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Sentenza

Legge elettorale: la richiesta di referendum abrogativo è inammissibile....
Legge elettorale: la richiesta di referendum abrogativo è inammissibile.
Corte Costituzionale, sentenza 15 – 31 gennaio 2020, n. 10
Presidente Cartabia – Relatore De Pretis

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 20 novembre 2019, depositata in pari data, l'Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, ai sensi dell'art. 12 della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo) e successive modificazioni, ha dichiarato conforme alle disposizioni di legge la richiesta di referendum popolare abrogativo, promossa dai Consigli regionali delle Regioni Abruzzo, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Sardegna e Veneto, sul quesito di cui in epigrafe.
2.− L'Ufficio centrale per il referendum ha attribuito al quesito il seguente titolo: «Abolizione del metodo proporzionale nell'attribuzione dei seggi in collegi plurinominali nel sistema elettorale della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica».
3.− Ricevuta comunicazione dell'ordinanza dell'Ufficio centrale per il referendum, il Presidente della Corte costituzionale ha fissato, per la conseguente deliberazione, la camera di consiglio del 15 gennaio 2020, disponendo che ne fosse data comunicazione ai presentatori della richiesta di referendum e al Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell'art. 33, secondo comma, della legge n. 352 del 1970.
4.− In prossimità della data fissata per la camera di consiglio, i Consigli regionali richiedenti hanno depositato una memoria, nella quale, dopo un'ampia premessa sulla natura e sulle finalità del referendum abrogativo e, in particolare, su quello avente ad oggetto leggi elettorali, argomentano a sostegno dell'ammissibilità dell'odierno quesito.
Al riguardo, i Consigli promotori sottolineano come l'esito del referendum consista in una «espansione della disciplina, già esistente, ma limitata solo ad una quota di seggi, che prevede un meccanismo elettorale di tipo uninominale maggioritario a un turno». Precisano, altresì, che i quattro complessi normativi oggetto del quesito sarebbero «avvinti da una matrice unitaria, in quanto strumentali a perseguire il fine intrinseco della volontà abrogatrice».
4.1.− Quanto al «problema dell'auto-applicatività della disciplina residuale», la scelta di integrare il quesito con la proposta abrogativa di alcune disposizioni dell'art. 3 della legge 27 maggio 2019, n. 51 (Disposizioni per assicurare l'applicabilità delle leggi elettorali indipendentemente dal numero dei parlamentari) troverebbe fondamento nell'«esigenza di evitare il rischio di vuoto normativo, quale esito del pronunciamento popolare». In particolare, la norma di delega contenuta nel citato art. 3 avrebbe «una finalità immediata (rectius: un'occasio legis) consistente nell'evitare che la modifica costituzionale in questione […] possa riflettersi su un assetto normativo tale da rendere la vigente disciplina elettorale inapplicabile, attesa la riduzione del numero dei seggi parlamentari e la necessità di una ridefinizione dei relativi collegi elettorali». Secondo la difesa dei Consigli regionali, «[t]ale obiettivo, perseguito dalla menzionata legge, però, si iscrive in una cornice teleologica più ampia; una finalità, per dir così mediata, ascrivibile, appunto, al principio per il quale nessun evento normativo incidente sulla legislazione elettorale sia tollerabile dall'ordinamento costituzionale allorché da esso discenda rischio di paralisi di funzionamento degli organi costituzionali cui la legislazione elettorale si riferisce». In altri termini, «la ratio ultima della disciplina, di cui all'art. 3 della legge n. 51/2019, è pur sempre quella di evitare vuoti normativi in materie su cui operano leggi costituzionalmente necessarie».
Alla luce di queste considerazioni l'inserimento nella richiesta referendaria anche di questa disposizione sarebbe stato, in un certo senso, obbligato, «proprio per assicurare coerenza all'intervento abrogativo (la matrice razionalmente unitaria) e scongiurare il rischio di una normativa di risulta non auto-applicativa», con la conseguenza che la mancata integrazione di questa disposizione nel quesito «avrebbe determinato un vulnus in termini di omogeneità e coerenza dello stesso».
Si sarebbe così proceduto «ad un intervento “chirurgico”, finalizzato a far espandere, a seguito dell'abrogazione, le potenzialità normative già insite nella legislazione “aggredita”». Tale “espansione” delle «virtualità applicative della delega», al fine di «ampliare lo spettro della propria potenzialità teleologica», sarebbe stata realizzata attraverso l'abrogazione della disposizione che condiziona la delega «alla “sola” circostanza dell'approvazione di una legge costituzionale di modifica [del numero dei parlamentari]». In questo modo, a seguito dell'eventuale abrogazione referendaria, «la delega potrà essere utilizzata “anche”, ma non “solo”, per dare copertura legislativa (elettorale) alla riforma costituzionale». In definitiva, l'intervento manipolativo si muoverebbe «all'interno dei limiti consentiti dalla giurisprudenza costituzionale, in quanto non si [proporrebbe] un ritaglio finalizzato a propiziare una “saldatura” tra due frammenti lessicali appartenenti a due norme completamente diverse. […] Al contrario, la disciplina risultante [deriverebbe] “dalla fisiologica espansione delle norme residue, o dai consueti criteri di autointegrazione dell'ordinamento”» (è richiamata la sentenza n. 36 del 1997).
4.2.− Ciò chiarito, la difesa dei promotori ritiene che non sia imputabile al quesito referendario alcun rischio di «vuoto normativo», giacché l'aver ricompreso nella richiesta anche la norma di delega consentirebbe di «scongiurare un vuoto normativo come diretta conseguenza del referendum». Sul punto la stessa difesa sottolinea come non possa essere imposto ai promotori di perseguire tale obiettivo «in una modalità più gravosa di quanto è consentito al legislatore parlamentare»; in sostanza, «il quesito [assicurerebbe] l'auto-applicatività, tanto quanto – e nelle condizioni in cui – essa è assicurata dalla legislazione vigente». Infatti, il rischio di inerzia governativa «sussiste[rebbe] comunque (indipendentemente dallo svolgimento del referendum abrogativo), con riferimento al “seguito” dell'eventuale riforma costituzionale».
Né si potrebbe obiettare che «l'utilizzo della delega per assicurare l'operatività della disciplina di risulta del referendum finirebbe inevitabilmente per “consumare” la delega stessa, determinando l'impossibilità di un intervento per l'attuazione della riforma costituzionale». Sempre secondo i promotori, «la sovrapposizione cronologica tra i due procedimenti in questione consentirebbe, in concreto, di coordinare l'applicazione, di tal ché l'intervento del legislatore delegato potrebbe tener conto di entrambi gli esiti dei procedimenti». A tal fine, la difesa dei Consigli regionali svolge «una ricognizione della scansione temporale dei procedimenti considerando gli scenari estremi, a seconda che la riforma costituzionale entri in vigore immediatamente o sia, invece, depositata richiesta di referendum approvativo».
All'esito di tale ricognizione i promotori rilevano che sarebbe «perfettamente possibile coordinare i procedimenti […] al fine di consentire al Governo di procedere all'esercizio della delega alla luce di entrambi i risultati degli eventuali referendum, calibrando così la confezione del decreto legislativo in modo coerente con i risultati medesimi». Si tratterebbe, quindi, di operare solo «aggiustamenti pratici, che non possono essere considerati ostativi rispetto all'esigenza di assicurare l'esercizio della sovranità popolare mediante il referendum abrogativo».
4.3.− In subordine, la difesa dei Consigli regionali eccepisce l'illegittimità costituzionale dell'art. 37, terzo comma, secondo periodo, della legge n. 352 del 1970, per il caso in cui la Corte costituzionale ritenesse non soddisfatto il criterio dell'auto-applicatività della normativa di risulta. In proposito, i promotori ricordano di aver sollevato conflitto di attribuzione nei confronti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati in relazione alla disposizione anzidetta, precisando che l'eccezione di illegittimità costituzionale è formulata per il caso in cui la Corte non accogliesse il conflitto tra poteri.
4.3.1.− Quanto all'asserita incostituzionalità, i promotori richiamano la giurisprudenza costituzionale che, nell'ipotesi di referendum abrogativi attinenti a leggi costituzionalmente necessarie e, in particolare, a leggi elettorali, ha ripetutamente affermato che gli organi costituzionali o di rilevanza costituzionale «non possono essere esposti alla eventualità, anche soltanto teorica, di paralisi di funzionamento» (sentenza n. 29 del 1987), con la conseguenza che questi referendum devono riguardare solo parti di tali leggi, in modo che residui «una normativa complessivamente idonea a garantire il rinnovo, in ogni momento, dell'organo costituzionale elettivo» (sentenza n. 15 del 2008, ma sono richiamate anche altre pronunzie in termini analoghi).
Dall'esame di questa giurisprudenza la difesa dei Consigli regionali deduce che «il principio della “perdurante operatività” degli organi costituzionali e di rilievo costituzionale dispiega una pregnante portata assiologica, ostando all'ammissibilità di referendum abrogativi su leggi elettorali, tutte le volte che il relativo quesito non assicuri una normativa di risulta “auto-applicativa”». Proprio la considerazione che l'eventuale difetto di «autosufficienza» della normativa di risulta possa determinare «il sacrificio integrale del contrapposto interesse dei promotori e dei cittadini, rispettivamente, a dare impulso all'iniziativa referendaria e a pronunciarsi mediante l'esercizio del suffragio», renderebbe ineludibile – secondo i promotori – «ricondurre il bilanciamento tra i principi costituzionali menzionati […] entro canoni di “ragionevolezza” e “proporzionalità”».
In proposito, la difesa dei Consigli regionali riconosce che i criteri di ammissibilità dei referendum enucleati da questa Corte «condizionano, e precedono, logicamente, il perimetro dell'interesse tutelato (vale a dire, il diritto-potere al referendum)»; tuttavia, «trattandosi di parametri ricavati, per via ermeneutica, da “esigenze supreme” dell'ordinamento giuridico-costituzionale», la stessa difesa ritiene necessario «interrogarsi sul “peso” che, nella valutazione operata, si sarebbe dovuto – e si dovrebbe – attribuire proprio a quell'interesse, quale corollario del principio di sovranità popolare».
In altre parole, si ritiene che questa Corte non possa accordare «preferenza assoluta, esclusiva e assorbente» al principio di «costante operatività» degli organi costituzionali e di rilievo costituzionale, che per questo verso diverrebbe «tiranno» nei confronti di altre situazioni giuridiche riconosciute e tutelate, ma debba bilanciare la tutela di siffatto principio con quella di altri interessi di pari rango, tra cui quello allo svolgimento del referendum. Sempre attraverso il richiamo a numerose pronunce, la difesa dei Consigli regionali rileva come la giurisprudenza costituzionale sia «approdata, attraverso la valorizzazione del canone di proporzionalità, quale riflesso del più generale principio di ragionevolezza, alla dottrina del “vincolo del minor sacrificio possibile”, come regola di sindacato (e censura) sull'utilizzo della discrezionalità legislativa».
Di questa dottrina non vi sarebbe traccia, però, nella giurisprudenza relativa all'ammissibilità dei referendum abrogativi su leggi elettorali, sebbene il vincolo rappresentato dall'«autosufficienza» della normativa di risulta comporti – sempre secondo i promotori – «una limitazione estrema a carico del diritto-potere al referendum, sancito dall'art. 75 Cost.». Questa considerazione sarebbe aggravata dalla considerazione che, nel caso delle leggi costituzionalmente necessarie, il legislatore potrebbe costruire la struttura dell'atto normativo in modo tale da impedire, di fatto, un intervento manipolativo capace di garantire la sopravvivenza di una normativa di risulta «autosufficiente». Pertanto, la possibilità di esercitare i «diritti di democrazia diretta» sarebbe rimessa alla «totale disponibilità del “controinteressato” all'iniziativa referendaria, il Legislatore», «grazie ad un'applicazione “opportunistica” dell'usbergo del principio di “costante operatività” degli organi costituzionali e di rilievo costituzionale».
L'esigenza di tener conto della dottrina del «vincolo del minor sacrificio possibile», che costituirebbe «la premessa “metodologica” indispensabile» per bilanciare il principio della «costante operatività» con quello di sovranità popolare, si tradurrebbe in concreto nella necessità di una «modulazione degli effetti temporali dell'abrogazione referendaria». In particolare, il «punto di equilibrio normativo» è individuato dai Consigli regionali nella «previsione della sospensione dell'entrata in vigore dell'abrogazione referendaria, sino all'adozione, ad opera del Legislatore, delle misure applicative, che ne rendano gli effetti interamente operativi».
In proposito, i promotori sostengono che la sospensione degli effetti dell'abrogazione referendaria «non rappresent[i] una fattispecie meramente ipotetica, tra le possibili soluzioni di bilanciamento tra principi costituzionali in gioco» e richiamano, sul punto, quanto previsto dall'art. 37, terzo comma, secondo periodo, della legge n. 352 del 1970 e quanto eccezionalmente disposto dall'art. 2 della legge 7 agosto 1987, n. 332 (Deroghe alla legge 25 maggio 1970, n. 352, in materia di referendum). Nella medesima prospettiva si inquadrerebbero anche le disposizioni contenute nell'art. 10 della legge 4 agosto 1993, n. 276 (Norme per l'elezione del Senato della Repubblica) e nell'art. 10 della legge 4 agosto 1993, n. 277 (Nuove norme per l'elezione della Camera dei deputati), con le quali veniva introdotta una disciplina transitoria che subordinava la produzione dell'effetto abrogativo della pregressa disciplina elettorale all'entrata in vigore di quella di attuazione.
Gli eventuali inconvenienti applicativi derivanti dall'introduzione di una nuova disciplina sarebbero stati risolti, dunque, «attraverso la scelta, propria della discrezionalità legislativa, di utilizzare l'istituto della condizione sospensiva dell'operatività della novella, in modo tale da bilanciare l'interesse e/o valore riconducibile all'esercizio della funzione legislativa stessa con quello della “continuità” degli organi costituzionali e di rilievo costituzionale».
Da tutto questo i promotori traggono argomenti per censurare l'assenza nella legge n. 352 del 1970 di «un dispositivo che, nella logica del bilanciamento – ragionevole e proporzionato – tra interessi e/o valori costituzionali confliggenti, contempli la sospensione degli effetti dell'abrogazione, sino all'adozione della disciplina necessaria al fine di garantire l'“autosufficienza” della normativa di risulta, sì da attenuare l'entità del sacrificio (attualmente integrale) a carico del principio della sovranità popolare a vantaggio di quello della “costante operatività” degli organi costituzionali e di rilievo costituzionale, permettendo, comunque, al corpo elettorale di esprimersi e manifestare la propria (eventuale) volontà abrogatrice».
La disciplina recata dall'art. 37, terzo comma, secondo periodo, della legge n. 352 del 1970 costituirebbe dunque «una soluzione irragionevole – e, perciò, costituzionalmente illegittima –, nella misura in cui, nella sua attuale formulazione, non è in grado di far fronte – per il caso di approvazione di un referendum abrogativo da cui scaturisca una normativa non “autoapplicativa” – al rischio di una lesione integrale del bene giuridico della “continuità funzionale” delle istituzioni coinvolte, a meno di non rinunziare, completamente, alla tutela del principio di sovranità popolare».
La difesa dei Consigli regionali ricorda come, in occasione del giudizio di ammissibilità del referendum, deciso con la sentenza n. 13 del 2012, l'allora Comitato promotore avesse eccepito l'incostituzionalità dell'art. 37, terzo comma, secondo periodo, della legge n. 352 del 1970, chiedendo a questa Corte, previa rimessione davanti a sé della relativa questione, di dichiarare l'illegittimità parziale di tale disposizione. L'eccezione era stata, tuttavia, respinta, in quanto manifestamente infondata poiché l'eventuale accoglimento, oltre a rimettere alla mera volontà dei parlamentari la determinazione del momento di produzione dell'effetto abrogativo del referendum, avrebbe comportato, in caso di inerzia del legislatore e di ripetute reiterazioni, «una grave incertezza che esporrebbe organi costituzionali a una paralisi di funzionamento anche solo teorica e temporanea».
Per questa ragione, con la loro nuova eccezione di illegittimità costituzionale, i Consigli regionali sollecitano un intervento additivo, che estenda la previsione della sospensione, di cui all'art. 37, comma 3, secondo periodo, della legge n. 352 del 1970, «rendendola automatica, e a tempo indeterminato, per il caso in cui la normativa di risulta non sia “auto-applicativa”, sino all'adozione, da parte del Legislatore, delle misure attuative sufficienti ad assicurare la piena operatività della legge costituzionalmente necessaria, e, segnatamente, della legge elettorale stessa».
La difesa dei Consigli regionali esclude, inoltre, che abbiano fondamento le possibili obiezioni secondo cui l'intervento additivo richiesto alla Corte rischierebbe – in caso di persistente inerzia del legislatore – di pregiudicare il bene della vita che si vuole perseguire mediante il referendum e sarebbe dubbia l'esistenza stessa di un obbligo, a carico del Parlamento, di intervenire nel senso richiesto dai promotori. L'eventuale omissione del legislatore integrerebbe, infatti, «una fattispecie indiretta di violazione del limite […] per il quale la disciplina abrogata per via popolare è da reputarsi superata e non più “ripristinabile”».
In altre parole, il legislatore, «per non trasgredire il divieto di ripristino (di cui il mantenimento in vigore costituirebbe, palesemente, una variante “in frode” al divieto stesso)», sarebbe obbligato a introdurre le misure attuative dell'esito referendario o ad adottare una nuova disciplina sostanzialmente diversa da quella abrogata. Di conseguenza, la mera inerzia esporrebbe il legislatore alla censura della responsabilità politica, ma costituirebbe anche un comportamento «antigiuridico, in quanto commesso in spregio dei principi costituzionali in tema di “seguito” referendario».
I Consigli regionali sottolineano, da ultimo, che non mancherebbero gli strumenti volti a stimolare l'intervento del legislatore: innanzitutto, i promotori del referendum potrebbero proporre un conflitto interorganico contro l'omissione legislativa, ben potendosi considerare legittimati ad agire, in quanto il procedimento referendario non potrebbe dirsi effettivamente esaurito in ragione della sospensione dell'effetto abrogativo; in secondo luogo, il Presidente della Repubblica potrebbe esercitare il suo potere di messaggio e di esternazione o addirittura di scioglimento delle Camere, saldandosi, in questo caso, la responsabilità giuridica da inadempimento con la verifica della responsabilità politica.
5.− In prossimità della data fissata per la camera di consiglio, sono stati depositati quattro atti di intervento ad opponendum, di identico contenuto, da parte dell'on. F. Fornaro, legale rappresentante del gruppo parlamentare “Liberi e Uguali” alla Camera dei deputati, del prof. P. Maddalena, legale rappresentante dell'associazione di promozione sociale “Attuare la Costituzione”, dell'on. prof. M. Villone, legale rappresentante dell'associazione politica “Coordinamento per la democrazia costituzionale”, dei signori G. Libutti, prof. A.D.G. Ferrara, F. Astengo, R. Biscardini, avv. F. Besostri, sen. G. De Falco, L.A. Belli Paci, avv. E. Paolini, tutti anche in proprio.
5.1.− Gli atti di intervento prendono le mosse da alcune considerazioni di carattere generale sull'importanza della legge elettorale nel sistema istituzionale, da cui viene fatta discendere la inammissibilità di quesiti referendari eccessivamente manipolativi. Gli intervenienti si soffermano lungamente sui principi di univocità, omogeneità e chiarezza elaborati dalla giurisprudenza costituzionale in sede di ammissibilità del referendum abrogativo. In particolare, richiamano poi il principio di auto-applicatività della normativa di risulta, delineato dalla Corte costituzionale con specifico riferimento alla materia elettorale.
Sono, poi, prese in esame le disposizioni di delegazione legislativa inserite nel quesito referendario dai Consigli regionali promotori al fine di assicurare l'auto-applicatività della normativa di risulta, rendendo possibile l'esercizio della delega per la definizione dei collegi elettorali da parte del Governo. Sul punto gli intervenienti sollevano diverse censure per violazione: a) dell'art. 76 Cost., in relazione sia al termine di esercizio della delega, che sarebbe modificato, sia all'oggetto della stessa, in quanto il Governo è delegato dalla legge n. 51 del 2019 a ridisegnare i collegi in caso di approvazione della revisione costituzionale che riduce il numero dei parlamentari, che, infine, ai principi e criteri direttivi, in quanto sono richiamati quelli dettati dalla legge n. 165 del 2017, che contiene una delega già esercitata; b) dell'art. 77, primo comma, Cost., poiché il quesito in esame conferirebbe al Governo la potestà legislativa delegata, che solo il Parlamento – e non il corpo elettorale – può conferire all'esecutivo; c) dell'art. 76 Cost., in quanto il termine per l'esercizio della delega legislativa contenuta nella legge n. 165 del 2017 sarebbe spirato e la delega già esercitata; d) degli artt. 70 e 77 Cost., poiché il corpo elettorale in sede referendaria non potrebbe conferire al Governo alcuna delega legislativa; e) dei criteri di univocità, omogeneità e chiarezza, in quanto il quesito referendario ometterebbe l'abrogazione di alcuni riferimenti alle liste dei candidati per i collegi plurinominali; f) dell'art. 51, primo comma, secondo periodo, Cost., poiché il quesito eliminerebbe le disposizioni dirette a favorire la parità di genere nelle candidature.
Gli intervenienti analizzano, inoltre, il rapporto tra il numero di elettori e il numero di eletti che verrebbe a determinarsi a seguito dell'approvazione della revisione costituzionale sulla riduzione dei parlamentari e mettono in evidenza come esso possa condurre gli elettori a valutazioni diverse sul sistema elettorale della Camera dei deputati rispetto a quello per il Senato della Repubblica, data la perdurante previsione costituzionale che impone l'elezione su base regionale di quest'ultimo. Inoltre, gli atti di intervento accennano alla necessità di assicurare rappresentanza alle minoranze linguistiche presenti in diverse Regioni italiane, oltre che nelle Province autonome di Trento e Bolzano. L'insieme di queste considerazioni dovrebbe indurre a ritenere carente il quesito sotto i profili della univocità e chiarezza, posto che la normativa elettorale di entrambi i rami del Parlamento viene ricompresa nel medesimo quesito.
Gli intervenienti sottolineano come il conflitto di attribuzione proposto da alcuni dei Consigli regionali promotori abbia lo scopo di far dichiarare la non spettanza alle Camere del potere di omettere la previsione della disposizione dell'art. 37, terzo comma, secondo periodo, della legge n. 352 del 1970, nella parte in cui non prevede la sospensione de jure degli effetti del referendum approvato, condizionata all'adozione delle misure applicative sufficienti per la piena operatività della legge costituzionalmente necessaria e, segnatamente, della legge elettorale per gli organi costituzionali e di rilievo costituzionale, con conseguente parziale annullamento della disposizione in parola. Il conflitto di attribuzione proposto rappresenterebbe, per gli intervenienti, un riconoscimento della non auto-applicatività della normativa di risulta, da cui discenderebbe l'inevitabile inammissibilità del quesito referendario.
Negli atti di intervento si propone che la Corte costituzionale, in sede di giudizio sulla ammissibilità del referendum abrogativo in esame, sollevi questioni di costituzionalità dinanzi a sé stessa su diverse disposizioni della normativa oggetto del quesito referendario: 1) la prima censura riguarda le norme sulla nomina e sulla composizione della Commissione di cui dovrebbe avvalersi il Governo nella designazione dei collegi elettorali, come stabilito dall'art. 3 della legge n. 51 del 2019 e dall'art. 3, comma 2, della legge n. 165 del 2017; viene, inoltre, censurata la procedura che tale Commissione dovrebbe seguire nel determinare i collegi elettorali; 2) la seconda questione ha ad oggetto l'impossibilità – derivante dai commi 4, 19 e 21 dell'art. 1 della legge n. 165 del 2017 – per gli elettori di esprimere un voto disgiunto per l'elezione dei candidati al collegio uninominale e per i candidati nelle liste proporzionali a questi collegate; a tal fine, si sostiene che, in caso di autorimessione di una questione di costituzionalità sulle norme oggetto del quesito referendario, dovrebbe essere sospeso il giudizio di ammissibilità del referendum, in quanto i termini di cui alla legge n. 352 del 1970 non sarebbero perentori, purché non sia impedita la celebrazione della consultazione referendaria nel periodo compreso tra il 15 aprile e il 15 giugno.
5.2.− Infine, gli intervenienti allegano ai propri atti uno schema delle censure di incostituzionalità relative al sistema elettorale disciplinato nella legge n. 165 del 2017. In particolare, lamentano l'incostituzionalità della quota maggioritaria, che produrrebbe una distorsione dei risultati elettorali, accentuata dal collegamento obbligato tra seggi uninominali e liste bloccate proporzionali. I dubbi sollevati si aggraverebbero e acquisterebbero ancor più evidenza qualora venisse definitivamente approvata la revisione costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari e nell'ipotesi in cui dovesse entrare in vigore il sistema delineato dal quesito referendario. Le eccezioni di illegittimità costituzionale vengono riassunte in base ai seguenti parametri invocati: 1) l'art. 48 Cost. sarebbe violato sotto i profili della libertà del voto, a causa della impossibilità di esprimere il voto disgiunto tra candidati al collegio uninominale e liste proporzionali, della uguaglianza del voto, in ragione della sussistenza delle soglie di sbarramento e della personalità del voto, per la previsione delle liste bloccate; 2) l'art. 51 Cost. verrebbe leso in quanto non sarebbe assicurata la parità di genere nelle candidature; 3) la base regionale prevista all'art. 57 Cost. verrebbe violata dalla previsione di una soglia di sbarramento nazionale per l'elezione del Senato; 4) gli artt. 3 e 6 Cost. sarebbero violati poiché la legge elettorale vigente non assicurerebbe parità nell'accesso alla rappresentanza alle minoranze linguistiche di Regioni diverse dal Trentino-Alto Adige/Südtirol; 5) il principio di eguaglianza del voto sarebbe leso dalle norme sulla elezione per la Camera dei deputati per il Trentino-Alto Adige/Südtirol, in quanto i deputati eletti tramite collegi uninominali sarebbero i sei undicesimi, invece dei tre ottavi previsti per tutto il territorio nazionale; 6) il principio per cui il candidato in una circoscrizione non può essere danneggiato o favorito dai voti in altre circoscrizioni sarebbe violato in quanto la legge elettorale oggetto di referendum consentirebbe l'elezione dei candidati al Senato attraverso il recupero dei resti ottenuti dalla medesima lista in altre Regioni.

Considerato in diritto

1.− Il presente giudizio ha a oggetto l'ammissibilità della richiesta di referendum popolare dichiarata legittima con ordinanza del 20 novembre 2019 dell'Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione.
La richiesta di referendum popolare, promossa dai Consigli regionali delle Regioni Abruzzo, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Sardegna e Veneto, ha a oggetto l'abrogazione di alcune disposizioni del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l'elezione del Senato della Repubblica), della legge 27 maggio 2019, n. 51 (Disposizioni per assicurare l'applicabilità delle leggi elettorali indipendentemente dal numero dei parlamentari) e della legge 3 novembre 2017, n. 165 (Modifiche al sistema di elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Delega al Governo per la determinazione dei collegi elettorali uninominali e plurinominali).
2.− In via preliminare, si deve rilevare che, nella camera di consiglio del 15 gennaio 2020, questa Corte ha disposto, come già avvenuto più volte in passato, sia di consentire l'illustrazione orale delle memorie depositate dai soggetti presentatori del referendum ai sensi dell'art. 33, terzo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), sia – prima ancora – di ammettere gli scritti presentati da soggetti diversi da quelli contemplati dalla disposizione citata, e tuttavia interessati alla decisione sull'ammissibilità delle richieste referendarie, come contributi contenenti argomentazioni ulteriori rispetto a quelle altrimenti a disposizione della Corte (ex plurimis: sentenze n. 5 del 2015, n. 13 del 2012, n. 28, n. 27, n. 26, n. 25 e n. 24 del 2011, n. 17, n. 16 e n. 15 del 2008).
Tale ammissione, che viene qui confermata, non si traduce in un diritto di questi soggetti di partecipare al procedimento – che, comunque, «deve tenersi, e concludersi, secondo una scansione temporale definita» (sentenza n. 31 del 2000) – e di illustrare le relative tesi in camera di consiglio, ma comporta solo la facoltà della Corte, ove lo ritenga opportuno, di consentire brevi integrazioni orali degli scritti, come è appunto avvenuto nella camera di consiglio del 15 gennaio 2020, prima che i soggetti di cui al citato art. 33 illustrino le rispettive posizioni.
3.− Sempre in via preliminare, occorre definire il contesto normativo nel quale si collocano le disposizioni oggetto del quesito referendario.
3.1.− Il d.P.R. n. 361 del 1957 e il d.lgs. n. 533 del 1993, recanti, rispettivamente, i testi unici delle leggi elettorali della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, sono stati novellati, da ultimo, proprio dagli ulteriori due testi normativi oggetto, in parte, del quesito referendario (legge n. 165 del 2017 e legge n. 51 del 2019).
3.2.− Più precisamente, la legge n. 165 del 2017 ha modificato il meccanismo di elezione dei membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, prevedendo, per entrambi i rami del Parlamento, un sistema elettorale misto a prevalenza proporzionale.
Alla Camera il territorio nazionale è così ripartito in 28 circoscrizioni. Per alcune circoscrizioni il territorio coincide con quello dell'intera Regione, mentre negli altri casi il territorio regionale è ripartito in più circoscrizioni. Ciascuna circoscrizione è suddivisa in collegi uninominali e in uno o più collegi plurinominali. I 231 collegi uninominali del territorio nazionale sono ripartiti in ciascuna circoscrizione sulla base della popolazione (cui si aggiunge il collegio uninominale della Regione autonoma Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste). Per l'assegnazione del restante numero di seggi, con metodo proporzionale, ogni circoscrizione è ripartita in collegi plurinominali costituiti dalla aggregazione del territorio di collegi uninominali contigui e tali che a ciascuno di essi sia assegnato, di norma, un numero di seggi non inferiore a tre e non superiore a otto.
Al Senato il territorio nazionale è ripartito in 20 circoscrizioni corrispondenti al territorio di ciascuna Regione. Ogni circoscrizione regionale è suddivisa in collegi uninominali e in uno o più collegi plurinominali. I 109 collegi uninominali del territorio nazionale sono ripartiti in ciascuna circoscrizione sulla base della popolazione (ad essi si aggiungono 1 collegio nella Regione autonoma Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste e 6 collegi nella Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol). Al Senato i collegi plurinominali sono costituiti dalla aggregazione del territorio di collegi uninominali contigui e tali che a ciascuno di essi sia assegnato, di norma, un numero di seggi non inferiore a due e non superiore a otto.
Al totale dei seggi così assegnati si aggiungono 12 deputati e 6 senatori eletti nella circoscrizione Estero.
A seguito dell'introduzione del sistema elettorale così sinteticamente descritto, si è reso necessario determinare i collegi uninominali e quelli plurinominali; e a tale fine l'art. 3 della legge n. 165 del 2017 recava una norma di delega, che è stata esercitata dal Governo con il decreto legislativo 12 dicembre 2017, n. 189 (Determinazione dei collegi elettorali della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, in attuazione dell'articolo 3 della legge 3 novembre 2017, n. 165, recante modifiche al sistema di elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Delega al Governo per la determinazione dei collegi elettorali uninominali e plurinominali).
3.3.− La legge n. 51 del 2019 reca, invece, «Disposizioni per assicurare l'applicabilità delle leggi elettorali indipendentemente dal numero dei parlamentari». Questa legge, pur novellando il testo unico delle leggi elettorali per la Camera (all'art. 1) e per il Senato (all'art. 2), non modifica il meccanismo di trasformazione dei voti in seggi, ma si limita a introdurre una serie di disposizioni dirette ad assicurare l'applicabilità delle leggi elettorali vigenti «indipendentemente dal numero dei parlamentari».
Dalla relazione illustrativa del relativo disegno di legge e dai lavori preparatori si evince chiaramente che la legge in parola – destinata a trovare applicazione, teoricamente, in caso di qualsivoglia modifica del numero dei parlamentari – è stata approvata nella prospettiva dell'eventuale approvazione definitiva della legge costituzionale che dispone la riduzione del numero dei parlamentari.
Quest'ultima, com'è noto, è stata approvata dal Senato, in seconda deliberazione, con la maggioranza assoluta dei suoi componenti (e quindi non con quella dei due terzi) nella seduta dell'11 luglio 2019, e dalla Camera dei deputati, in seconda deliberazione, con la maggioranza dei due terzi dei suoi componenti nella seduta dell'8 ottobre 2019. La mancata approvazione da parte di entrambe le Camere con la maggioranza dei due terzi ha impedito l'immediata promulgazione e pubblicazione della legge costituzionale, rendendo possibile la richiesta di referendum ai sensi dell'art. 138 della Costituzione; pertanto, il testo della legge costituzionale è stato pubblicato, a fini notiziali, nella Gazzetta Ufficiale, Serie generale, del 12 ottobre 2019, n. 240. Entro il termine di tre mesi da tale pubblicazione, ossia entro il 12 gennaio 2020, un quinto dei membri del Senato ha depositato un'apposita richiesta referendaria presso la Corte di cassazione. La legge costituzionale in parola prevede la riduzione del numero complessivo dei deputati da 630 a 400, e, tra questi, di quelli eletti nella circoscrizione Estero da 12 a 8; prevede inoltre la riduzione del numero complessivo dei senatori da 315 a 200, e, tra questi, di quelli eletti nella circoscrizione Estero da 6 a 4.
Nella prospettiva dell'approvazione definitiva e dell'entrata in vigore di questa legge costituzionale, la legge n. 51 del 2019 ha disposto, tra l'altro, nel d.P.R. n. 361 del 1957 (t.u. Camera), la sostituzione delle parole: «231 collegi uninominali» con le seguenti: «un numero di collegi uninominali pari ai tre ottavi del totale dei seggi da eleggere nelle circoscrizioni elettorali di cui alla tabella A allegata al presente testo unico, con arrotondamento all'unità inferiore,», e delle parole da: «le circoscrizioni Trentino-Alto Adige/Südtirol» fino alla fine del comma con le seguenti: «la circoscrizione Trentino-Alto Adige/Südtirol è ripartita in un numero di collegi uninominali pari alla metà dei seggi assegnati alla circoscrizione medesima, con arrotondamento all'unità pari superiore. Le circoscrizioni cui sono assegnati tre deputati sono ripartite in due collegi uninominali; le circoscrizioni cui sono assegnati due deputati sono costituite in un collegio uninominale».
La stessa legge ha disposto, tra l'altro, nel d.lgs. n. 533 del 1993 (t.u. Senato) la sostituzione delle parole: «Il territorio nazionale, con eccezione della Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste e del Trentino-Alto Adige/Südtirol, è suddiviso in 109 collegi uninominali nell'ambito delle circoscrizioni regionali. Nella regione Molise è costituito un collegio uninominale. I» con le seguenti: «Il territorio nazionale è suddiviso in un numero di collegi uninominali pari ai tre ottavi del totale dei seggi da eleggere nelle circoscrizioni regionali, con arrotondamento all'unità più prossima, assicurandone uno per ogni circoscrizione. Fatti salvi i collegi uninominali delle regioni che eleggono un solo senatore e quelli del Trentino-Alto Adige/Südtirol, i».
La legge n. 51 del 2019 non è quindi intervenuta per modificare i meccanismi di conversione dei voti in seggi, ma per sostituire l'indicazione numerica dei collegi uninominali con un'indicazione a mezzo di frazioni, al fine di rendere immediatamente applicabile la legge elettorale vigente in caso di modifica del denominatore della frazione (cioè del totale dei seggi), restando del tutto inalterata la proporzione tra il numero dei parlamentari eletti nei collegi uninominali (con sistema maggioritario) e quello dei parlamentari eletti nei collegi plurinominali (con sistema proporzionale).
La legge n. 51 del 2019 reca, poi, una norma di delega (art. 3) per la determinazione dei nuovi collegi elettorali (uninominali e plurinominali), che, pur rimanendo nella stessa proporzione quanto ai parlamentari eletti (i tre ottavi di questi ultimi nei collegi uninominali e i cinque ottavi in quelli plurinominali), a seguito dell'eventuale entrata in vigore della legge costituzionale saranno ovviamente di numero inferiore e, di conseguenza, di dimensioni maggiori rispetto agli attuali. Più precisamente, l'art. 3, comma 1, della legge n. 51 del 2019 prevede che «[q]ualora, entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, sia promulgata una legge costituzionale che modifica il numero dei componenti delle Camere di cui agli articoli 56, secondo comma, e 57, secondo comma, della Costituzione, il Governo è delegato ad adottare un decreto legislativo per la determinazione dei collegi uninominali e plurinominali per l'elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica». Il comma 2 del medesimo art. 3 dispone che «[i]l decreto legislativo di cui al comma 1 è adottato, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge costituzionale di cui al medesimo comma 1», sulla base dei medesimi principi e criteri direttivi recati dalla legge n. 165 del 2017.
La norma di delega di cui si discute presenta dunque la caratteristica di essere sottoposta a una condizione sospensiva legata al verificarsi di un evento complesso: la promulgazione, entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della legge n. 51 del 2019, di una legge costituzionale che modifica il numero dei componenti delle Camere. Di conseguenza, la delega in questione non sarebbe esercitabile se una legge costituzionale di modifica del numero dei parlamentari non fosse mai promulgata, né se la promulgazione avvenisse oltre il termine dei ventiquattro mesi dall'entrata in vigore della legge n. 51 del 2019, quindi oltre il 26 giugno 2021. Si tratta, dunque, di una delega “precaria”, rispetto al cui esercizio è incerto l'an, ma non il quando, essendo definiti i limiti temporali del suo esercizio, ovviamente possibile solo a condizione che si verifichi l'evento complesso di cui sopra.
4.− Il quesito referendario investe le disposizioni recate dai testi unici delle leggi elettorali della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica attinenti all'articolazione del territorio nazionale in collegi uninominali e plurinominali, e inoltre dall'art. 3 della legge n. 51 del 2019, che contiene l'anzidetta norma di delega in materia di determinazione dei collegi elettorali in caso di modifica del numero dei parlamentari, nonché dall'art. 3 della legge n. 165 del 2017, nelle parti – peraltro eccedenti il mero richiamo ad esso contenuto nell'art. 3 della legge n. 51 del 2019 – in cui stabilisce i principi e criteri direttivi della delega per la determinazione dei collegi elettorali a seguito della modifica del sistema elettorale operata dalla stessa legge n. 165 del 2017.
In particolare, i Consigli regionali promotori chiedono che sia sottoposta al referendum popolare la proposta di abrogazione, in tutto o in parte: degli artt. 1, 3, 4, 14, 17, 18-bis, 19, 20, 21, 22, 24, 30, 31, 48, 53, 58, 59-bis, 68, 69, 71, 77, 83, 83-bis, 84, 85, 86 e 106 del d.P.R. n. 361 del 1957 e delle allegate Tabelle A-bis e A-ter; degli artt. 1, 2, 9, 10, 11, 14, 16, 16-bis, 17, 17-bis e 19 del d.lgs. n. 533 del 1993 e delle allegate Tabelle A e B; dell'art. 3 della legge n. 51 del 2019; e dell'art. 3 della legge n. 165 del 2017.
4.1.− Quanto al d.P.R. n. 361 del 1957 (t.u. Camera), i promotori del referendum chiedono l'abrogazione di tutte le disposizioni, i frammenti normativi e le singole parole che fanno riferimento ai collegi plurinominali, con l'obiettivo di estendere alla totalità dei seggi un meccanismo di assegnazione basato su collegi uninominali, portandolo quindi dall'attuale previsione di tre ottavi al totale di otto ottavi.
In questa prospettiva oggetto della richiesta di abrogazione sono, tra le altre: le disposizioni che regolano la presentazione delle liste e delle candidature; quelle che stabiliscono le modalità di espressione del voto; quelle che disciplinano l'assegnazione dei seggi e quindi la trasformazione dei voti in seggi; e, infine, quelle che definiscono le caratteristiche della scheda (art. 31). Dall'abrogazione richiesta deriva la conseguenza che il sistema elettorale attualmente misto (maggioritario per la quota di seggi assegnata nei collegi uninominali e proporzionale per quella assegnata nei collegi plurinominali) diventerebbe esclusivamente maggioritario con collegi uninominali a turno unico.
Conseguenziale rispetto a quanto detto è la richiesta di abrogazione anche delle tabelle allegate al d.P.R. n. 361 del 1957, che disciplinano, rispettivamente, la parte interna (Tabella A-bis) e quella esterna (Tabella A-ter) della scheda per la votazione. In questo caso l'abrogazione richiesta è totale, non essendo possibile ritagliare nell'allegato modello di scheda la sola parte relativa ai candidati nei collegi plurinominali.
4.2.− Quanto al d.lgs. n. 533 del 1993 (t.u. Senato), anche in questo caso valgono le considerazioni svolte sopra a proposito del d.P.R. n. 361 del 1957. D'altro canto, l'identità dei sistemi elettorali di Camera e Senato determina, di riflesso, la pressoché totale identità delle disposizioni oggetto della richiesta di referendum popolare. Anche con riferimento al d.lgs. n. 533 del 1993, quindi, i promotori del referendum chiedono l'abrogazione di tutte le disposizioni, i frammenti normativi e le singole parole che fanno riferimento ai collegi plurinominali, con l'obiettivo di estendere alla totalità dei seggi un meccanismo di assegnazione basato su collegi uninominali, portandolo quindi dall'attuale previsione di tre ottavi al totale di otto ottavi.
Anche in questo caso la richiesta di abrogazione ha a oggetto, tra le altre: le disposizioni che regolano la presentazione delle liste e delle candidature; quelle che stabiliscono le modalità di espressione del voto; quelle che disciplinano l'assegnazione dei seggi e quindi la trasformazione dei voti in seggi; e, infine, quelle che definiscono le caratteristiche della scheda (art. 11, comma 3). Dall'abrogazione richiesta deriva che il sistema elettorale attualmente misto (maggioritario per la quota di seggi assegnata nei collegi uninominali e proporzionale per quella assegnata nei collegi plurinominali) diventerebbe esclusivamente maggioritario con collegi uninominali a turno unico.
Viene chiesta inoltre l'abrogazione delle tabelle allegate al d.lgs. che disciplinano, rispettivamente, la parte interna (Tabella A) e quella esterna (Tabella B) della scheda per la votazione. In questo caso l'abrogazione richiesta è totale, non potendosi ritagliare nell'allegato modello di scheda la sola parte relativa ai candidati nei collegi plurinominali.
4.3.− Quanto all'art. 3 della legge n. 51 del 2019, i promotori del referendum chiedono l'abrogazione dell'incipit del comma 1 là dove si individua la condizione sospensiva della delega e di quella parte del comma 2 in cui si fissa il dies a quo del termine di 60 giorni per l'esercizio della delega. Infine, sono oggetto del quesito il riferimento ai collegi plurinominali contenuto nella rubrica e nel comma 1, nonché il richiamo dei principi e criteri direttivi di delega previsti nell'art. 3, comma 1, lettera b), e comma 2, lettera b), della legge n. 165 del 2017.
4.4.− Quanto all'art. 3 della legge n. 165 del 2017, recante la norma di delega già scaduta ed esercitata dal Governo con il d.lgs. n. 189 del 2017, i promotori del referendum chiedono l'abrogazione delle parti di esso costituenti principi e criteri direttivi dell'altra delega contenuta nell'art. 3 della legge n. 51 del 2019.
4.5.− In definitiva, l'abrogazione parziale dell'art. 3 della legge n. 51 del 2019 è chiesta per adattare la delega al Governo per la ridefinizione dei collegi al mutamento del sistema elettorale determinato dall'eventuale esito positivo del referendum abrogativo. A sua volta l'abrogazione parziale dell'art. 3 della legge n. 165 del 2017 è chiesta per adattare i principi e criteri direttivi in esso contenuti al detto mutamento del sistema elettorale. Non è invece oggetto del quesito referendario il d.lgs. n. 189 del 2017, che attualmente reca, nelle quattro Tabelle allegate, l'individuazione dei collegi uninominali e plurinominali di Camera e Senato.
5.− Così delineati il contesto normativo di riferimento e l'insieme delle disposizioni oggetto del quesito referendario, questa Corte è chiamata a giudicare sull'ammissibilità di quest'ultimo alla luce dei criteri desumibili dall'art. 75 Cost. e del complesso dei «valori di ordine costituzionale, riferibili alle strutture od ai temi delle richieste referendarie, da tutelare escludendo i relativi referendum, al di là della lettera dell'art. 75 secondo comma Cost.» (sentenza n. 16 del 1978).
Di qui la necessità, non solo che la richiesta referendaria non investa una delle leggi indicate nell'art. 75 Cost. o comunque riconducibili ad esse, ma anche che il quesito da sottoporre al giudizio del corpo elettorale consenta una scelta libera e consapevole, richiedendosi pertanto i caratteri della chiarezza, dell'omogeneità, dell'univocità del medesimo quesito, oltre che l'esistenza di una sua matrice razionalmente unitaria. Al riguardo, questa Corte ha avuto modo di precisare che «libertà dei promotori delle richieste di referendum e libertà degli elettori chiamati a valutare le richieste stesse non vanno confuse fra loro: in quanto è ben vero che la presentazione delle richieste rappresenta l'avvio necessario del procedimento destinato a concludersi con la consultazione popolare; ma non è meno vero che la sovranità del popolo non comporta la sovranità dei promotori e che il popolo stesso dev'esser garantito, in questa sede, nell'esercizio del suo potere sovrano» (sentenza n. 16 del 1978). Ne consegue l'ulteriore affermazione che il referendum abrogativo non può essere «trasformato – insindacabilmente – in un distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia, nei confronti di complessive inscindibili scelte politiche dei partiti o dei gruppi organizzati che abbiano assunto e sostenuto le iniziative referendarie» (sentenza n. 16 del 1978).
In generale, questa Corte ha ammesso anche le operazioni di ritaglio di frammenti normativi e di singole parole, a condizione però che l'abrogazione parziale chiesta con il quesito referendario non si risolva sostanzialmente «in una proposta all'elettore, attraverso l'operazione di ritaglio sulle parole e il conseguente stravolgimento dell'originaria ratio e struttura della disposizione» (sentenza n. 36 del 1997). In questi casi, infatti, il referendum, perdendo la propria natura abrogativa, tradirebbe la ragione ispiratrice dell'istituto, diventando approvativo di nuovi principi e «surrettiziamente propositivo» (ex plurimis, sentenze n. 13 del 2012, n. 28 del 2011, n. 33 e n. 23 del 2000 e n. 13 del 1999; nello stesso senso, sentenze n. 43 del 2003, n. 38 e n. 34 del 2000): un'ipotesi non ammessa dalla Costituzione, perché il referendum non può «introdurre una nuova statuizione, non ricavabile ex se dall'ordinamento» (sentenza n. 36 del 1997).
Agli indicati requisiti questa Corte ne ha aggiunto altri in ragione della specificità dell'oggetto della richiesta referendaria, sempre nella prospettiva della piena realizzazione dei richiamati «valori di ordine costituzionale». E in questo contesto ha affermato che sono sottratte all'abrogazione totale mediante referendum le leggi costituzionalmente necessarie, quali in particolare le leggi elettorali di organi costituzionali o di rango costituzionale, la cui mancanza creerebbe un grave vulnus nell'assetto costituzionale dei poteri dello Stato.
Allo stesso modo, anche l'eventuale abrogazione parziale di leggi costituzionalmente necessarie, e in primis delle leggi elettorali, deve comunque garantire l'«indefettibilità della dotazione di norme elettorali» (sentenza n. 29 del 1987), dovendosi evitare che l'organo delle cui regole elettorali si discute possa essere esposto «alla eventualità, anche solo teorica, di paralisi di funzionamento» (sentenza n. 47 del 1991). Sicché è condizione di ammissibilità del quesito che all'esito dell'eventuale abrogazione referendaria risulti «una coerente normativa residua, immediatamente applicabile, in guisa da garantire, pur nell'eventualità di inerzia legislativa, la costante operatività dell'organo» (sentenza n. 32 del 1993; nello stesso senso, sentenze n. 13 del 2012, n. 16 e n. 15 del 2008, n. 13 del 1999, n. 26 del 1997, n. 5 del 1995), dovendosi intendere in particolare la cosiddetta auto-applicatività della normativa di risulta alla stregua di «una disciplina in grado di far svolgere correttamente una consultazione elettorale in tutte le sue fasi, dalla presentazione delle candidature all'assegnazione dei seggi» (sentenze n. 16 e n. 15 del 2008). La medesima esigenza si è posta anche nel caso di parziale illegittimità costituzionale delle leggi elettorali della Camera e del Senato (sentenze n. 35 del 2017 e n. 1 del 2014).
è appena il caso di aggiungere che non spetta invece a questa Corte, in sede di giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo, «favorire un potenziamento del ruolo dell'elettore nella scelta degli eletti» al fine di «consentire che il [Parlamento] rifiorisca», come chiedono i promotori del referendum, giacché in tale giudizio essa è chiamata solamente a verificare il rispetto delle condizioni e dei limiti costituzionali all'esercizio del referendum.
6.− Nel caso in esame, il quesito referendario sottoposto al giudizio di questa Corte è sicuramente univoco nell'obiettivo che intende perseguire e risulta dotato di una matrice razionalmente unitaria. è evidente, infatti, che l'obiettivo dei Consigli regionali promotori è di estendere alla totalità dei seggi di Camera e Senato il sistema elettorale attualmente previsto per l'assegnazione dei tre ottavi di essi. Ciò emerge a chiare lettere dall'esame dei frammenti normativi che il quesito chiede di rimuovere nel d.P.R. n. 361 del 1957 e nel d.lgs. n. 533 del 1993. Si può osservare fin d'ora, inoltre, che alla stessa matrice unitaria non è estraneo l'intervento proposto sulla norma di delega del 2019 e, in quanto oggetto di rinvio da parte di quest'ultima, su quella del 2017, giacché l'inclusione nel quesito anche di queste normative si pone come strumentale, nelle intenzioni dei promotori, al raggiungimento del medesimo risultato, come si vedrà meglio infra.
Con specifico riguardo alla parte del quesito che investe i due testi normativi elettorali, ossia il d.P.R. n. 361 del 1957 e il d.lgs. n. 533 del 1993, si deve osservare che la proposta referendaria presenta alcune incongruenze legate per un verso al permanere, nel tessuto normativo dei due testi, di numerosi richiami alla «lista» e alle «liste», per altro verso alla richiesta abrogazione delle Tabelle allegate a entrambi i decreti, recanti i modelli di scheda elettorale. Si tratta nondimeno di inconvenienti superabili mediante l'impiego degli ordinari criteri d'interpretazione, o comunque risolvibili «anche mediante interventi normativi secondari, meramente tecnici ed applicativi» (in questi termini, per un analogo intervento sulla scheda elettorale, sentenza n. 1 del 2014). In presenza di inconvenienti di questo tipo in quesiti referendari riguardanti leggi elettorali, questa Corte ha ritenuto infatti di poterli considerare irrilevanti a condizione che non incidessero sull'operatività del sistema elettorale e non paralizzassero la funzionalità dell'organo (sentenza n. 32 del 1993). Ciò che non avviene nel caso in esame, nel quale le incongruenze derivanti dai sopravvissuti riferimenti normativi possono essere agevolmente superate attraverso gli ordinari strumenti di interpretazione, e all'assenza della previsione legislativa del modello di scheda può essere posto rimedio in modo pressoché automatico disponendo – anche con un atto di normazione secondaria – il mero mantenimento dei nomi dei candidati nei collegi uninominali e dei gruppi politici che li sostengono.
7.− Quanto alla normativa di risulta, i Consigli regionali promotori, consapevoli della richiamata giurisprudenza di questa Corte, si fanno carico dell'esigenza di assicurarne l'immediata applicabilità attraverso un duplice percorso. Per un verso, chiedono l'eliminazione di qualsiasi riferimento ai collegi plurinominali, in modo da consentire l'«espansione» a tutti i seggi del sistema elettorale, attualmente previsto solo per quelli assegnati nei collegi uninominali, dando vita in questo modo a un sistema elettorale in sé compiuto e astrattamente funzionante. Per altro verso, implicando il sistema elettorale così risultante la necessità di rideterminare i collegi elettorali, chiedono la parziale abrogazione della norma di delega recata dall'art. 3 della legge n. 51 del 2019 onde consentire la necessaria ridefinizione dei nuovi collegi uninominali.
L'operazione abrogativa richiesta, che non manca, come visto, di intrinseca coerenza, si presenta però inammissibile per l'assorbente ragione del carattere eccessivamente manipolativo dell'intervento sulla norma di delega.
7.1.− Al riguardo, occorre premettere che questa Corte, già in altre occasioni, ha avuto modo di affrontare la questione della necessità di una nuova determinazione dei collegi elettorali a seguito dell'eventuale abrogazione referendaria (sentenze n. 5 del 1995, n. 26 del 1997 e n. 13 del 1999) o della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una parte della normativa elettorale (sentenza n. 1 del 2014).
In particolare, nel giudizio di ammissibilità del referendum deciso con la sentenza n. 5 del 1995, ha rilevato che «[a] seguito della espansione del sistema maggioritario per l'attribuzione del totale dei seggi […], occorrerebbe procedere ad una nuova determinazione dei collegi uninominali in ciascuna circoscrizione, ridisegnandoli in modo da ottenerne un numero, sul territorio nazionale, pari al totale dei deputati da eleggere e non più al solo settantacinque per cento del totale medesimo».
Con la medesima pronuncia, preso atto del fatto che l'opera di revisione dei collegi «è pur sempre destinata a concludersi, dopo un complesso procedimento, con l'approvazione di una legge, ovvero con un decreto legislativo emanato dal Governo sulla base di una nuova legge di delegazione, così come avvenuto nel 1993», questa Corte ha ritenuto «decisivo rilevare che di fronte all'inerzia del legislatore, pur sempre possibile, l'ordinamento non offre comunque alcun efficace rimedio», con il rischio che si determini «la crisi del sistema di democrazia rappresentativa, senza che sia possibile ovviarvi». Di conseguenza, ha dichiarato inammissibile la richiesta referendaria.
Parimenti, nel giudizio di ammissibilità del referendum deciso con la sentenza n. 26 del 1997, la necessità di «procedere a una nuova definizione dei collegi uninominali in ciascuna circoscrizione, ridisegnandola in modo da ottenere un numero, sul territorio nazionale, pari al totale dei deputati da eleggere e non più […] al 75 per cento», ha indotto questa Corte a rilevare che «il sistema elettorale non consentirebbe la rinnovazione dell'organo», non potendo «dirsi sufficiente, allo stato, l'attività istruttoria svolta dalla speciale commissione tecnica, di cui all'art. 7 della legge n. 276 del 1993, dal momento che occorrerebbe pur sempre un intervento del legislatore, volto a conferire una nuova delega o imperniato su una diversa scansione procedurale, nel rispetto dei principi fissati dalla legge e con la garanzia dei pareri delle Camere». Da cui, anche in quel caso, l'inammissibilità del relativo quesito referendario.
A esiti opposti, ma sempre utilizzando lo stesso schema argomentativo, questa Corte è giunta nel giudizio di ammissibilità del referendum deciso con la sentenza n. 13 del 1999, là dove ha riscontrato «una piena garanzia di immediata applicabilità del sistema di risulta, in quanto i collegi elettorali uninominali rimarrebbero immutati, senza nessuna necessità di ridefinizione in ciascuna circoscrizione, sia nel numero sia nel conseguente ambito territoriale».
Infine, nel giudizio di legittimità costituzionale definito con la sentenza n. 1 del 2014, questa Corte ha incidentalmente affermato che «la normativa che rimane in vigore stabilisce un meccanismo di trasformazione dei voti in seggi che consente l'attribuzione di tutti i seggi, in relazione a circoscrizioni elettorali che rimangono immutate, sia per la Camera che per il Senato».
7.2.− Nell'odierno giudizio di ammissibilità il problema della determinazione dei collegi elettorali si presenta in termini parzialmente diversi dai giudizi di cui si è dato conto nel paragrafo precedente, per l'inclusione nel quesito referendario di una previsione di delega per la revisione dei collegi elettorali. Anche in questo caso, tuttavia, non si può non osservare che l'ineludibile necessità che siano ridisegnati i collegi elettorali e che sia quindi adottato un decreto legislativo a ciò diretto, ulteriore rispetto all'esito del referendum, finirebbe ugualmente per vanificare le prospettive di ammissibilità dell'iniziativa referendaria.
Pur consapevole dei limiti che il requisito della immediata applicabilità pone all'ammissibilità di referendum su leggi elettorali, questa Corte non ritiene tuttavia praticabile il percorso demolitorio-ricostruttivo individuato dai promotori per superare l'ostacolo della non auto-applicatività. Infatti, i Consigli regionali promotori, al fine di evitare che la richiesta referendaria avente ad oggetto i testi delle leggi elettorali di Camera e Senato potesse incorrere nei medesimi profili di inammissibilità per difetto del carattere di auto-applicatività della normativa di risulta, già rilevati in casi simili dalla giurisprudenza costituzionale, individuano la soluzione nella richiesta di parziale abrogazione anche della norma di delega recata dall'art. 3 della legge n. 51 del 2019, con l'obiettivo di renderne possibile l'esercizio anche a seguito dell'eventuale esito positivo del referendum abrogativo.
In altre parole, cogliendo l'occasione dell'esistenza di una delega resa dal Parlamento al Governo al fine di consentire l'applicabilità della riforma costituzionale in itinere che modifica il numero dei parlamentari – e impone per questo, pur a sistema elettorale invariato, una modifica dei collegi elettorali, uninominali e plurinominali, esistenti – i Consigli regionali promotori propongono un intervento su di essa diretto a conferirle il contenuto di delega a rideterminare i collegi uninominali in attuazione del nuovo sistema elettorale in ipotesi prodotto dal referendum.
L'intervento sulla disposizione di delega si realizza essenzialmente con: a) la parziale modifica del suo oggetto, che viene circoscritto, sia nella rubrica sia nel comma 1 del citato art. 3, alla «determinazione dei collegi uninominali» e non più di quelli plurinominali; b) l'eliminazione della condizione sospensiva della delega, che ne consentirebbe l'esercizio anche in caso di mancata promulgazione di una legge costituzionale di modifica del numero dei parlamentari entro ventiquattro mesi dalla entrata in vigore della legge n. 51 del 2019; c) l'abrogazione del dies a quo del termine di sessanta giorni per l'esercizio della delega; d) l'eliminazione dei riferimenti ai collegi plurinominali nei principi e criteri direttivi della delega (sia nella legge n. 51 del 2019, sia nella legge n. 165 del 2017).
è evidente, quindi, che l'obiettivo che i promotori si prefiggono di raggiungere presuppone una modifica della disposizione di delega che ne investe l'oggetto, la decorrenza del termine per il suo esercizio, i principi e criteri direttivi e la stessa condizione di operatività.
L'intervento richiesto sull'art. 3 della legge n. 51 del 2019 è dunque solo apparentemente abrogativo e si traduce con tutta evidenza in una manipolazione della disposizione di delega diretta a dare vita a una “nuova” norma di delega, diversa, nei suoi tratti caratterizzanti, da quella originaria.
Quanto alla radicale alterazione della delega originaria, sia sufficiente osservare che tutti i “caratteri somatici” della legge di delegazione – individuati dall'art. 76 Cost. come condizioni per la delega dell'esercizio della funzione legislativa da parte del Parlamento – si presenterebbero completamente modificati nella delega di risulta.
Questa avrebbe, tra l'altro, già sulla base della rubrica dell'art. 3 che lo individua, un oggetto diverso (non più «Delega al Governo per la determinazione dei collegi uninominali e plurinominali», ma «Delega al Governo per la determinazione dei collegi uninominali»).
I principi e criteri direttivi della delega originaria permarrebbero, sia pure sfrondati dei riferimenti ai collegi plurinominali, con la conseguenza, però, di rendere ancora più manifesta la manipolazione referendaria. Si finirebbe, infatti, con il prevedere gli stessi principi e criteri direttivi per la determinazione dei collegi elettorali nel contesto di un sistema elettorale radicalmente diverso da quello per il quale essi erano stati predisposti (quest'ultimo, introdotto con la legge n. 165 del 2017, a forte prevalenza proporzionale; quello risultante all'esito del referendum, esclusivamente maggioritario). Sicché, in altre parole, modificandosi il contesto del sistema elettorale in cui la nuova delega opererebbe, i principi e criteri direttivi finirebbero per essere solo formalmente gli stessi e per acquistare invece, alla luce del nuovo e diverso meccanismo di trasformazione dei voti in seggi, portata a sua volta inevitabilmente nuova e diversa.
Radicalmente diverso sarebbe, ancora, il dies a quo del termine per l'esercizio della delega, attualmente previsto nel momento di entrata in vigore della legge costituzionale di modifica del numero dei parlamentari, ma oggetto di abrogazione totale da parte del quesito referendario. In questo caso, quand'anche si ritenesse che la sua abrogazione in esito al referendum consenta di rinvenire, in via interpretativa, un nuovo dies a quo nel momento in cui si produrrà l'effetto abrogativo del referendum stesso, si tratterebbe comunque, all'evidenza, di un termine del tutto nuovo.
Infine, il quesito referendario mira a sopprimere la condizione sospensiva della delega di cui all'art. 3 della legge n. 51 del 2019, eliminando per questo verso il suo legame “genetico” con la riforma costituzionale del numero dei parlamentari e finendo con il produrre in questo modo una delega “stabile” e, in quanto non più condizionata a una particolare evenienza, sicuramente operativa. Vi sarebbe, in tal modo, un inammissibile effetto ampliativo della delega originaria che, conferita dal Parlamento sub condicione, diventerebbe incondizionata con il risultato di una manipolazione incompatibile, già solo per questo, con i limiti e le connotazioni peculiari della delega legislativa.
A ulteriore conferma dell'inammissibile grado di manipolazione che connota il quesito referendario sul punto vi è, poi, la considerazione che la delega, ancorché parzialmente abrogata, dovrebbe rimanere utilizzabile – come affermato dalla difesa degli stessi promotori – anche a seguito dell'entrata in vigore della legge costituzionale che riduce il numero dei parlamentari, alla quale era destinata a dare attuazione, ed essere così oggetto di un duplice e contestuale esercizio, dopo lo svolgimento del referendum costituzionale e di quello abrogativo qui all'esame. Al che si aggiunge la possibilità che i due referendum si svolgano in tempi diversi, come potrebbe avvenire, ad esempio, nel caso in cui il referendum abrogativo dovesse essere rinviato per intervenuto scioglimento anticipato delle Camere in applicazione di quanto previsto all'art. 34, secondo comma, della legge n. 352 del 1970. Nel qual caso la delega stessa risulterebbe esaurita, e non più utilizzabile, all'atto dello svolgimento del referendum abrogativo.
L'unicità del quesito referendario e la sua stessa matrice razionalmente unitaria impediscono a questa Corte di scindere la valutazione di ammissibilità della parte del quesito relativa alla norma di delega da quella relativa alle altre parti, con la conseguenza che sul quesito stesso deve essere formulato un giudizio unitario.
7.3.− Per le ragioni anzidette deve ritenersi dunque che l'eccessiva manipolatività del quesito referendario, nella parte in cui investe la delega di cui all'art. 3 della legge n. 51 del 2019, è incompatibile con la natura abrogativa dell'istituto del referendum previsto all'art. 75 Cost., ciò che ne determina l'inammissibilità.
8.− Deve essere, infine, dichiarata manifestamente inammissibile anche l'eccezione di illegittimità costituzionale sollevata dai Consigli regionali promotori in riferimento all'art. 37, terzo comma, secondo periodo, della legge n. 352 del 1970 per difetto di rilevanza. L'eccezione investiva, infatti, il citato art. 37 nell'ipotesi in cui la Corte avesse ritenuto inammissibile la richiesta referendaria per difetto del carattere di auto-applicatività della normativa di risulta. L'aver escluso l'ammissibilità del referendum per una diversa ragione rende, quindi, priva di rilievo l'eccepita questione di legittimità costituzionale.

Per questi motivi
la Corte Costituzionale

dichiara inammissibile la richiesta di referendum in epigrafe, dichiarata legittima con ordinanza del 20 novembre 2019, pronunciata dall'Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione.
Avv. Antonino Sugamele

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