Collaboratore professionale sanitario esperto con contratto a tempo pieno ed indeterminato presso un'Azienda ospedaliera chiamato a risarcire i danni erariali per aver prestato attività libero-professionali retribuite presso strutture private pur non avendo mai presentato all'ente di appartenenza richiesta di autorizzazione allo svolgimento di dette attività.
Corte dei Conti Lombardia Sez. giurisdiz., Sent., (ud. 10-10-2018) 31-10-2018, n. 215
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE DEI CONTI
SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA REGIONE LOMBARDIA
dr. Silvano Di Salvo - Presidente
dr.ssa Luisa Motolese - Consigliere rel
dr. Gaetano Berretta - Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di responsabilità iscritto al n. (...) del registro di segreteria ad istanza della Procura regionale per la Lombardia contro G.I.C., nato a B.-S.- il (...), residente a S. M. (M.) in via M. n.1/B, rappresentato e difeso dall' avvocato Massimo Menna ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest' ultimo in Milano, sito in via Vincenzo Monti,n.6 , in forza di procura rilasciata in calce alla comparsa di costituzione;
Visto il nuovo codice di giustizia contabile,
Visto l'atto di citazione depositato in data 18 dicembre 2017 dalla Procura regionale presso la segreteria di questa Sezione Giurisdizionale, ritualmente notificato al convenuto;
UDITI, nella pubblica udienza del giorno 10 ottobre 2018, con l'assistenza del Segretario dott.ssa Federica Dainotti, il Giudice relatore Luisa Motolese ed il Pubblico Ministero nella persona del P.M. dr.ssa Laura Monfeli, l'avvocato Massimo Menna per il
convenuto G.I.C.;
Esaminati gli atti e i documenti tutti di causa.
Ritenuto in
Svolgimento del processo
Con atto di citazione depositato in data 18 dicembre 2017, la Procura Regionale conveniva in giudizio G.I.C. - in qualità di collaboratore professionale sanitario esperto con contratto a tempo pieno ed indeterminato presso l'Azienda ospedaliera "O.S.C. - domandando il risarcimento dei danni dal medesimo cagionati all'ente di appartenenza, complessivamente quantificati in Euro 76.390,50 (oltre a interessi e rivalutazione monetaria e spese di giudizio).
Ha esposto la Procura regionale che i fatti, accertati dal Nucleo Anti Sofisticazioni (NAS) dei Carabinieri di Milano in data 5 settembre 2012, sono stati, altresì, segnalati dall' Ispettorato per la Funzione Pubblica in data 25.11.2013, dalla cui informativa è emerso che la condotta del convenuto, all'epoca dei fatti dipendente a tempo pieno ed indeterminato dell'ente ospedaliero, si caratterizzava per aver prestato attività libero-professionali retribuite presso strutture private (società come indicate nell'atto di citazione nel periodo temporale 2005-2011), pur non avendo mai presentato all'ente di appartenenza richiesta di autorizzazione allo svolgimento di dette attività.
Lo svolgimento delle prestazioni non autorizzate come sopra indicate veniva portato a conoscenza del signor C. con le contestazioni degli addebiti disciplinari del 9 gennaio 2013 e dell'8 gennaio 2014.
L' Ospedale aveva intimato, nel frattempo, con lettera del 5 novembre 2014, all'odierno convenuto di versare nelle casse dell'ente la somma esattamente equivalente all'ammontare dei compensi percepiti per l'attività extraistituzionale non autorizzata, ai sensi dell'art. 53, comma 7, del D.Lgs. n. 165 del 2001.
All'intimazione non seguiva alcun versamento da parte del convenuto C..
Ravvisando i presupposti della fattispecie di danno erariale delineata dall'art. 53, comma 7 bis del D.Lgs. n. 165 del 2001, l'Organo requirente notificava invito a dedurre a fronte del quale il C. ha fatto pervenire le sue deduzioni nelle quali ha chiesto l'archiviazione del procedimento eccependo in primis l'illegittimità costituzionale dell'art.53,comma 7 D.Lgs. n. 165 del 2001 e la prescrizione dell' azione contabile.
Di seguito, il predetto ha rappresentato che l'attività di che trattasi era stata espletata al di fuori dell'orario d'ufficio, senza alcun nocumento per l'azienda ospedaliera, chiedendo, comunque, in caso di condanna, che il danno da risarcire fosse determinato al netto delle imposte pagate.
Le considerazioni svolte dal convenuto non sono state ritenute dalla Procura attrice idonee a superare gli addebiti a lui mossi e pertanto, ritenendo che permanessero tutti i presupposti per l'esercizio dell'azione di responsabilità amministrativo-contabile, l'attrice Procura ha depositato nella segreteria sezionale atto di citazione nei suoi confronti.
Nell'atto introduttivo l'attore pubblico ha ritenuto sussistere tutti gli elementi costitutivi della responsabilità patrimoniale, sia con riguardo alla soggezione dei dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale alla disciplina della responsabilità amministrativa dei pubblici impiegati di cui all'art. 1 della L. n. 20 del 1994, sia, nello specifico, con riguardo all'applicabilità, al caso in esame, della fattispecie di responsabilità delineata dall'art. 53, comma 7 bis, del D.Lgs. n. 165 del 2001, derivante dal mancato riversamento dei compensi percepiti per l'attività libero professionale svolta presso terzi, in difetto di specifica autorizzazione, nel conto dell'entrata del bilancio dell'O.S.B., oggi ASST S.P. e C..
La fattispecie contestata, pertanto, si fonderebbe, per la Procura, sulla lesione del principio di esclusività della prestazione nei confronti dell'ente pubblico, costituzionalmente e contrattualmente previsto e sul mancato riversamento nel bilancio dell'ente di appartenenza dei compensi percepiti dal dipendente non autorizzato.
Con riguardo agli ulteriori elementi costitutivi risulta che il convenuto non ha in alcun modo negato di aver svolto le attività extra-istituzionali come accertate né di aver percepito i relativi compensi e risulta altresì accertato, al momento dei fatti contestati, il rapporto di impiego del convenuto con l'azienda ospedaliera S.C.B..
Circa l'elemento soggettivo, ritiene il Requirente sussistere una volontà consapevole di non adempiere ai propri obblighi di servizio ivi compreso quello di non richiedere all'Amministrazione di appartenenza l'autorizzazione a svolgere l'attività extraistituzionale in discorso.
Con memoria di costituzione e difensiva in data 15 febbraio 2018 il C., tramite il proprio patrono, ha sollevato eccezioni in rito ed in merito.
In via preliminare il difensore ha, quindi, riformulato le eccezioni di illegittimità costituzionale e di prescrizione dell'azione.
Ha sostenuto, all' uopo, la evidente violazione degli artt.36 ed 1 Cost. della previsione normativa che impone l'obbligo risarcitorio per incarichi non autorizzati, laddove non venga verificata preventivamente dalla stessa amministrazione l'incidenza negativa dello svolgimento dei suddetti sull'adempimento corretto degli obblighi istituzionali od in generale sul buon andamento dell'azione amministrativa.
Tale attività, ha continuato il difensore, non è di per sé illegale né contraria ai principi costituzionali (tanto che l'autorizzazione la rende lecita).
Si ravvisano, in questa ottica, violati, anche i principi costituzionali di proporzionalità e modulazione delle sanzioni al quale è collegato il principio del bilanciamento tra diversi interessi o beni e sul punto assume rilievo anche l'art.2126 c.c.
Il lavoro svolto nel caso concreto non era immorale, degradante ovvero disonesto, non comportava dispersione di competenze o di segreti professionali né svilimento della funzione svolta in principalità per la P.A .ed al contrario era utile nel tessuto sociale. Viceversa - prosegue il convenuto - una valutazione in concreto attraverso il principio di proporzionalità e modulazione della sanzione permetterebbe di recuperare una dimensione corretta della sanzione stessa, sicché manca dunque, nelle norme censurate, la graduazione riferita alla effettiva gravità della lesione, nel senso che la lesione del principio di esclusività può essere lievissima (come nel caso), anche se la somma è rilevante o viceversa. Quindi una sanzione automatica che violi il principio del bilanciamento degli interessi, il quale trova, a sua volta, il suo fondamento negli artt. 2,3,23 e 24 Cost., verrebbe anche a determinare un ingiustificato arricchimento di dubbia compatibilità con il principio di imparzialità e buon andamento di cui all' art.97 Cost.
Nell' ottica difensiva, dunque, la norma ha introdotto una sanzione espropriativa sui generis (che non trova precedenti, quanto a conseguenze, nell' ordinamento civile ed amministrativo), avente natura penale e dovrebbe essere disapplicata per contrasto con la normativa internazionale, in particolare con la Convenzione Internazionale dei Diritti dell'Uomo.
Quanto alla prescrizione l'eccezione sollevata dal convenuto è relativa alla circostanza che, a suo dire, nell'azienda ospedaliera era generalizzata la conoscenza dello svolgimento di c.d. doppio lavoro da parte degli infermieri, compreso il Servizio infermieristico, tecnico, riabilitativo aziendale (SITRA), posto in posizione sovraordinata rispetto agli infermieri stessi, presso cui vi era stata conoscenza della vicenda con relativo avallo. Pertanto, mancando, nell'ottica difensiva, una qualsiasi ipotesi di occultamento doloso, appare evidente, per il convenuto, l'intervenuta prescrizione della pretesa attorea per i compensi percepiti negli anni 2005-2011 (cfr. capo C dell'atto di costituzione).
Come già sostenuto nelle deduzioni, è stata ribadita dal convenuto la circostanza, come peraltro sarebbe emerso dalla indagine, che il numero di infermieri che svolgevano attività esterne era cospicuo e che i dirigenti ospedalieri ne erano perfettamente a conoscenza. Il convenuto C., inoltre - rimarca la difesa- aveva fatto richiesta di orario di lavoro part-time proprio per vicende legate anche al bisogno di maggiori guadagni, e tale necessità era nota all'Ospedale. L'attività extra moenia è stata svolta per anni ed alla luce del sole dato che veniva effettuata per primarie società che retribuivano le prestazioni nel rispetto delle norme fiscali, operando la ritenuta d' acconto sulle somme corrisposte.
Nel merito, il convenuto deduce l'insussistenza degli elementi integranti la responsabilità erariale, per difetto di dolo e di colpa grave; di contro, il predetto deduce la propria buona fede, avendo egli lavorato dal 1999 alle dipendenze ed al servizio dell'O.S.C., svolgendo il proprio lavoro, nel corso della sua lunga carriera, con senso del dovere ed affezione, con comportamento improntato al totale rispetto degli obblighi di diligenza e di fedeltà nonché dei più generali doveri di correttezza e buona fede.
Sotto altro profilo il menzionato patrono ha rappresentato che il proprio assistito aveva presentato a più riprese domanda di lavoro part-time (come risulta dalla documentazione allegata doc.5) ma l'azienda la ha respinta con una generica motivazione menzionando "" esigenze di servizio"". Il patrono di parte ha, altresì chiesto, in caso di condanna, di rideterminare l'importo da recuperare, anche con conseguente decurtazione, dall'intero importo lordo dei compensi, di quella parte relativa alla tassazione.
Ulteriore richiesta avanzata dal predetto è stata poi quella di una ulteriore riduzione dell'addebito, alla stregua di vari elementi di rilievo, quali l'assenza di divulgazione da parte dell'Ente Ospedaliero del regime autorizzatorio come delineato dall' art.53 comma 7 della L. n. 165 del 2001, la buona fede dell'infermiere, il curriculum, le condizioni economiche dello stesso, il leale comportamento del convenuto in sede disciplinare.
Conclusivamente il difensore ha chiesto, quindi, preliminarmente, di sollevare la prospettata questione di costituzionalità e di dichiarare l'intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento del danno; nel merito, il predetto ha chiesto volersi rigettare la richiesta della Procura attrice e mandare esente il convenuto dalla pretesa risarcitoria azionata; in via subordinata, ha chiesto volersi ridurre la condanna nei limiti delle somme effettivamente entrate nella sfera patrimoniale del convenuto, ovvero al netto delle ritenute fiscali, nonché ridurre ulteriormente le somme in via equitativa; in ulteriore subordine ha chiesto l'esercizio del potere riduttivo dell' addebito. In via istruttoria ha richiesto di ammettersi prova per testi sui capitoli come indicati nella memoria difensiva.
Nell'odierna udienza il P.M. ha ribadito sostanzialmente gli argomenti a sostegno della configurata responsabilità del convenuto, confermando le conclusioni già rassegnate, mentre il patrono del convenuto, a sua volta, si è riportato, con dovizia di argomentazioni, agli scritti depositati.
Tutto ciò premesso, la causa è stata assunta in decisione.
Ritenuto in
Motivi della decisione
Con l'atto di citazione in esame, la Procura regionale ha contestato al convenuto - dipendente a tempo pieno, con qualifica di collaboratore professionale sanitario-infermiere professionale dell'Azienda ospedaliera S.C.B. - di aver svolto attività lavorativa libero professionale non autorizzata presso società private, sostenendo che, a seguito di tale condotta, il medesimo avrebbe cagionato un danno all'ente di appartenenza per violazione del principio di esclusività del rapporto di lavoro pubblico e sarebbe stato obbligato al pagamento dell'ammontare dei compensi percepiti, ex articolo 53, comma 7, del D.Lgs. n. 165 del 2001, ivi disponendosi, infatti, l'obbligo del versamento dei compensi percepiti, accertati, nella fattispecie, pari ad 79.390,50, per le prestazioni non autorizzate, in conto entrata del bilancio dell'Amministrazione (nella specie : Azienda ospedaliera).
Il Collegio procede ad esaminare, prima di valutare il merito, le eccezioni sollevate nella comparsa di costituzione e difensiva citata, relative all'eccezione di legittimità costituzionale e di prescrizione come esposte nelle deduzioni e poi riproposte nella memoria difensiva medesima.
Tanto premesso, preliminarmente, il Collegio deve dunque esaminare l'eccezione di incostituzionalità dell'articolo 53, commi 7 e 7 bis del D.Lgs. n. 165 del 2001, sollevata dalla difesa del convenuto C..
A tal proposito, il Collegio osserva che, come già precisato dalla giurisprudenza di questa Corte, e, in particolare, di questa Sezione, tali norme non appaiono in contrasto con nessun parametro costituzionale. Infatti, la paventata incompatibilità di tali norme con l'articolo 36 Cost. non sussiste in concreto "... in quanto l'art. 53, co. 7, nell'imporre la refusione di quanto introitato contra legem, non viola affatto il precetto secondo cui "Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ....", ma regola legittimamente il prevalente buon funzionamento dell'azione pubblica e del leale ed imparziale rapporto tra datore pubblico e suoi dipendenti, in ossequio all'esclusività tendenziale sancita dall'art. 98 cost. Né la norma urta con l'art. 97 cost., come parimenti adombrato dal Tar Puglia, in quanto, al contrario, ne esalta e concretizza la portata, regolando e sanzionando un profilo lavoristico dell'impiego pubblico proprio in vista del buon andamento e della imparzialità dell'azione pubblica. In buona sostanza, l'aggiunta di una sanzione amministrativa a quella disciplinare rafforza la finalità sottesa all'art. 53, co. 7 ed all'art. 98 cost., ovvero prevenire e reprimere condotte che possono porsi in contrasto con il buon andamento e l'imparzialità della p.a. e dei suoi funzionari" (cfr. Sez. Lombardia n. 216 del 25/11/2014).
Non appare dunque fondatamente invocabile, al riguardo, la possibile violazione dell'art. 1 e dell'art. 36 della Costituzione, che - anche in considerazione dell'imperatività delle disposizioni del D.Lgs. n. 165 del 2001 qui in rilievo (cfr. l'art. 1, comma 3, di detto D.Lgs. n. 165 del 2001), per il quale "Le disposizioni del presente decreto costituiscono principi fondamentali ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione", nonché dell'art. 2, comma 2, del medesimo d. lgs., per il quale "le ... disposizioni contenute nel presente decreto ... costituiscono disposizioni a carattere imperativo" - non possono ritenersi dettati a protezione della remunerazione di prestazioni di lavoro eseguite, da parte di lavoratori pubblici, in carenza del previsto, ragionevole e indefettibile presupposto autorizzatorio (ex multis, cfr. Cons. Giust. .Amm.
Regione Siciliana, sede giurisd., 29 ottobre 2014, n. 591; Consiglio di Stato, Sez. III, 25 settembre 2013, n. 4745).
Invero, l'esercizio di attività extraprofessionale remunerata, in tutti quei casi in cui la legge impone la preventiva richiesta e il necessario rilascio di autorizzazione, comporta, secondo l'ordinamento vigente, ragionevoli sanzioni, disciplinari e pecuniarie, tese a tutelare proprio i sunteggiati principi costituzionali.
A ciò va aggiunto, sempre in relazione alle censure di incostituzionalità sollevate dalla difesa del convenuto, che la diversità tra impiego pubblico (basato sull'espletamento in posizione di terzietà di pubbliche funzioni) e lavoro privato, e la evidente diversità fattuale e giuridica tra i due regimi posti spesso impropriamente in comparazione (il primo, normato dall'art. 53, co. 7, D.Lgs. n. 165 del 2001, teso a tutelare l'esclusività del servizio pubblico reso alla quelle lavorative già equamente retribuite; il secondo, regolato dall'art. 2126 c.c. e dal già menzionato art. 36 Cost., teso a garantire la equa retribuzione al lavoratore privato che abbia reso la sua prestazione, ancorché in base a contratto nullo, rendono non assimilabili le due situazioni e dunque ben ragionevoli entrambi i differenziati trattamenti giuridici).
Allo stesso modo, il previsto versamento dell'intero compenso nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente sia con riferimento allo svolgimento di attività del tutto incompatibili con lo status di pubblico dipendente, sia con riferimento allo svolgimento di attività extraprofessionali autorizzabili, non vulnera il principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., costituendo, tale obbligo di versamento, solo il substrato patrimoniale sul quale vanno, poi, ad innestarsi, differenziatamente per singola fattispecie, sia la salvezza delle "più gravi sanzioni", sia la "responsabilità disciplinare" previste dal menzionato art. 53, comma 7, del D.Lgs. n. 165 del 2001, che costituiscono, nel quadro risarcitorio-sanzionatorio apprestato dal legislatore, valido e proporzionato elemento di specificità riferito e proporzionato alla gravità delle singole violazioni.
Ancora, al fine di sgombrare il campo da ulteriori dubbi di costituzionalità delle norme più volte menzionate, specie con riguardo all'affermato automatismo della sanzione in esame, risulta utile effettuare una ricognizione storica-temporale della fattispecie giuridica in trattazione alla luce di quelle che sono state in proposito le indicazioni fornite dalla giurisprudenza di questa Corte.
Infatti, va rilevato che quando ancora vigeva il solo comma 7 dell'art. 53, del D.Lgs. n. 165 del 2001 secondo cui "i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza. Con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell'autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto. In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti" parte della giurisprudenza di questa Corte riteneva, in ipotesi di condotte riconducibili alla norma sopra richiamata, non esservi provvista di giurisdizione atteso che "dal testo letterale della norma ... si evince che dalla violazione dell'obbligo di esclusività scaturisce un obbligo di corresponsione di somme di denaro che è posto, in primis, nei confronti del soggetto erogante e, in via subordinata, a carico del dipendente di una p.a.. Tale circostanza è significativa della natura esclusivamente privatistica dell'obbligazione di refusione, trattandosi del soddisfacimento di un interesse meramente lavoristico. Ciò vale a dire che la violazione del dovere di esclusività dà luogo ad un credito del datore di lavoro nei confronti dei soggetti obbligati (ente erogante e lavoratore), che non può in alcun modo ricondursi all'esercizio di funzioni pubblicistiche, come già ritenuto da questa Corte in analoghe fattispecie" (Sez. Lombardia n. 31 del 27 gennaio 2012; Sez. Trento, n. 66 del 15 dicembre 2010 e n. 55 del 3 dicembre 2009).
Dunque, solo successivamente, con l'aggiunta del comma 7-bis (introdotto dalla L. n. 190 del 2012) all'art. 53 del D.Lgs. n.165 del 2001, il legislatore ha precisato in via definitiva che "l'omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti". Trattasi di norma, quest'ultima, tuttavia reputata non innovativa, ma meramente ricognitiva di un pregresso prevalente indirizzo (Cass., sez. un., 2.11.2011 n. 22688) tendente a radicare in capo alla Corte dei Conti la giurisdizione in materia (ovvero sulla specifica violazione dell'obbligo di rifondere al datore della somma stabilita dal comma 7 dell'art. 53, D.Lgs. n. 165 del 2001) nel termine prescrizionale quinquennale, escludendo quella del giudice ordinario già in precedenza affermata da questa Sezione, come innanzi rilevato (cfr. C. conti, Sez. Lombardia, 27.1.2012 n. 31 cit., peraltro riformata in appello da C. conti, Sez. I, 13.3.2014 n. 406) sulla base di una qualificazione in chiave civilistica-lavoristica della pretesa azionata in giudizio. Ma a ciò occorre aggiungere che la medesima Suprema Corte ha successivamente chiarito, con l'ordinanza n. 19072 del 28 settembre 2016, che, nel dirimere la prospettata questione di giurisdizione, occorre distinguere tra il concetto di mera reversione del profitto conseguito (che "rappresenta una particolare sanzione ex lege al fine di rafforzare la fedeltà del dipendente pubblico e quindi prescinde dai presupposti della responsabilità per danno"), e quello di eventuale danno asseritamente conseguente alla condotta del pubblico dipendente, da valutare proprio in base a detti presupposti.
In realtà, tale profilo di danno è stato configurato, in sede di gravame, proprio nella fattispecie già in passato sottoposta all'esame di questa Sezione, di cui alla menzionata sentenza n. 31 del 2012, tanto che sia in sede di appello (cfr. Corte dei conti, Sezione I, sent. n. 406 del 2014), sia in sede di decisione del conseguente ricorso per cassazione (cfr. Corte di cassazione, SS.UU. civili, sent. n. 25769 del 2015), sia, comunque, nel precedente nomofilattico di cui alla sent. Cass. SS.UU. civili n. 22688 del 2011, l'incardinamento della giurisdizione presso la Corte dei conti è stato affermato proprio in quanto collegato alla prospettazione, così come nel caso di specie, di un "danno" conseguente alla violazione dell'obbligo di riversamento di cui all'art. 53, comma 7, del D.Lgs. n. 65 del 2001.
Escluso, dunque, che, nella fattispecie, si versi in una fattispecie di sanzioni pecuniarie irrogate dalla Corte dei conti, quale disciplinata ex artt. 133 e seguenti del D.Lgs. 26 agosto 2016, n. 174, deve essere osservato che la responsabilità erariale perseguita dalla novella di cui al comma 7-bis dell'art. 53 cit., proprio in quanto "la nuova norma si limita...a confermare un orientamento della giurisprudenza, sicuramente consolidato, in quanto affermato dalle Sezioni unite" (così Cass. SS.UU. sent. n. 25769 del 2015 cit.), costituisce una ipotesi di responsabilità tipica, in cui la somma da rifondere al datore (integrale riversamento di quanto percepito contra legem) è predeterminata per legge, ma la valutazione dell'ineseguito obbligo restitutorio e della connessa responsabilità soggiace, comunque, all'accertamento della sussistenza degli altri presupposti del giudizio di responsabilità erariale (in primis elemento soggettivo e nesso di causalità), nonché alla limitazione derivante dalla prescrizione quinquennale, e contempla la possibilità di modulare e di proporzionare l'entità della eventuale condanna esercitando il potere di porre a carico dei responsabili anche solo una parte del danno accertato o del valore perduto, previa valutazione delle singole responsabilità (c.d. potere riduttivo di cui all'art. 83 del R.D. n. 2440 del 1923, all'art. 52 del R.D. n. 1214 del 1934 e all'art. 19 del D.P.R. n. 3 del 1957).
Tale ultima affermazione è da ritenersi, comunque, in linea con precedenti di questa Corte (cfr. SS. RR. QM n. 12/2007; Sez. Lombardia n. 216 del 25 novembre 2014; Sez. Marche, 31.3.2015 n. 60; Sez. Toscana, 8.9.2014 n.159; Sez. Calabria 10.5.2013 n. 161; Sez. I, 13.3.2014 n. 406). Pertanto, risulta di tutta evidenza che nel caso come quello in esame risulta assolutamente improprio eccepire un "automatismo della sanzione", in quanto la delibazione sulla responsabilità del convenuto, senza autonoma e specifica valenza sanzionatoria, viene ad essere scrutinata alla luce del c.d. paradigma della responsabilità amministrativa, valutando, quindi, l'esistenza di tutti gli elementi costituitivi della stessa, compreso naturalmente l'elemento soggettivo, e, come già innanzi chiarito, ben può comportare l'esercizio del potere di ridurre l'eventuale addebito.
Di conseguenza, da tutto quanto sopra esposto, consegue che la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 53, commi 7 e 7 bis del D.Lgs. n. 165 del 2001 deve considerarsi come manifestamente infondata sotto tutti i vari profili affrontati dalla difesa del convenuto (in questi termini cfr. questa Sezione giurisd. Lombardia, n.223/2016).
Sempre in via preliminare, come già statuito con sentenza 25.11.2014 n. 216 della Sezione, va disattesa la pur suggestiva prospettazione della difesa circa la disapplicabilità da parte di questa Corte dell'art. 53, co.7 cit., in quanto introdurrebbe un precetto ontologicamente penale (una sorta, forse, di "confisca" o "sanzione espropriativa") non già a fronte di un fatto di reato, ma di una violazione di normativa meramente lavoristica. Ciò violerebbe, secondo la difesa del convenuto, l'art. 1 c.p. e l'art. 25 cost. ed urterebbe con indirizzi CEDU sull'illecito ontologicamente penale (secondo canoni comunitari e giurisprudenziali), seppur formalmente amministrativo secondo la legge nazionale, così configurando un precetto da disapplicare da parte del giudicante.
Osserva sul punto la Sezione, anche sulla base dei noti indirizzi CEDU (che traggono base dai c.d. "Engel criteria" secondo cui le sanzioni irrogate dagli Stati, anche se definite amministrative, sono da considerarsi, agli effetti della Convenzione, "accusa in materia penale" in virtù di tre criteri alternativi, e non cumulativi: a. la qualificazione giuridica della misura in causa nel diritto nazionale; b. la natura stessa della misura; c. la natura e il grado di severità della "sanzione") sul complesso distinguo e cumulo tra illecito penale ed illecito amministrativo e sull'approccio ontologico a tale tema, quanto segue.
Il tema del ne bis in idem (divieto di cumulo di sanzioni afflittive di natura sostanzialmente penale) è stato oggetto di pronunciamenti e rimessioni alla Corte Costituzionale (per la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma interna, sovente tributaria, in contrasto con la norma convenzionale della CEDU, e dei relativi protocolli, quale norma interposta ex art. 117, primo comma della Costituzione) e, in modo più pertinente, alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea quale questione interpretativa pregiudiziale ex art. 267 TFUE.
Tuttavia, nel caso in esame, l'art. 53, co. 7 regola un illecito chiaramente amministrativo, non solo formalmente, ma anche ontologicamente. Difatti, il diritto punitivo amministrativo, a cui è riconducibile l'art. 53, co. 7, in generale si differenzia dal diritto penale innanzitutto sul piano del diritto positivo: non sanziona un fatto-reato, non consegue all'accertamento giudiziale di un reato, non produce "effetti penali" non creando uno status di condannato fortemente afflittivo della personalità. Inoltre, mentre l'illecito penale (e le relative sanzioni, anche pecuniarie) abbraccia fatti di elevata offensività, l'illecito amministrativo riguarda offese minori di beni (anche costituzionali): orbene è palese ed evidente a chiunque che l'espletamento di una occasionale attività extra lavorativa non ha certo elevata offensività, per cui ben si presta ad una mera sanzione amministrativa (tra l'altro pecuniaria e non particolarmente afflittiva) e non penale, come invece suggestivamente propugnato dalla attenta difesa del convenuto, e, comunque, ben può dar luogo, per tutto quanto innanzi osservato, alla condanna per responsabilità amministrativa nella produzione di danno erariale, in sede di giudizio innanzi a questa Corte.
Quanto alla seconda eccezione, l'azione, osserva a questo proposito il Collegio, non è prescritta, in quanto l'invito a dedurre e la citazione sono stati emessi nel quinquennio consentito, e cioè solo successivamente alla comunicazione della violazione, da parte dei Carabinieri, in data 5.11.2014, all'Ospedale, costituendo detta comunicazione il momento della effettiva conoscibilità dei fatti.
Come già rappresentato dalla Procura attrice nell'atto introduttivo, il danno si manifesta all'esterno solo quando diviene oggettivamente percepibile e riconoscibile come tale. Pertanto, il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno decorre, ex art.2947, comma 1, dal momento in cui il pregiudizio può essere percepito come danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un soggetto, usando l'ordinaria diligenza (in questi termini Cassazione Sezioni Unite Civ. n. 581/08 e 583/08).
L' orientamento giurisprudenziale prevalente è infatti quello di ritenere che il dies a quo della prescrizione sia quello della effettiva conoscibilità dei fatti collegata non al P.M, titolare del potere di azione ma all'organo dell'amministrazione che ha l'obbligo di denuncia.
È invero evidente che l'O.S.C. non avrebbe potuto far valere il proprio diritto al risarcimento del danno prima che gli organi competenti fossero stati edotti dagli organi ispettivi preposti, del suo accadimento e della sua entità. (v. questa Sezione n.7/2014 e n.23/2014, Sezione Emilia-Romagna n. 137/2012).
L'eccezione di prescrizione risulta dunque infondata e va respinta.
Affrontando dunque il merito dei fatti di causa in dettaglio, si passa ad esaminare in concreto la dinamica fattuale alla luce della normativa richiamata, della documentazione versata in atti, fondata su riscontri materiali e sulla articolata rappresentazione come svoltasi in dibattimento.
Nel merito, la domanda della Procura regionale non può essere accolta.
In proposito, giova precisare che, come già innanzi precisato, all'articolo 53, comma 7, del D.Lgs. n. 165 del 2001 è stato di recente aggiunto il comma 7-bis, significativamente chiarente la valenza sostanzialmente "sanzionatoria" della disposizione medesima.
Recitano le norme in argomento, nell'aggiornato testo (rif.: articolo 1, comma 42, lett. c) e d) della L. n. 190 del 2012:
- articolo 53, comma 7: "I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza. Ai fini dell'autorizzazione, l'amministrazione verifica l'insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto d'interessi. Con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell'autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto. In caso di inosservanza del divieto, salve le più grave sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti";
- articolo 53, comma 7-bis: "L'omissione del versamento da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti".
Il Requirente ha sostenuto al riguardo che dall'impianto normativo emerge una presunzione legale di carattere generale in relazione all'incompatibilità degli incarichi esterni con i doveri d'ufficio, restando ininfluente l'accertamento della eventuale inosservanza dei doveri d'ufficio stessi, ovvero l'esistenza di situazioni di concreto conflitto con gli interessi e gli obiettivi della p.a., dovendo essere, dunque, la situazione di incompatibilità valutata in astratto, sul presupposto che la norma mira anche a salvaguardare le energie lavorative del dipendente al fine del miglior rendimento del medesimo sul luogo del lavoro.( in questo senso v. Consiglio di Stato ,Sezione V, 13 gennaio 1999,n.29).
Il Collegio non ignora che parte della giurisprudenza anche contabile è consolidata nel ritenere che un comportamento violativo in contrasto con le previsioni di legge in materia non possa che essere sanzionato (vedi anche questa Sezione sentenze n.223/2016, n.131/2016 ma anche in senso contrario la sentenza n.168/2017).
Pur tuttavia è anche vero che altra giurisprudenza ritiene, per contro, che le valutazioni circa la configurazione della colpa - come nel caso di specie-debbano essere condotte non tanto e non solo con riferimento alle disposizioni normative che disciplinano lo specifico settore, quanto piuttosto avuto riguardo alle particolari circostanze di fatto che hanno caratterizzato la vicenda (v. ex plurimis III^ Sezione Centrale d' Appello n.520/2010).
La richiesta di part-time presentata all' Ospedale era proprio finalizzata a consentire di svolgere, senza il carattere della continuità, un'attività lavorativa extra per far fronte sostanzialmente ad esigenze familiari. L'ospedale, tra l'altro, nel rigettare l'istanza, come si è visto, di svolgere l'orario part-time, non ha fornito alcuna particolare precisazione, né ha evidenziato un correlato divieto allo svolgimento di attività extra moenia..
A parere del Collegio, dunque, il convenuto non ha, né intenzionalmente, né con colpa grave, violato la norma in materia di esclusività ed incompatibilità degli incarichi.
Si è visto che l'azienda ospedaliera ha inflitto al convenuto ex art.2016 c.c. la sanzione della sospensione rispettivamente di giorni 20 nei due procedimenti disciplinari che lo hanno interessato (lieve se si pensi che si possono comminare fino a sei mesi di sospensione).
Anche sotto il profilo della incompatibilità e del conflitto di interessi il Collegio osserva che, come può agevolmente rilevarsi, l'attività svolta dal convenuto non è avvenuta in contrasto con tali norme. Nello svolgimento della propria attività presso l'Azienda O. il convenuto ha sempre tenuto una condotta particolarmente responsabile adattandosi ai turni consueti ed effettuando straordinari.
Era talmente un ottimo dipendente a tal punto che la struttura ospedaliera ha dato atto degli attestati di professionalità ricevuti da numerosi pazienti ed anche dopo i procedimenti disciplinari ha conferito al C., incarichi di docenza come risulta dalla documentazione allegata.
L'attività extra moenia non ha dunque inficiato il tempestivo e puntuale assolvimento dei compiti e doveri.
L'attività resa dal convenuto C., come ampiamente evidenziato nella memoria di costituzione e difensiva, veniva, comunque, resa nei confronti di soggetti non concorrenti con l'Ospedale e quindi non certamente in conflitto di interessi con quella svolta dall'azienda ospedaliera.
I principi generali che vietano lo svolgimento di attività extra lavorative senza autorizzazione hanno come ratio quella di evitare che il lavoratore effettui prestazioni lavorative in concorrenza ed in conflitto di interessi con l'ente presso cui lavora svolgendo attività in altre strutture e che dette attività producano uno stress psicofisico tale da riflettersi in negativo sulle prestazioni lavorative dell'operatore sanitario.
Si è visto che per ciò che concerne il convenuto le prestazioni esterne avvenivano al di fuori delle strutture sanitarie dell'azienda ospedaliera ed al di fuori dell'orario di lavoro senza arrecare pregiudizio alla regolarità del servizio Ciò posto, questo Collegio, condividendo le motivazioni e le conclusioni come rappresentate nella memoria difensiva, reputa potersi affermare, che nella peculiare fattispecie in esame non ricorrano gli elementi causali individuati per una affermazione di responsabilità amministrativa per colpa grave o per dolo. In particolare, con riferimento all' elemento soggettivo, non risultano in atti documenti o riscontri materiali tali di per sé sufficienti a provare la conoscenza e, comunque, la violazione in concreto da parte del convenuto, con consapevole dolo o con trascuratezza grave dei propri doveri, dello specifico divieto di effettuare prestazioni lavorative in difetto di autorizzazione da parte della P.A. di appartenenza.
Il convenuto C. agiva sulla base di una prassi diffusa tra tutti i suoi colleghi che avallava la convinzione -attendibilmente confermata dal SITRA- che non fosse necessaria una autorizzazione espressa e quindi tale da farlo agire ritenendo che l'implicito placet dell'ufficio da cui dipendeva direttamente fosse sufficiente. Di contro rilevano sia la chiaramente esternata volontà di eseguire attività lavorativa part time, sia il leale riconoscimento della condotta posta in essere, mai occultata, sia la carenza, anche sotto il profilo della valutazione del nesso di causalità, di attività formativa e divulgativa nella materia di cui trattasi a cura dell'amministrazione ospedaliera, sia il profilo collaborativo assunto dal convenuto in sede di indagini (nella fattispecie valorizzabile anche quale elemento di prova in ordine ad un corretto approccio con l'Amministrazione, da lui mai "raggirata").
Il Collegio respinge, pertanto, la domanda attrice nel rilievo della mancata prova del nesso di causalità ed in ogni caso per l'assenza di quella grave colpevolezza comunque necessaria per giungere ad una affermazione di responsabilità (in terminis, v. questa Sezione, n.106/2018)
Conclusivamente il Collegio ritiene che il convenuto vada assolto da ogni addebito e per l'effetto pone a carico dell' Azienda O. ai fini del rimborso previsto dall'art.3 comma 2 bis del D.L. 23 ottobre 1996, n. 543 , convertito con modifiche nella L. 20 dicembre 1996, n. 639, la somma che l'Amministrazione Ospedaliera è tenuta a pagare per onorari e diritti di difesa del convenuto nella misura di Euro1.500,00 comprensiva di diritti ed onorari oltre il 15% per spese generali, IVA e CPA, come per legge, tenuto conto della mancata presentazione della nota-spese.
P.Q.M.
La Corte dei Conti - Sezione Giurisdizionale Lombardia-come sopra composta
RESPINGE
la domanda della Procura Regionale, e per l'effetto assolve il convenuto G.I.C. da qualsiasi addebito.
Le spese si liquidano come da motivazione.
Manda alla Segreteria per gli adempimenti di rito.
Cosi deciso a Milano, nella camera di consiglio del 10 ottobre 2018.
Depositata in Cancelleria il 31 ottobre 2018.
31-03-2019 15:05
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