Bando selezione servizio civile . Il requisito della cittadinanza italiana è discriminatorio.
Corte appello sez. lav. Milano Data: 22/03/2013
Numero: 2183
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
La Corte d'Appello di Milano, sezione lavoro, composta da:
Dott. ssa ANGIOLA SBORDONE Presidente
Dott. ssa LAURA TROGNI Consigliere
Dott. ssa MONICA VITALI Consigliere relatore
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile in grado d'appello avverso l'ordinanza ex art.44
D.Lgs. 2S6/98 emessa il 9 gennaio 2012 dal Tribunale di Milano est.
Bianchini discussa all'udienza collegiale del 20 dicembre 2012 e
promossa
DA
PRESIDENZA del CONSIGLIO dei MINISTRI, in persona del Presidente in
carica, rappresentata e difesa dall'Avvocatura dello Stato di
Milano, elettivamente domiciliata presso gli uffici della medesima,
in Milano, via F.
APPELLANTE
CONTRO
T.S.S., ASGI - ASSOCIAZIONE STUDI GIURIDICI sull'IMMIGRAZIONE e APN
- AVVOCATI PER NIENTE ONLUS, rappresentati e difesi dagli avv.
Alberto Guariso, Livio Neri e Daniela Consoli, elettivamente
domiciliati presso il loro studio, in Milano, viale R.M.
APPELLATI
procuratori delle parti, come sopra costituiti, così precisavano le
rispettive conclusioni
...omissis...
Fatto
FATTO E DIRITTO
Con ricorso depositato in data 23 gennaio 2012, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha proposto appello avverso l'ordinanza 9/12 gennaio 2012 del Tribunale di Milano che ha dichiarato il carattere discriminatorio dell'art. 3 del bando per la selezione di 10.481 volontari da impiegare in progetti di servizio civile in Italia e all'estero, pubblicato il 20 settembre 2011, nella parte in cui richiede il possesso della cittadinanza italiana tra i requisiti e le condizioni di ammissione, ed ha ordinato all'appellante di sospendere le procedure dì selezione, di modificare il bando nella parte in cui richiede il requisito della cittadinanza, consentendo l'accesso anche agli stranieri soggiornanti regolarmente in Italia, e di fissare un nuovo termine per la presentazione delle domande.
1 Con il primo motivo di gravame, l'appellante eccepisce il difetto di giurisdizione del giudice ordinario: in particolare, secondo l'Avvocatura dello Stato, il tribunale avrebbe invaso la sfera di competenza del giudice amministrativo quando ha ordinato la sospensione delle procedure di selezione e la modificazione il bando nella parte in cui richiede il requisito della cittadinanza, invece di ammettere, semplicemente, l'appellato alla procedura medesima.
In secondo luogo, nel merito, la Presidenza del Consiglio critica la decisione del primo giudice di affermare il carattere discriminatorio del bando di selezione di cui si discute, dal momento che lo stesso è stato posto in essere in attuazione dell'art.3 D.Lgs. 77/02 così che, formulando quest'ultimo una chiara riserva di cittadinanza, il tribunale avrebbe dovuto, semmai, rimettere alla Corte Costituzionale la questione della legittimità della citata disposizione, in ogni caso infondata, secondo l'Avvocatura dello Stato.
In particolare, l'appellante sostiene che, in base allo statuto del servizio civile nazionale, sono ammessi a svolgerlo solo i cittadini italiani: nella prospettazione del gravame - che richiama la sentenza della Corte Costituzionale 16 luglio 2004 n.228 -il servizio civile si configura come una modalità concorrente ed alternativa di difesa dello stato con mezzi ed attività non militari così da porsi quale forma spontanea di adempimento del dovere costituzionale di difesa della patria.
Secondo la tesi dell'Avvocatura, il riferimento all'art.2 Cost. - contenuto nella citata decisione n.228/04 - non potrebbe far ritenere che la finalità del servizio civile nazionale sia riconducibile al principio di solidarietà sociale, essendo del tutto infondata l'argomentazione - contenuta nel ricorso degli appellati e accolta dal primo giudice - dell'inesistenza di un collegamento normativo tra il servizio civile e la difesa della patria di cui all'art.52 Cost.
Al contrario, secondo la difesa dell'appellante, il rapporto di servizio civile nazionale è un rapporto di volontariato - in quanto tale del tutto estraneo al rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione - che ha natura pubblicistica, nel senso che è riconducibile alla materia della difesa e della sicurezza dello stato rispetto alla quale il requisito della cittadinanza prescritto dal legislatore trova ragion d'essere nella definizione del concetto di patria.
Sotto tale profilo, quindi, la previsione che limita l'accesso al servizio civile nazionale ai soli cittadini italiani non determinerebbe alcuna discriminazione, essendo assistita da una ragionevole correlabilità tra l'esclusione e la finalità eseguita dal legislatore.
Gli appellati T.S.S., ASGI - Associazione Studi giuridici sull'Immigrazione e APN - Avvocati Per Niente Onlus hanno resistito, concludendo, in principalità, per la conferma dell'ordinanza impugnata e, in subordine, occorrendo previa remissione alla Corte di Giustizia affinchè si esprima sull'eventuale contrasto tra l'art.3 D.Lgs. 77/02 e gli artt.18 TFUE e 34 Direttiva 2004/38, per la conferma dell'ordinanza impugnata limitatamente ai cittadini comunitari.
All'udienza del 20 dicembre 2012 la causa è stata discussa e decisa come da separato dispositivo di cui è stata data lettura.
Il gravame è infondato.
Esaminando, in primo luogo, l'eccepito difetto di giurisdizione con riferimento a quella parte dell'ordinanza in cui il primo giudice ha ordinato alla Presidenza del Consiglio di sospendere le procedure di selezione, di modificare il bando, consentendone l'accesso anche agii stranieri soggiornanti regolarmente in Italia, e di fissare un nuovo termine per la presentazione delle domande, le argomentazioni dell'appellante sono infondate. Invero, la giurisprudenza di legittimità ha avuto già modo di affermare che, in tema di tutela avverso atti o comportamenti discriminatori, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario non solo con riferimento al procedimento cautelare di cui all'art.44 D.Lgs. 25 luglio 1998 n. 286 e agli artt. 4 e 4 bis D.Lgs. 9 luglio 2003 n. 215, ma anche alla, successiva fase di merito, a nulla rilevando che il comportamento discriminatorio dedotto consista nell'emanazione di un atto amministrativo: in tali casi, il giudice deve decidere la controversia valutando il provvedimento amministrativo denunciato, disattendendolo, tamquat non esset, e adottando i conseguenti provvedimenti idonei a rimuoverne gli effetti (cfr.: Cass. 15 febbraio 2011 nr.3670; Cass. 30 marzo 2011 nr.7186).
Tale opzione intepretativa è stata confermata dal tenore letterale dell'art.28 D.Lgs. 1 settembre 2011 n.150, in vigore dal 6 ottobre 2011, secondo il quale "con l'ordinanza che definisce il giudizio il giudice può condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell'atto discriminatorio pregiudizievole, adottando anche nei confronti della pubblica amministrazione ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti" così che, al di là del fatto, già evidenziato in sede di discussione dell'istanza di sospensione della decisione impugnata, che la procedura concorsuale si era già sostanzialmente conclusa con l'avviamento al servizio civile degli ammessi, alcun dubbio in ordine alla giurisdizione del giudice ordinario sussiste.
Parimenti infondate sono le argomentazioni che la pubblica amministrazione espone per la riforma del provvedimento impugnato; invero, in primo luogo, va rilevato I come oggetto della presente controversia sia l'accertamento dell'eventuale carattere discriminatorio della previsione del requisito della cittadinanza italiana tra quelli indicati nel bando di cui si discute per l'accesso al servizio civile volontario.
Secondo la difesa dell'appellante, il rapporto di servizio civile nazionale sarebbe un rapporto di volontariato di natura pubblicistica, nel senso di riconducibile alla materia della difesa e sicurezza dello Stato rispetto alla quale il requisito della cittadinanza prescritto dal legislatore troverebbe ragion d'essere nella definizione del concetto di patria.
Richiamando in proposito la sentenza 16 luglio 2004 nr.228 della Corte Costituzionale, secondo la Presidenza del Consiglio, il servizio civile tende a proporsi come forma spontanea di adempimento del dovere costituzionale di difesa della patria: l'alternatività del servizio civile a quello militare non è venuta meno con il carattere adesso volontario di entrambi, "ben potendo essere adempiuto il dovere costituzionale di difesa della patria anche attraverso comportamenti di tipo volontario". Quindi, la nozione dì "difesa" di cui all'art. 117, 2° comma, lett d), Cost. è sostanzialmente identica a quella di "difesa della patria" di cui all'art. 52 Cost. e pertanto deve essere letta alla luce delle evoluzioni normative e giurisprudenziali che già avevano consentito di ritenere che "la difesa della patria" non si risolvesse soltanto in attività finalizzate a contrastare o prevenire un'aggressione esterna, potendo comprendere anche attività di impegno sociale non armato. "Accanto alla difesa "militare" che è solo una forma di difesa della patria, ben può dunque collocarsi un'altra forma di difesa, per così dire, "civile", che si traduce nella prestazione dei già evocati comportamenti di impegno sociale non armato" (Corte Cost. n.228/2004 cit.).
Ora, il tema del servizio civile è stato oggetto di una complessa evoluzione normativa e giurisprudenziale che ha trovato il suo punto di approdo nella L. 6 marzo 2001 n. 64 e nel D.Lgs. 5 aprile 2002 n. 77 che disciplinano l'istituzione del servizio civile nazionale volontario, dopo che la soppressione della leva obbligatoria ha comportato anche il venir meno dell'istituto dell'obiezione di coscienza al servizio militare.
La tesi esposta nel gravame dall'Avvocatura dello Stato presuppone che, pur nel mutato contesto normativo, l'effettivo fondamento dell'istituto di cui si discute sia ravvisabile all'interno dell'art. 52 Cost., in applicazione del generale principio di convertibilità dei doveri pubblici con prestazioni sostitutive di pari intensità: sul punto, occorre prima di tutto osservare che il richiamo ai principi fissati dalla Corte Costituzionale nella citata sentenza 228 non è dirimente, dal momento che la questione sottoposta all'attenzione del giudice costituzionale era relativa al riparto di competenze tra regione e provincia autonoma, da un lato, e stato, dall'altro, avendo sollevato le autonomie locali censure alla normativa statale nella parte in cui disciplina non solo in via generale - analogamente a quanto avviene per gli obblighi di leva - il servizio civile nazionale, bensì anche le concrete attività in cui si realizza e che rientrano in ambiti materiali di competenza regionale e provinciale.
La decisione della corte, invero, è volta a ribadire che il servizio civile è materia di competenza statale, con le connesse potestà normative ed organizzative, ed è in questo contesto che va letta l'affermazione secondo cui la difesa della patria non si risolve soltanto in attività finalizzate a contrastare o prevenire un'aggressione esterna, potendo comprendere anche attività di impegno sociale non armato.
Peraltro, il servizio civile non è più qualificabile come sostitutivo del servizio militare obbligatorio per gli obiettori di coscienza, una volta che il primo sia stato soppresso: infatti, non solo viene prestato su base esclusivamente volontaria, ma è anche orientato, ai sensi dell'art. 1 L.64 cit., a specifiche finalità che non si esauriscono nella difesa della patria con mezzi ed attività non militari, in alternativa ai servizio militare obbligatorio.
Come rilevato nella memoria difensiva degli appellati, le ulteriori finalità descritte dall'art. 1 cit., e cioè favorire la realizzazione dei principi costituzionali di solidarietà sociale, promuovere la solidarietà e la cooperazione a livello nazionale ed internazionale, con particolare riguardo alla tutela dei diritti sociali, ai servizi alla persona ed alla educazione alla pace tra i popoli, partecipare alla salvaguardia e tutela del patrimonio ambientale, forestale, storico artistico, culturale e della protezione civile della nazione, contribuire alla formazione civica, sociale, culturale e professionale dei giovani, sono prese in considerazione in modo disgiunto e non possono essere in alcun modo ricollegate alla nozione di difesa della patria con mezzi e attività non militari, riguardando, a tutti gli effetti, servizi civili ricollegabili al principio di solidarietà di cui all' art.2 Cost.
D'altro canto, la stessa Corte Costituzionale nella citata sentenza n. 228/2004 ha affermato che il dovere dì difendere la patria deve essere letto alla luce del principio dì solidarietà di cui all'art. 2 Cost., le cui virtualità trascendono l'area degli obblighi normativamente imposti, accogliendo un'accezione assai ampia del concetto di difesa della patria, da estendere al campo dei doveri di solidarietà economica e sociale, oltre che politica, e suscettibile dì tradursi in una sorta di "collaborazione civica" promossa e organizzata dallo stato che adempie al dovere di solidarietà di cui all'art.2 cit. e a quello di concorrere al progresso materiale e spirituale della società di cui all'art.4 II comma Cost.
Non solo: la corte ha anche sottolineato come le regioni e province autonome possano certamente istituire e disciplinare, nell'ambito delle proprie competenze, un servizio civile regionale o provinciale, distinto da quello nazionale, con natura diversa da quello nazionale e non riconducibile al dovere di difesa così da rendere manifesta l'autonomia concettuale dell'istituto rispetto al dovere di cui all'art.52 I comma Cost.
Sotto tale punto di vista, dunque, alcuna ragionevole correlabilità sussiste tra l'esclusione dei non cittadini stabilmente residenti nel territorio dello stato e la finalità perseguita dal legislatore.
D'altro canto, la irragionevolezza - ed il carattere discriminatorio che ne deriva della scelta di escludere gli stranieri permanentemente residenti dalla possibilità di accedere su base volontaria al servizio civile emerge anche dalla considerazione che l'adempimento dei doveri di solidarietà cui fa riferimento l'art.2 Cost. - e dei corrispettivi diritti sociali che in questi ultimi anni la Corte Costituzionale ha riconosciuto ai non cittadini - rende tutti coloro che partecipano alla comunità dei diritti e dei doveri in base ad una scelta non giuridicamente imposta del luogo ove stabilire la propria permanente residenza parti di una "comunità di diritti e doveri, più ampia e comprensiva di quella fondata sul criterio della cittadinanza in senso stretto" che"accoglie e accomuna tutti coloro che, quasi come in una seconda cittadinanza, ricevono diritti e restituiscono doveri "(cfr.: Corte Cost. 18 maggio 1999 n.172 in tema dì servizio militare degli apolidi).
Né in senso contrario può ipotizzarsi il rischio di un conflitto, anche se a livello potenziale, tra opposte lealtà, nel senso di quel dovere sociale che ogni cittadino adempie nei confronti della propria nazione: se, come visto, la finalità del servizio civile nazionale è anche quella di promuovere la solidarietà e la cooperazione a livello nazionale ed internazionale, con particolare riguardo alla tutela dei diritti sociali, ai servizi alla persona ed alla educazione alla pace tra i popoli, il conflitto di cui si discute è, per definizione, escluso.
In altri termini, il concetto di cittadinanza di residenza - quale emerge dalla citata sentenza n. 172/99 - comporta che lo scrutinio di ragionevolezza della scelta del legislatore di non consentire allo straniero la possibilità di partecipare attraverso l'autonomo istituto giuridico del servizio civile nazionale a quella "collaborazione civica" promossa e organizzata dallo stato che adempie al dovere di solidarietà di cui all'art.2 cit. e a quello di concorrere al progresso materiale e spirituale della società di cui all'art.4 II comma Cost. vada risolto in senso negativo.
La struttura del servizio civile medesimo, poi, conforta tale tesi, dal momento che gli enti presso i quali è svolto ed i progetti che questi realizzano perseguono finalità di solidarietà sociale del tutto estranee al concetto di difesa della patria.
A ciò si aggiunga che l'art.52 Cost. - analogamente all'art.51 in materia di accesso al pubblico impiego - è una norma di garanzia, nel senso che garantisce che a nessun cittadino possa essere riservato il provilegio di una esenzione immotivata dall'obbligo di leva, e non di esclusione, posto che la sua portata normativa non è di circoscrivere in negativo i limiti soggettivi del dovere costituzionale (cfr. Corte Cost. 18 maggio 1999 n. 172 cit)
In conclusione, la pronuncia impugnata, per tutte le ragioni che precedono, deve essere integralmente confermata.
La particolarità e novità della questione in diritto induce all'integrale compensazione delle spese del grado.
PQM
P.Q.M.
respinge l'appello avverso l'ordinanza 9 gennaio 2012 del Tribunale di Milano; compensa le spese del grado.
Milano, 20 dicembre 2012
17-05-2013 21:55
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