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Sentenza

Criteri di calcolo della retribuzione dei magistrati dopo la pronuncia della Cor...
Criteri di calcolo della retribuzione dei magistrati dopo la pronuncia della Corte Costituzionale.
TAR Lombardia, sez. IV, sentenza 20 febbraio - 10 maggio 2013, n. 1218
Presidente Giordano – Estensore Santise

Fatto

Il ricorrente - magistrato amministrativo in servizio presso Uffici giudiziari ricompresi nell'ambito di competenza territoriale del giudice adito (Tar Lombardia – sez. dist. di Brescia) - chiedeva al TAR la declaratoria di illegittimità delle decurtazioni del rispettivo trattamento retributivo, derivanti dalla applicazione delle disposizioni finanziarie contenute nei commi 2, 21 e 22 dell'art. 9 e dei commi 7 e 10 dell'art. 12 del d.l. n. 78 del 2010, domandando altresì il consequenziale riconoscimento del diritto al trattamento retributivo, senza tener conto delle riduzioni contestate. Il magistrato istante prospettava in particolare il vizio di violazione di legge sotto plurimi profili, nonché l'illegittimità costituzionale della normativa primaria.
Nel giudizio, costituitesi le Amministrazioni intimate, venivano disposti plurimi rinvii della pubblica udienza in attesa della decisione della Corte Costituzionale innanzi alla quale nel frattempo erano state devolute le questioni di legittimità costituzionale denunciate anche dal ricorrente.
Intervenuta la sentenza 223 del 2012 della Corte Costituzionale, la causa veniva trattenuta in decisione. Il Collegio riaggiornava la camera di consiglio al 20 febbraio 2013 e tratteneva definitivamente la causa in decisione.

Diritto

Come detto, con sentenza n. 223 dell'11 ottobre 2012 è intervenuta la sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale:
1) dell'articolo 9, comma 21, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, nella parte in cui dispone che, per il personale di cui alla legge 19 febbraio 1981, n. 27 (Provvidenze per il personale di magistratura) non sono erogati, senza possibilità di recupero, gli acconti degli anni 2011, 2012 e 2013 ed il conguaglio del triennio 2010-2012 e che per tale personale, per il triennio 2013-2015 l'acconto spettante per l'anno 2014 è pari alla misura già prevista per l'anno 2010 e il conguaglio per l'anno 2015 viene determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014; nonché nella parte in cui non esclude che a detto personale sia applicato il primo periodo del comma 21;
2) dell'articolo 9, comma 22, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui dispone che l'indennità speciale di cui all'articolo 3 della legge n. 27 del 1981, spettante al personale indicato in tale legge, negli anni 2011, 2012 e 2013, sia ridotta del 15% per l'anno 2011, del 25% per l'anno 2012 e del 32% per l'anno 2013;
3) dell'articolo 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui dispone che a decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2013 i trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, previsti dai rispettivi ordinamenti, delle amministrazioni pubbliche, inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT), ai sensi del comma 3, dell'art. 1, della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica), superiori a 90.000 euro lordi annui siano ridotti del 5% per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonché del 10% per la parte eccedente 150.000 euro;
4) dell'articolo 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui non esclude l'applicazione a carico del dipendente della rivalsa pari al 2,50% della base contributiva, prevista dall' art. 37, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato).
La Corte ha, inoltre, dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di costituzionalità sollevata in relazione all'art. 12, co. 7 del d.l. 78 del 2010, perché in nessuno dei giudizi a quibus è stata proposta domanda da parte di un magistrato in quiescenza, per qualunque causa, in epoca successiva al 30 novembre 2010, che abbia subito gli effetti della norma.
Successivamente è intervenuto il decreto-legge 29 ottobre 2012, n. 185 che, tuttavia, non è stato convertito in legge nel termine di sessanta giorni previsto dalla legge. Il Comunicato 31 dicembre 2012 (in Gazz. Uff., 31 dicembre 2012, n. 303) ha informato che, a decorrere dal 29 dicembre 2012, le disposizioni del presente decreto-legge sono state recepite dall'articolo 1, commi da 98 a 100 della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilita' 2013), pubblicata nel supplemento ordinario n. 212/L alla Gazzetta Ufficiale - serie generale - n. 302 del 29 dicembre 2012.
La norma citata recita che “al fine di dare attuazione alla sentenza della Corte costituzionale n. 223 del 2012 e di salvaguardare gli obiettivi di finanza pubblica, l'articolo 12, comma 10, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e' abrogato a decorrere dal 1° gennaio 2011. I trattamenti di fine servizio, comunque denominati, liquidati in base alla predetta disposizione prima della data di entrata in vigore del decreto legge 29 ottobre 2012, n. 185, sono riliquidati d'ufficio entro un anno dalla predetta data ai sensi della disciplina vigente prima dell'entrata in vigore del citato articolo 12, comma 10, e, in ogni caso, non si provvede al recupero a carico del dipendente delle eventuali somme gia' erogate in eccedenza”.
Il comma 99 precisa che “I processi pendenti aventi ad oggetto la restituzione del contributo previdenziale obbligatorio nella misura del 2,5 per cento della base contributiva utile prevista dall'articolo 11 della legge 8 marzo 1968, n. 152, e dall'articolo 37 del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato di cui al decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032, si estinguono di diritto; l'estinzione e' dichiarata con decreto, anche d'ufficio; le sentenze eventualmente emesse, fatta eccezione per quelle passate in giudicato, restano prive di effetti.
Orbene, tanto premesso, in relazione ai punti 1) e 2) del ricorso (relativo all'inapplicabilità dei commi 2, 21 e 22 dell'art. 9 e del comma 10 dell'art. 12 del d.l. n. 78 del 2010) lo stesso va accolto, in quanto sussiste il diritto del ricorrente alla percezione del trattamento retributivo, con esclusione dell'applicazione delle norme dichiarate incostituzionali.
Quanto alla richiesta di liquidazione degli interessi e rivalutazione, l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 18/2011, richiamando i criteri fissati dalla decisione n. 3 del 15 giugno 1998 della medesima Adunanza Plenaria ha stabilito che, in relazione ai crediti retributivi, per il periodo successivo al 31 dicembre 1994, sussiste il divieto di cumulo di interessi e rivalutazione. A partire, infatti, dal 1 gennaio 1995, per effetto del divieto di cumulo sancito dall'art. 22, comma 36 della legge n. 724 del 1994, spettano, sui ratei maturati da tale ultima data, solo gli interessi - calcolati sulla somma nominale secondo i vari tassi in vigore alla scadenza dei singoli ratei mentre la rivalutazione spetta a titolo di "maggior danno", solo se (e nella misura in cui) risulti superiore al tasso dell'interesse legale (c.d. eventuale differenziale tra interesse legale e il maggior danno da svalutazione), prova che naturalmente è posta a carico del dipendente pubblico.
Il credito di cui si tratta è di valuta, avendo ab origine ad oggetto una somma di denaro, pertanto la rivalutazione può astrattamente venire in considerazione come componente della pretesa vantata in termini di maggior danno da ritardato adempimento del debito, ai sensi dell'art. 1224, secondo comma, c.c..
In ordine alla prova che il creditore deve fornire per conseguire il ristoro del pregiudizio da svalutazione monetaria in caso di tardivo adempimento di debiti di valuta ed, in particolare, in ordine ai limiti all'utilizzabilità della prova presuntiva, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono recentemente intervenute sul punto, enucleando precisi principi di diritto, cui aderisce il Tribunale.
Si è precisato (cfr. Cassazione civile, Sezioni Unite, 16 luglio 2008, n. 19499 e giurisprudenza successiva, tra le tante si consideri Cassazione civile sez. III, 28 marzo 2012, n. 4959; Cassazione civile, sez. VI, ordinanza 8 marzo 2012, n. 3682) che: "a) nelle obbligazioni pecuniarie, in difetto di discipline particolari dettate da norme speciali, il maggior danno di cui all'art. 1224 c.c., comma 2 (rispetto a quello già coperto dagli interessi legali moratori non convenzionali che siano comunque dovuti) è in via generale riconoscibile in via presuntiva, per qualunque creditore che ne domandi il risarcimento - dovendo ritenersi superata l'esigenza di inquadrare a tale fine il creditore in una delle categorie a suo tempo individuate - nella eventuale differenza, a decorrere dalla data di insorgenza della mora, tra il tasso del rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi legali determinato per ogni anno ai sensi dell'art. 1284 cod. civ., comma 1; b) è fatta salva la possibilità del debitore di provare che il creditore non ha subito un maggior danno o che lo ha subito in misura inferiore a quella differenza, in relazione al meno remunerativo uso che avrebbe fatto della somma dovuta se gli fosse stata tempestivamente versata; c) il creditore che domandi a titolo di maggior danno una somma superiore a quella differenza è tenuto ad offrire la prova del danno effettivamente subito, quand'anche sia un imprenditore, mediante la produzione di idonea e completa documentazione, e ciò sia che faccia riferimento al tasso dell'interesse corrisposto per il ricorso al credito bancario sia che invochi come parametro l'utilità marginale netta dei propri investimenti; d) in entrambi i casi la prova potrà dirsi raggiunta per l'imprenditore solo se, in relazione alle dimensioni dell'impresa ed all'entità del credito, sia presumibile, nel primo caso, che il ricorso o il maggior ricorso al credito bancario abbia effettivamente costituito conseguenza dell'inadempimento, ovvero che l'adempimento tempestivo si sarebbe risolto nella totale o parziale estinzione del debito contratto verso le banche; e, nel secondo, che la somma sarebbe stata impiegata utilmente nell'impresa".
In definitiva, il maggior danno di cui all'art. 1224, comma 2, c.c. può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali, mentre al di fuori di tale meccanismo presuntivo deve essere provato in modo specifico dalla parte che ne chiede il ristoro.
Nondimeno la giurisprudenza già citata ha precisato che la sopravvenuta svalutazione monetaria non ne consente una rivalutazione d'ufficio, occorrendo una domanda del creditore di riconoscimento del maggior danno nei limiti previsti dall'art. 1224, comma 2, c.c. ed il soddisfacimento del relativo onere probatorio.
Spetta, quindi, al ricorrente richiedere il maggior danno da svalutazione fornendo la prova almeno presuntiva di questo e cioè almeno del tasso del bot non superiore all'anno (sul punto, testualmente, Cassazione civile, sez. III, 28 marzo 2012, n. 4959).
Nel caso di specie, la domanda di rivalutazione non è supportata sul piano probatorio, perché la parte ricorrente non ha dimostrato, neppure in via indiziaria, che nel periodo preso in considerazione il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali.
Ne deriva, pertanto, che la domanda relativa alla corresponsione degli interessi legali va accolta, mentre va rigettata la domanda di condanna al pagamento di somme a titolo di danno da svalutazione monetaria, non avendo il ricorrente provato un maggior danno.
Quanto al punto 3) del ricorso e, in particolare, alla contestata illegittimità dell'art. 12, co. 7 del d.l. 78 del 2010, vanno condivise le indicazione della Corte Costituzionale, che, nel dichiarare manifestamente inammissibile la questione di illegittimità costituzionale, ha precisato che non può sussistere alcun pregiudizio, né interesse attuale a ricorrere in capo ai magistrati che non abbiano presentato domanda di quiescenza. “Neppure risulta individuato alcun immediato pregiudizio subito dai magistrati in servizio, diverso dalla rateizzazione, che essi subiranno nel momento del collocamento a riposo per raggiunti limiti di età, il giorno successivo a quello del compimento del settantesimo anno di età o a quello fissato nel provvedimento di trattenimento in servizio, ovvero per anzianità di servizio, ovvero per dimissioni” (cfr., sent. Corte Cost. 223/2013 cit., punto 10).
Ne deriva che in relazione al punto 3) del ricorso va dichiarata l'inammissibilità dello stesso per carenza di interesse attuale ad agire.
Quanto al punto 4) del ricorso, in attuazione del comma 99 dell'art. 1, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 va dichiarata, invece, l'estinzione parziale del giudizio.
La circostanza che l'esito del presente giudizio è dipeso dalla pronuncia della Corte Costituzionale e non da un provvedimento ab origine illegittimo emesso dall'amministrazione resistente giustifica la compensazione integrale delle spese di lite tra le parti.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Quarta)
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto:
lo accoglie in relazione ai punti 1) e 2) accertando il diritto del ricorrente alla percezione del trattamento retributivo con esclusione dell'applicazione delle norme dichiarate incostituzionali, oltre interessi legali, come indicato in motivazione e, per l'effetto, condanna le amministrazioni resistenti alla corresponsione delle relative somme.
Respinge la domanda di condanna al pagamento di somme a titolo di danno da svalutazione monetaria;
In relazione al punto 3) del ricorso, lo dichiara inammissibile;
In relazione al punto 4) del ricorso dichiara l'estinzione parziale del giudizio.
Compensa integralmente le spese di lite tra le parti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Avv. Antonino Sugamele

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