Leggi razziali: ebrei perseguitati dal fascismo. Riconoscimento da parte dello Stato dei benefici.
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 12 luglio – 12 ottobre 2018, n. 5896
Presidente Patroni Griffi – Estensore Di Carlo
Fatto e diritto
1. La controversia riguarda l'azione proposta dalla signora -omissis- per l'annullamento del provvedimento n. 93574 del 14.7.2014 adottato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Commissione per le provvidenze ai perseguitati politici antifascisti e razziali, recante il rigetto della richiesta avanzata dalla medesima in data 10 luglio 2013 per l'attribuzione, ai sensi della legge 8 luglio 1971, n. 541, dei benefici previsti dalla legge 24 maggio 1970, n. 336.
1.1. L'Amministrazione aveva ritenuto: a) insussistenti i requisiti previsti dall'art. 8, lett. d), del R.D.L. del 17.11.1938; b) mancanti gli altri elementi indicativi dell'appartenenza della signora -omissis- alla razza ovvero alla religione ebraica, quali “l'iscrizione a una comunità israelitica o una manifestazione di ebraismo fatta in qualsiasi modo dalla signora -omissis-”; c) non comprovato che all'epoca delle leggi razziali l'interessata fosse stata considerata dall'apparato statale quale appartenente alla razza ebraica e che, quindi, fosse stata soggetta alla concreta applicazione della normativa antiebraica.
1.2. La ricorrente impugnava la predetta delibera per “Violazione di legge in relazione all'art. 1 della Legge n. 17 del 1978, all'art. unico L. n. 541 del 1971 - Difetto di motivazione per travisamento dei fatti, sviamento e illogicità - Carenza di istruttoria”.
2. Il T.a.r. per il Lazio, Roma, Sezione Terza, con la sentenza n. 6614 dell'8 giugno 2016, accoglieva il ricorso e condannava le amministrazioni erariali alla refusione, in favore della ricorrente, delle spese di lite liquidate in complessivi euro 1000,00 oltre accessori di legge.
3. La Presidenza del Consiglio dei ministri e il Ministero dell'economia e delle finanze appellavano la sentenza affidandosi ad un unico motivo: “Infondatezza ed erroneità della sentenza impugnata per errata valutazione circa la sussistenza dei presupposti di applicabilità della normativa di cui alle leggi n. 17/1978 e n. 541/1971 – Violazione e/o falsa applicazione delle citate leggi n. 17/1978 e n. 541/1971; in particolare falsa applicazione dell'art. 1 della legge n. 17/1978 – Travisamento dei fatti”.
3.1. In sintesi, assumevano che il primo giudice:
a) non avrebbe tenuto in considerazione le argomentazioni difensive svolte nella memoria depositata l'11 gennaio 2016, corredata di documentazione, limitandosi ad esaminare le sole censure mosse dalla parte ricorrente;
b) avrebbe erroneamente interpretato le vigenti norme sul riconoscimento della “origine ebraica” del soggetto richiedente, non ancorandole al concetto di appartenenza alla “razza ebraica”, elaborato al tempo della vigenza delle cd. leggi razziali;
c) non avrebbe tenuto conto, in particolare, dell'esistenza di un documento ufficiale (il certificato rilasciato dalla Comunità ebraica di Torino) che esclude l'appartenenza della signora -omissis- alla detta comunità, nonché del fatto che la ricorrente, all'età di quattro anni, non aveva seguito il padre ebreo in fuga, ma aveva continuato a vivere insieme alla madre italiana, sotto il di lei cognome (-omissis-) presso alcuni parenti, anch'essi italiani;
d) si sarebbe erroneamente spinto a valutare la sussistenza di un fatto secondario (l'avere, la signora -omissis-, subito atti persecutori) senza prima avere accertato l'esistenza del fatto presupposto (la “ebraicità” del soggetto richiedente), entrando così anche nel merito dell'azione amministrativa.4. Si è costituita la signora -OMISSIS- chiedendo il rigetto dell'avverso gravame e l'accertamento del diritto della medesima ad ottenere la qualifica di ex perseguitata razziale, ai fini dell'applicazione delle leggi n. 541/1971 e n. 336/1970.
5. All'udienza pubblica del 12 luglio 2018 la causa è stata discussa e trattenuta dal Collegio in decisione.
6. L'appello è infondato.
6.1. La prima censura, con la quale si critica il mancato (integrale o parziale) esame del thema decidendum dedotto nel primo grado di giudizio ad opera della parte resistente, mediante la memoria difensiva, non ha pregio.
Al di là della pedissequa riproduzione grafica, nel corpo della sentenza, delle tesi difensive esposte dalle parti (riproduzione letterale che può anche mancare), è palese dalla mera lettura della pronuncia impugnata che il primo giudice ha avuto piena contezza dell'intera materia del contendere e delle questioni giuridiche sottese, svolgendo un ragionamento logico-giuridico onnicomprensivo e di senso compiuto su entrambe le tesi contrapposte.
Ciò è tanto vero che l'appellante ha potuto articolare specifici motivi di appello avverso la pronuncia, ripercorrendo in senso critico (e contrario) il ragionamento del primo giudice e mettendo in rilievo quelli che, secondo il suo avviso, ne sono stati i punti critici.
6.2. Anche la seconda censura, con cui si critica la scorretta interpretazione delle leggi vigenti nella delicata materia dei benefici ai perseguitati politici antifascisti o razziali, non ha pregio.
La legge n. 336 del 24.5.1970 riconosce taluni benefici in favore dei dipendenti civili di ruolo e non di ruolo dello Stato, compresi quelli delle amministrazioni e delle aziende con ordinamento autonomo, ai quali possa riconoscersi lo status soggettivo di “ex combattenti, partigiani, mutilati ed invalidi di guerra, vittime civili di guerra, orfani, vedove di guerre, o per causa di guerra, profughi per l'applicazione del trattato di pace e categorie equiparate” (artt. 1 e 2).
Il riconoscimento degli anzidetti benefici è stato esteso dalla legge 8 luglio 1971, n. 541 “anche agli ex deportati ed agli ex perseguitati, sia politici che razziali, assimilati agli ex combattenti” (articolo unico).
Il legislatore, con la legge n. 17 del 16 gennaio 1978, ha chiarito che:
“1. Ai fini dell'applicazione della legge 8 luglio 1971, n. 541, la qualifica di ex perseguitato razziale compete anche ai cittadini italiani di origine ebraica che, per effetto di legge oppure in base a norme o provvedimenti amministrativi anche della Repubblica sociale italiana intesi ad attuare discriminazioni razziali, abbiano riportato pregiudizio fisico o economico o morale. Il pregiudizio morale è comprovato anche dalla avvenuta annotazione di «razza ebraica» sui certificati anagrafici.
2. A norma dell'art. 6, legge 16 maggio 1967 n. 261, nell'esame delle domande la Commissione per le provvidenze ai perseguitati politico-razziali “può ritenere validi, a comprovare le persecuzioni e la insorgenza delle infermità, atti notori e testimonianze dirette, quando non sia possibile il reperimento di documenti ufficiali”.
Tale ultima disposizione scolpisce in maniera netta il significato da dare al concetto di “ebraicità” del soggetto richiedente, che è legato all'origine dello stesso richiedente e non al possesso di ulteriori (e non previsti, dalla legge) requisiti.
Il chiaro tenore letterale della norma esime, pertanto, da ulteriori e non richiesti sforzi esegetici: ai fini della legge n. 17/1978, è soggetto legittimato a presentare la richiesta di cui al combinato disposto delle leggi n. 336/1970 e n. 541/1971, colui che è cittadino italiano, che ha un'origine ebraica e che assume di essere stato oggetto di persecuzione in dipendenza della detta origine.
Al lume di ciò, la pretesa dell'Amministrazione di ancorare –invece- l'origine ebraica del richiedente alla nozione di “razza ebraica” contenuta nell'art. 8, lettera d), R.D.L. n. 1728 del 17.11.1938 (“è considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, appartenga alla religione ebraica, o sia, comunque, iscritto ad una comunità israelitica, ovvero abbia fatto in qualsiasi altro modo, manifestazioni di ebraismo. Non è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, che alla data del 1º ottobre 1938, apparteneva a religione diversa da quella ebraica”) è operazione logico-giuridica scorretta per due concorrenti motivi:
a) il primo motivo è di ordine esegetico: la norma posta dalla legge n. 17/1978 è chiara nella sua formulazione e perfettamente auto-applicativa, senza necessità di ulteriori o diverse specificazioni contenute in testi normativi diversi, tanto più se oggetto di intervenuta abrogazione;
b) il secondo motivo è di ordine sostanziale: è irragionevole e sproporzionata la pretesa dell'Amministrazione di far dipendere (in senso sfavorevole al richiedente) il possesso di un requisito per l'accesso a un beneficio di legge, dall'applicazione di una norma razziale (l'art. 8, lettera d, dell'abrogato R.D.L. n. 1728 del 17.11.1938) lesiva dei diritti fondamentali della persona e, soprattutto, rispetto alla quale le leggi post razziali n. 336/1970, n. 541/1971 e n. 17/1998 hanno inteso porre rimedio. Viene tradito, nella sostanza, lo spirito stesso della nuova disciplina.
La ratio legis dell'attribuzione del beneficio, infatti, riposa sulla necessità di compensare con attribuzioni economiche pregiudizi patiti da soggetti (cittadini italiani) per il fatto in sé di avere un'origine ebraica e rispetto ai quali il torto subito (fisico, economico o morale) è dipeso dall'applicazione di una norma di legge o dall'adozione di un atto amministrativo.
Sicché il pretendere, oggi, di far uso di concetti e di categorie giuridiche elaborate al tempo della vigenza delle leggi razziali, finirebbe inevitabilmente per implicare la perpetuazione, in senso sfavorevole all'interessato, dell'efficacia di definizioni giuridiche basate sul concetto di appartenenza alla razza e sorte all'unico scopo di discriminare tra di loro gli individui.
La riprova di ciò è contenuta nello stesso art. 8, lettera d), R.D.L. n. 1728 del 17.11.1938, la cui chiara formulazione manifesta che, in disparte i natali del soggetto (“colui che, pur essendo nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica”), ciò che rappresentava un disvalore giuridico per il legislatore dell'epoca era l'appartenenza del medesimo alla religione ebraica o la sua iscrizione ad una comunità israelitica ovvero l'avere fatto in qualsiasi modo una manifestazione di ebraismo.
Il legislatore del 1978, invece, del tutto coerentemente col sistema di benefici costruito con la legge n. 336 del 1970 e poi esteso nel suo ambito soggettivo di efficacia con la legge n. 541 del 1971, ha assunto quale unico presupposto (concorrente, ovviamente, con quello del possesso dello status di cittadino italiano) quello di avere un'origine ebraica, al di là e a prescindere dalla professione di fede, dalla formale appartenenza ad una comunità israelitica e dal compimento di atti di manifestazione di ebraismo.
Solo in tale prospettiva (e non già in quella, opposta, sostenuta dalle Amministrazioni appellanti) può cogliersi il valore di precedente conforme rappresentato dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 4580 del 2 agosto 2011: anche in quell'occasione la Sezione aveva avuto modo di motivare in ordine all'art. 8 dell'abrogato R.D.L. n. 1728 del 1938, ma solo al fine di precisare che l'iscrizione ad una comunità israelitica poteva ben essere apprezzata, sul piano probatorio, per qualificare come ebreo, tra gli altri, colui il quale fosse nato anche da un solo genitore appartenente alla razza ebraica, e non già al diverso scopo di elaborare un principio di diritto in base al quale inferire che l'origine ebraica dovesse ricostruirsi, sic et simpliciter, sulla base dell'abrogato decreto del 1938.
Va inoltre considerato che, in base alla richiamata norma del 1938, l'attribuzione della qualità soggettiva fonte del regime discriminatorio (l'appartenenza alla razza ebraica) avrebbe dovuto essere a contrario esclusa per tutti coloro che, nati da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, non appartenevano alla religione ebraica, non erano iscritti ad una comunità israelitica ovvero non avevano fatto in qualsiasi altro modo manifestazioni di ebraismo.
Sicché, sarebbe davvero ben strano far dipendere (oggi) il possesso di un requisito, in senso sfavorevole al richiedente, dalla presenza di condizioni estrinseche (il culto della religione, la formale iscrizione ad una comunità, la effettiva manifestazione di fede) che all'epoca delle stesse leggi razziali erano considerate indice di disvalore giuridico solo laddove sussistenti e non, invece, mancanti.
Dai documenti versati agli atti, risulta indiscutibilmente l'origine ebraica della ricorrente, figlia di padre ebreo costretto a lasciare il lavoro (era medico all'Ospedale le Molinette a Torino) e la famiglia e a fuggire, e di madre italiana, della quale utilizzò il cognome (-omissis-) in luogo di quello paterno (-omissis-), a tutti noto come cognome ebraico, sicché sotto tale profilo l'appello non merita favore.
6.3 Parimenti infondata è, infine, l'ulteriore censura con cui si critica l'invasione, ad opera del primo giudice, della sfera di competenza riservata all'Amministrazione, sull'assunto e nel presupposto che quest'ultimo avrebbe (altresì) statuito in ordine al possesso, in capo alla ricorrente, degli ulteriori requisiti previsti dalla legge per potere accedere al beneficio.
L'assunto non ha pregio.
Dal tenore formale dell'atto impugnato si evince chiaramente che l'Amministrazione ha provveduto, ai fini del diniego dell'accesso al beneficio, esclusivamente in ordine all'aspetto inerente all'origine ebraica del soggetto, non pronunciandosi affatto in ordine al possesso (o meno) di eventuali ulteriori requisiti di legge.
Pertanto (e conseguentemente) il primo giudice si è espresso solo sulla materia del contendere rimessa al suo vaglio, nei limiti dei motivi di ricorso, come si evince chiaramente anche dal dispositivo, limitato all'annullamento dell'atto impugnato e non già al (non consentito) accertamento dichiarativo del diritto ex sé al beneficio ai sensi dell'art. 34 del c.p.a..
7. In conclusione, l'appello va respinto, con salvezza degli ulteriori provvedimenti da assumere a cura dell'Amministrazione preposta, in relazione a eventuali ulteriori presupposti di legge per potere accedere al beneficio.
8. La regolazione delle spese di lite del presente grado, liquidate in dispositivo secondo i parametri di cui al decreto n. 55 del 2014 e s.m.i., segue il principio della soccombenza.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e condanna le Amministrazioni appellanti, in solido tra di loro, alla refusione delle spese di lite liquidate in favore dell'appellata nella misura di euro 3.000,00 oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A., se dovute, come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, comma 1 D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la persona dell'appellata.
19-10-2018 21:42
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