, comma 4, c.p.a.: il Ministero dell'Interno dovrà pertanto proporre al ricorrente, a titolo di risarcimento del danno ed entro 30 (trenta) giorni dalla notificazione o comunicazione della presente sentenza, il pagamento di una somma quantificata secondo i criteri indicati in sentenza.

Quanto al danno non patrimoniale, parte ricorrente argomenta che l'illegittimo comportamento della Amministrazione sarebbe stato causa di ulteriori e considerevoli danni, posto che il ricorrente è stato privato della possibilità di partecipare al 98 corso di formazione cui legittimamente aspirava e ha, dunque, iniziato la propria carriera nei ruoli della Polizia di Stato solo il 29 dicembre 2010 e, cioè, con un ritardo di 33 mesi rispetto ai propri colleghi pari corso, allorché fu avviato alla frequenza del 101 corso di formazione; corollario di ciò sarebbero i pregiudizi alla vita familiare e lavorativa, la perdita delle chances nell'ambito della carriera professionale, oltre alla compromissione del proprio stile di vita, delle aspettative e della sua immagine nei confronti dei familiari e dell'ambiente esterno, il tutto anche in conseguenza della assenza di redditi da lavoro.

Chiede pertanto il risarcimento del danno non patrimoniale - sotto i profili del danno alla vita di relazione, all'immagine, professionale e per perdita di chances - da liquidarsi nella misura ritenuta opportuna, anche sulla base di presunzioni.

Osserva il Collegio come il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale non ricorra automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e lo stesso non possa prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell'esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sull'aspetto reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno (cfr., da ultimo, Cass. civ., sez. lavoro, ord. 16 dicembre 2020, n. 28810).

Tale pregiudizio, infatti, non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore l'onere della prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale (sul punto, Cons. Stato, sez. III, n. 4336/2020 secondo cui "la sussistenza di un danno non patrimoniale in re ipsa: superata infatti la teorica del c.d. "danno evento" (elaborata dalla sentenza n. 184/1986 della Corte costituzionale in tema di danno biologico, ma oggetto di revirement, da parte dello stesso giudice delle leggi, con la sentenza n. 372/1994), il danno risarcibile, "nella sua attuale ontologia giuridica... non si identifica con la lesione dell'interesse tutelato dall'ordinamento, ma con le conseguenze di tale lesione" (così Cass. 15/7/2014, n. 16133). Il danno non patrimoniale non è dunque risarcibile in re ipsa né se deriva da reato (Cass. 12/4/2011, n. 8421); né se è tipizzato dal legislatore (in tema di tutela della privacy: Cass. 26/9/2013, n. 22100; Cass. 15/7/2014, n. 16133; in tema di equa riparazione per durata irragionevole del processo: Cass. 26/5/2009, n. 12242); né se, come nel caso che ci occupa, trova fonte in un'asserita lesione di diritti costituzionalmente garantiti, come il diritto alla libertà di iniziativa economica o alla reputazione professionale: sul punto, in termini chiarissimi, si veda, tra le tante, la recente Cass. 6/12/2018, n. 31537, secondo la quale "In tema di responsabilità civile derivante da pregiudizio all'onore ed alla reputazione, il danno risarcibile non è "in re ipsa" e va pertanto individuato, non nella lesione del diritto inviolabile, ma nelle conseguenze di tale lesione, sicché la sussistenza di tale danno non patrimoniale deve essere oggetto di allegazione e prova, e la sua liquidazione deve essere compiuta dal giudice sulla base, non di valutazioni astratte ma del concreto pregiudizio presumibilmente patito dalla vittima, per come da questa dedotto e provato". Né la circostanza per cui il danno non patrimoniale sia liquidato in via equitativa dal giudice può supplire al difetto di prova, atteso che l'art. 1226 c.c. si riferisce al solo quantum debeatur, aprendo alla valutazione equitativa "se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare"; non certo all'an debeatur, ovverosia alla prova della sussistenza del danno, che resta ovviamente a carico del ricorrente, ma che nel presente giudizio non è stata offerta, né prospettata in concreto"; cfr. anche T.A.R. Lazio - Roma, sez. I quater, 27 giugno 2019, n. 8361).

Si tratta, come rilevato dalla costante giurisprudenza, di prova che può essere offerta con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento ed assume in tal senso rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno ( cfr. anche Cass. 19 dicembre 2008, n. 29832).

In definitiva, escluso che il pregiudizio sia "in re ipsa" e collegato all'esistenza del fatto illecito, il ricorrente che chieda la condanna dell'Amministrazione al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto, deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa (cfr., ancora, Cass. 23 gennaio 2011, n. 1248 e già Cass., Sez. Unite, 24 marzo 2006, n. 6572).

Ritiene il Collegio che nella fattispecie in esame non si sia raggiunta una apprezzabile prova in merito agli elementi costitutivi del danno non patrimoniale - nelle varie voci oggetto di ricorso - non risultando dagli atti i comprovati e profondi turbamenti della psiche del ricorrente causati da danni o comportamenti dell'amministrazione che consentono, secondo la giurisprudenza citata, il radicarsi della lesione della sfera giuridica soggettiva del richiedente.

Quanto, infine, al danno relativo alle aspettative di carriera (perdita di chances) - in relazione al quale manca comunque una prova certa - rileva il Collegio come le stesse non possano rientrare neppure a livello equitativo nella posta risarcitoria in considerazione del fatto che tali voci di danno non vengono riconosciute neppure in sede di ricostruzione di carriera, presupponendo la concreta prestazione del servizio (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 9 luglio 2020, n. 4404; Cons. Stato, sez. IV, 21 febbraio 2018, n. 1095).

Conseguentemente e per i motivi esposti, il ricorso è fondato nei sensi e nei limiti di cui alla motivazione.

Le spese di giudizio seguono la soccombenza e devono essere liquidate, come in dispositivo.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Quater), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione e, per l'effetto, ordina ex art. 34, comma 4, c.p.a. al Ministero dell'Interno di proporre al ricorrente, a titolo di risarcimento del danno ed entro 30 (trenta) giorni dalla notificazione o comunicazione della presente sentenza, il pagamento di una somma quantificata secondo i criteri indicati in sentenza.

Condanna il Ministero dell'Interno alla corresponsione al ricorrente delle spese di giudizio quantificate nella somma di Euro 2.000,00 (duemila/00), oltre accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 dicembre 2020 con l'intervento dei magistrati:

Salvatore Mezzacapo, Presidente

Alessandro Tomassetti, Consigliere, Estensore

Lucia Gizzi, Consigliere
Avv. Antonino Sugamele

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