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Sentenza

Agente scelto Polizia penitenziaria. Decadenza dall'impiego per essersi assentat...
Agente scelto Polizia penitenziaria. Decadenza dall'impiego per essersi assentato dal servizio. Tossicodipendenza.
Consiglio di Stato  sez. IV   
Data:
    15/07/2013 ( ud. 19/02/2013 , dep.15/07/2013 ) 
Numero:
    3859

 

    Intestazione

                             REPUBBLICA ITALIANA                         
                         IN NOME DEL POPOLO ITALIANO                     
                            Il Consiglio di Stato                        
    in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)                             
    ha pronunciato la presente                                           
                                   SENTENZA                              
    sul ricorso numero di registro generale 9599 del 2010, proposto da:' 
    D. Ma. Pa. Ro.,, rappresentato e difeso dall'Avv. Arcangelo D'Avino e
    dall'Avv.  Annamaria Napolano, con domicilio eletto in Roma presso lo
    studio dell'Avv. Michele Della Bella, viale Liegi, 34;               
                                    contro                               
    Ministero     della     GiustiziaDipartimento    dell'Amministrazione
    Penitenziaria,  in  persona del Ministro pro tempore, costituitosi in
    giudizio,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  Generale  dello
    Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;       
    per la riforma                                                       
    della sentenza del T.A.R. per il Lazio, Sez. I, n. 8145 dd. 12 agosto
    2009,  resa  tra  le  parti  e concernente decadenza dall'impiego per
    assenza ingiustificata dal servizio                                  
    Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;                   
    Visto   l'atto   di   costituzione  in  giudizio  di  Ministero della
    GiustiziaDipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria;            
    Viste le memorie difensive;                                          
    Visti tutti gli atti della causa;                                    
    Relatore  nell'udienza  pubblica del giorno 19 febbraio 2013 il Cons.
    Fulvio  Rocco e uditi per l'appellante Pasquale Rosario D. Ma. l'Avv.
    Fausto  Buccelato  su  delega  dell'Avv.  Arcangelo  D'Avino  e per il
    Ministero della Giustizia l'Avvocato dello Stato Melania Nicoli;     
    Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.              


    Fatto
    FATTO e DIRITTO

    1.1.1. L'attuale appellante, Sig. Pasquale Rosario D. Ma., già Agente scelto nel Corpo della Polizia Penitenziaria, ha proposto sub R.G. 6677 del 2003 innanzi al T.A.R. per il Lazio avverso il decreto n. 014552092003/1399 dd. 10 aprile 2003, a lui notificato il 16 aprile 2003 e recante la pronuncia della sua decadenza dall'impiego a decorrere dal 21 novembre 2002, à sensi dell'art. 127, comma 1, lett. c) del T.U. approvato con D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3.

    Il medesimo D. Ma. estende tale impugnativa ad ogni altro atto presupposto e conseguente, ivi segnatamente comprese la diffida a riprendere servizio nel termine perentorio di giorni 10 precedentemente formulata nei suoi confronti e la nota Prot. n. 60 dd. 20 gennaio 2003 sempre formata nei suoi confronti.

    Va da subito precisato che nello stesso provvedimento recante la dichiarazione di decadenza dall'impiego si dà comunque contezza di analogo comportamento già a suo tempo tenuto dal medesimo D. Ma. ma per un periodo più breve e in relazione al quale era stato avviato un procedimento disciplinare nei riguardi dell'interessato medesimo.

    In tale primo grado di giudizio il D. Ma. ha rappresentato di essersi assentato dal 21 novembre 2002 per malattia, segnatamente a causa del suo stato di tossicodipendenza, e ha dedotto al riguardo violazione del D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, violazione dell'art. 44 del D.P.R. 17 gennaio 1990 n. 44, violazione degli artt. 2, 3, 7, 8 e 10 della L. 7 agosto 1990 n. 241, violazione degli artt. 2 e 32 Cost., eccesso di potere per erroneità dei presupposti, sviamento, ingiustizia manifesta, omessa istruttoria sulle proprie condizioni di salute, motivazione erronea ed incongrua, nonché erronea applicazione dell'art. 127, comma 1, lett. c) del T.U. approvato con D.P.R. 3 del 1957.

    Il D. Ma. ha chiesto - altresì - l'accertamento del proprio diritto a mantenere il proprio rapporto d'impiego, con conseguente emissione di ordine giudiziale all'Amministrazione intimata di riesame della propria posizione e concessione di aspettativa per malattia con ricovero presso una struttura specializzata per la cura della tossicodipendenza.

    1.1.2. Con motivi aggiunti di ricorso, proposti dopo la costituzione dell'Amministrazione intimata e il deposito da parte della stessa di ulteriore documentazione agli atti di causa, il D. Ma. ha - altresì - dedotto che la propria condotta rientra tra le infrazioni disciplinari e che, pertanto, l'Amministrazione medesima avrebbe ha errato nell'applicare nei suoi riguardi l'art. 127 del T.U. approvato con D.P.R. 3 del 1957, tanto più che per un fatto analogo occorso poco tempo prima era stato promosso nei suoi confronti.

    Il D. Ma. ha pure dedotto sviamento di potere perché nella nota del 5 febbraio2003, recante la richiesta del parere per il provvedimento di decadenza, l'Amministrazione medesima da un lato ha reputato che il comportamento da lui tenuto risultava comunque rilevante dal punto di vista disciplinare, e - dall'altro - ha reputato il comportamento medesimo quale causa di decadenza dall'impiego.

    Da ultimo, il D. Ma. ha censurato la circostanza per cui tutte la note propedeutiche alla declaratoria di decadenza sarebbero contraddistinte da un sostanziale ripetersi delle stesse considerazioni dell'ufficio remittente.

    1.2. Si è costituito in tale primo grado di giudizio il Ministero della Giustizia, concludendo per la reiezione del ricorso.

    1.3. Con sentenza n. 8145 dd. 12 agosto 2009 la Sezione I dell'adito T.A.R. ha respinto il ricorso del D. Ma., compensando integralmente tra le parti le spese di tale primo grado di giudizio.

    2.1. Con l'appello in epigrafe il D. Ma. chiede ora la riforma di tale sentenza, deducendo con un primo ordine di motivi error in iudicando per violazione del principio di cui all'art. 112 cod. proc. civ., eccesso di potere per erronea e carente motivazione, difetto di istruttoria, illogicità e perplessità.

    Con un secondo ordine di motivi lo stesso appellante ha quindi dedotto l'erronea applicazione dell'art. 127 del T.U. approvato con D.P.R. 3 del 1957, violazione ed erronea applicazione degli artt. 40 e 131 del D.L.vo 30 ottobre 1992 n. 443 e dell'art. 6, comma 2, del D.L:vo 449 del 1992, nonché eccesso di potere per erroneità dei presupposti e difetto di motivazione.

    Con un terzo e ultimo censure il D. Ma. ha dedotto, in subordine, l'avvenuta violazione sotto altro profilo dell'art. 127 del T.U. approvato con D.P.R. 3 del 1957, nonché eccesso di potere per erroneità e insussistenza di presupposti formali.

    2.2. Si è costituito in giudizio il Ministero della Giustizia, concludendo per la reiezione dell'appello.

    3. Alla pubblica udienza del 19 febbraio 2013 la causa è stata trattenuta per la decisione.

    3.1. Tutto ciò premesso, l'appello in epigrafe va respinto.

    3.2. Come detto innanzi, secondo l'appellante la sentenza di primo grado risulterebbe innanzitutto viziata per error in iudicando, violazione del principio di cui all'art. 112 cod. proc. civ.., eccesso di potere per erronea e carente motivazione, carenza di istruttoria, illogicità e perplessità.

    In tal senso il D. Ma. deduce di aver chiesto al giudice di primo grado di disporre una consulenza tecnica al fine di accertare - anche sulla base della documentazione medica da lui offerta - sia che il suo mancato rientro in servizio era dovuto ad una transitoria ma totalmente invalidante situazione di incapacità di autodeterminarsi propria dello allo stato di tossicodipendenza in cui egli in quel frangente versava, sia - sempre sulla base della documentazione medica da lui offerta - che egli a quel tempo fosse comunque definitivamente libero dalla droga avendo superato con profitto tutte le attività del programma di riabilitazione.

    In tal senso l'appellante contesta l'assunto del giudice di primo grado secondo il quale, per quanto segnatamente attiene "alla mancata applicazione delle norme a tutela del lavoratore tossicodipendente, non risulta che il ricorrente avesse mai formulato richieste di sottoporsi a programmi di recupero e di disintossicazione, per cui nessun onere istruttorio incombeva sui punta all'Amministrazione" (cfr. pag. 4 della sentenza impugnata).

    L'assunto medesimo, secondo il patrocinio del D. Ma., risulterebbe "erroneo e fuorviante in quanto se è vero, come è vero, che il ricorrente non era nella capacita di autodeterminarsi, non si poteva far ricadere sullo stesso la responsabilità di non aver seguito la prevista procedura per godere della sospensione dal servizio. Infatti, risulta documentalmente dimostrato che il ricorrente, mediante denuncia del suo stato di tossicodipendenza in sede disciplinare e mediante lo spontaneo inserimento in un percorso riabilitativo presso il Sert di Caserta, abbia soddisfatto i presupposti oggettivi e soggettivi previsti dalla norma a tutela del lavoratore tossicodipendente. Proprio tale circostanza si era chiesto di accertare ma sul punto non vi e stata alcuna pronuncia. Il T.A.R., infatti, avrebbe dovuto avere riguardo a tale richiesta istruttoria onde dare contezza del lamentato vizio di procedura riguardante il provvedimento di decadenza dall'impiego, oltre che superare una lacuna che viziava fortemente l'impugnato atto di decadenza dall'impiego" (cfr. pag. 3 e ss. dell'atto introduttivo del presente grado di giudizio).

    Il Collegio, per parte propria, non condivide la testè riferita censura dell'appellante.

    Non è in discussione, infatti, la circostanza che il D. Ma. fosse ammalato e che la propria infermità cagionata dalla sua tossicodipendenza gli abbia nella specie impedito di presentarsi in servizio.

    In disparte lasciando la contraddittorietà dell'assunto della perdurante malattia - per certo ancora grave se gli ha impedito di svolgere la propria attività lavorativa - rispetto all'affermazione che egli allo stesso tempo non assumeva più stupefacenti, risulta dirimente la circostanza che lo stesso D. Ma. non ha, comunque, seguito il procedimento previsto per fruire della sospensione dal servizio, né - soprattutto - ha mai formulato all'Amministrazione di appartenenza richieste di sottoporsi a programmi di recupero e di disintossicazione: circostanza, quest'ultima, che non consente pertanto - a differenza di quanto sostenuto dall'appellante medesimo - di far valere in suo favore l'asserita "equipollenza" tra la procedura da lui omessa e il suo spontaneo inserimento in un corso riabilitativo presso il Sert di Caserta, e che - soprattutto - non lo pone al riparo dalle conseguenze proprie dell'impedimento a riassumere in dipendenza di uno stato di malattia precedentemente non comunicato all'interno della procedura prevista, con conseguente impossibilità di escludere la sussistenza di quel comportamento colposo che, come si vedrà appresso, la giurisprudenza postula al fine di accertare gli elementi costitutivi della fattispecie della decadenza dall'impiego di cui all'art. 127, comma 1, lett. c, del T.U. approvato con D.P.R. 3 del 1957: cfr. al riguardo Cons. Stato, Sez. V, 24 ottobre 2002 n. 5851, citata appresso al Par. 3.3. della presente sentenza)

    3.3. Con il secondo ordine di censure l'appellante ha dedotto l'erronea applicazione dell'art. 127 del T.U. approvato con D.P.R. 3 del 1957, violazione ed erronea applicazione degli artt. 40 e 131 del D.L.vo 30 ottobre 1992 n. 443 e dell'art. 6, comma 2, del D.L:vo 449 del 1992, nonché eccesso di potere per erroneità dei presupposti e difetto di motivazione.

    In tal senso il D. Ma. contesta la fondatezza dell'assunto della sentenza resa in primo grado, secondo il quale "il presupposto per l'adozione del provvedimento ex art. 127, comma 1, lett. c) del T.U. approvato con D.P.R. 3 del 1957 per il personale della polizia penitenziaria è unicamente la mancata assunzione o riassunzione del servizio senza giustificato motivo ovvero l'assenza dall'ufficio per un periodo non inferiore a quindici giorni ove gli ordinamenti particolari delle singole amministrazioni non stabiliscano un termine più breve".

    Secondo la tesi del D. Ma. la disciplina contemplata dall'art. 127 testè riferito non sarebbe applicabile nei suoi confronti, posto che in suo luogo doveva per contro essere applicata la disciplina propriamente contemplata per il Corpo di Polizia Penitenziaria, potendo in tale contesto lo stesso art. 127 assumere una valenza residuale per le sole fattispecie non contemplate dal corpus normativo vigente per il Corpo medesimo.

    Premesso ciò, l'appellante evidenzia che l'art. 40 del D.L.vo 443 del 1992, anch'esso richiamato nella motivazione del provvedimento di decadenza dall'impiego impugnato in primo grado e- per l'appunto - rubricato "Cause di cessazione dal servizio" dispone, al comma 1, che "le cause di cessazione dal servizio del personale del Corpo di Polizia Penitenziaria sono quelle previste dal testa unico approvato con decreta del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957 n. 3 e successive modificazioni".

    Secondo lo stesso D. Ma. la disposizione ora riportata, "evidentemente al fine di colmare una momentanea lacuna legislativa" (così a pag. 5 dell'atto introduttivo del presente grado di giudizio), rimanda, per l'individuazione delle cause di cessazione dal servizio per la Polizia Penitenziaria - fino a quel momento non ancora disciplinate - trovava un logico riferimento nella legislazione di carattere generale applicata al personale dipendente dello Stato prima della c.d. "contrattualizzazione" del rapporto di pubblico impiego.

    L'appellante riconosce la medesima funzione - che asserisce del tutto "contingente" - anche all'art. 131 del medesimo D.L.vo 443 del 1992, laddove - per l'appunto - in via ancor più generale, e quale norma di "chiusura" del "sistema" si dispone che "per quanta non previsto dal presente decreto, al personale del Corpo di polizia penitenziaria si applicano, in quanto compatibili, le norme relative agli impiegati civili della Stato".

    Il D. Ma. reputa, quindi, che la disciplina applicabile nella specie sia contenuta nel testo normativo recante la "determinazione delle sanzioni disciplinari per il personale del Corpo di Polizia Penitenziaria e per la regolamentazione dei relativi procedimenti, a norma dell'art. 21, comma 1, della L. 15 dicembre 1990 n. 395", ossia il D.L.vo 30 ottobre 1992 n. 449, il cui art. 6, comma 2, lett. g), dispone che al dipendente sia inflitta la sanzione della destituzione, all'esito di regolare procedimento disciplinare (per l'appunto, nella specie, non tenutosi) "per omessa riassunzione del servizio, senza giustificato motivo, dopo cinque giorni di assenza arbitraria".

    A tale proposito lo stesso D. Ma. l'illogicità e la contraddittorietà del comportamento tenuto al riguardo dalla stessa Amministrazione in quanto per omologa assenza ingiustificata tra il 13 agosto 2002 e il 20 settembre 2002, ossia protrattasi per 39 giorni, egli riferisce di aver ricevuto una contestazione d'addebito da parte della stessa Amministrazione e che il conseguente procedimento disciplinare avviato nei suoi confronti - segnatamente per la mancanza di cui all'anzidetto art. 6, comma 2, lett. g) del D.L.vo 449 del 1992 - si è concluso con l'irrogazione a suo carico della sanzione della sospensione temporanea dal servizio.

    Anche tale prospettazione del'appellante non è condivisa dal Collegio.

    Sul punto il giudice di primo grado ha rilevato che con nota del 28 dicembre 2002 l'Amministrazione aveva ritualmente provveduto a diffidare il D. Ma. a riprendere il servizio, con l'esplicita avvertenza che, in difetto, si sarebbe proceduto à sensi dell'art. 127 del TU approvato con D.P.R. 3 del 1957 e che, pertanto, il comportamento posto in essere dal medesimo D. Ma. rientra indubitabilmente nella fattispecie prevista dall'art. 127 del TU 3/1957, dovendo considerarsi accertata - in difetto della sua ottemperanza alla diffida anzidetta - la sua volontà di interrompere il rapporto di lavoro.

    In conseguenza di ciò, sempre secondo il T.A.R., "una volta riscontrata una causa di decadenza dal servizio non vi era ragione di avviare per gli stessi fatti un procedimento disciplinare" (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata).

    Il provvedimento con cui viene dichiarata la decadenza dall'impiego di un dipendente per ingiustificata e prolungata assenza dal servizio assume - di per sé - natura meramente dichiarativa e di per sé vincolata all' accertamento dell'oggettiva circostanza dell'assenza del dipendente, il quale - altresì - non abbia fornito all'Amministrazione di appartenenza congrue giustificazioni della circostanza medesima (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 21 settembre 2010 n. 7007).

    Deve pertanto escludersi che il provvedimento di decadenza dal servizio sia disciplinare e debba quindi essere emanato a conclusione di un procedimento disciplinare, dovendo peraltro sempre essere adottato previa comunicazione all'interessato dell'apertura del relativo procedimento e - quindi - previa acquisizione e valutazione delle difese dell'interessato, posto che la costitutività del provvedimento di decadenza rende operante una clausola risolutiva espressa del rapporto d'impiego che si riconnette all'accertamento di a due elementi coessenziali, ossia la circostanza oggettiva dell'assenza ingiustificata e il profilo soggettivo dell'imputabilità del comportamento, quantomeno a titolo di colpa (cfr. ibidem, nonché Cons. Stato, Sez. V, 24 ottobre 2002 n. 5851).

    Con ciò non si nega la sussistenza, particolarmente nell'ordinamento del pubblico impiego non militare e "noncontrattualizzato" (cfr. art. 3 del T.U. approvato con D.L.vo 30 marzo 2001 n. 165) di fattispecie di allontanamento dal servizio che nella contemporanea applicazione dell'istituto della decadenza dall'impiego di cui all'art. 127, comma 1, lett. c) del T.U. approvato con D.P.R. 3 del 1957 sono anche sanzionate in via disciplinare con graduazione della sanzione stessa in dipendenza della durata dell'assenza ingiustificata: ma, in disparte dal concorrente esercizio della potestà disciplinare, l'Amministrazione prende atto ex lege della circostanza dell'assenza ingiustificata se si è prolungata oltre i termini al riguardo previsti e, previo contraddittorio con l'interessato, trae dalla circostanza concludente dell'allontanamento le dovute conseguenze.

    Detto altrimenti, l'istituto della decadenza dal servizio ex art. 127, comma 1, ddel T.U. approvato con D.P.R. 3 del 1957 trova fondamento nella necessità di salvaguardare il buon andamento dell'azione amministrativa rispetto a plateali interruzioni del sinallagma nel rapporto con il dipendente a quest'ultimo addebitabili e che non solo non consentono la prosecuzione del rapporto medesimo ma impongono - anche a prescindere dal concomitante rilievo disciplinare della vicenda - il rapido superamento dei problemi di funzionalità degli uffici privati dall'apporto lavorativo del dipendente rimasto assente.

    Viceversa, le sanzioni disciplinari applicabili nei riguardi del personale rimasto arbitrariamente assente dal servizio presuppongono, anche se potenzialmente consistenti nella risoluzione del rapporto, un comportamento del dipendente che, pur nella sua arbitrarietà, è reputato non tale da imporre una valutazione immediata da parte dell'Amministrazione in ordine alla funzionalità dei propri uffici o, comunque, abbisognevole di adeguati chiarimenti circa l'intensità della colpa del dipendente medesimo.

    In tale contesto, pertanto, non risulta intrinsecamente proponibile la tesi dell'appellante secondo la quale l'applicazione dell'art. 127, comma 1, lett. c) del T.U. approvato con D.P.R. 3 del 1957 risulterebbe nella specie inibita per la sopravvenuta entrata in vigore della disciplina sanzionatoria di cui al D.L.vo. 449 del 1992, trattandosi di istituti comunque diversi; senza sottacere, poi, che quest'ultimo D.L.vo è entrato in vigore contemporaneamente allo stesso D.L.vo 443 del 1992, disciplinante l'ordinamento generale del Corpo, nell'ambito del quale non è venuto meno - a differenza di quanto affermato dallo stesso D. Ma. - la clausola di rinvio, per tutto quanto non diversamente disposto, alla disciplina contenuta nel T.U. approvato con D.P.R. 3 del 1957.

    3.4. Con l'ultimo e subordinato ordine di motivi il D. Ma. deduce l'erroneità e l'inesistenza dei presupposti per applicare nella specie l'art. 127, comma 1, lett. c) del D.P.R. 3 del 1957.

    A tale riguardo egli contesta la sentenza impugnata laddove riferisce la circostanza "che con nota del 28 dicembre 2002 il ricorrente è stato diffidato dal riprendere servizio, con l'avvertenza che decorso inutilmente il termine concesso si sarebbe proceduto ai sensi dell'art. 127 del T.U. impiegati civili della Stato. Tale diffida e stata inviata con raccomandata A/R ritirata in data 7 gennaio 2003. Non esiste pertanto la denunciata violazione dell'art. 7 della L. 241 del 1990" (cfr. pag. 4 della sentenza impugnata).

    L'appellante afferma che la raccomandata in questione non è stata consegnata sue mani, ma a suo padre, come del resto consta dalla stessa cartolina di recezione del plico raccomandato e che pertanto la comunicazione della diffida stessa non potrebbe reputarsi utilmente avvenuta nei suoi confronti, à sensi dell'art. 104 del T.U. approvato con D.P.R. 3 del 1957 o - anche - della sostanzialmente omologa disciplina contenuta nell'art. 12 del D.L.vo 449 del 1992.

    Anche tale prospettazione non può trovare accoglimento, in quanto la natura non disciplinare del procedimento di cui all'art. 127, comma 1, lett. c) del T.U. 3 del 1957 rende in linea di principio inapplicabili in via puntuale le disposizioni dettate per i procedimenti deputati all'irrogazione delle sanzioni disciplinari, sia nel contesto del medesimo T.U. 3 del 1957, sia in quello del D.L.vo 449 del 1992.

    L'utilizzo della raccomandata quale strumento di inoltro della diffida può, peraltro,avvenire mediante il recupero in via analogica della disciplina contenuta nell'art. 104 del T.U. 3 del 1957, il cui comma 2 dispone peraltro nel senso che se la consegna della comunicazione destinata al dipendente non è potuta avvenire di persona, la comunicazione medesima avviene a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento.

    A tale proposito va tuttavia rimarcato che nell'ipotesi di consegna dell'atto a persona di famiglia che conviva anche temporaneamente con il destinatario, il rapporto di convivenza, almeno temporanea, può essere presunto sulla base del fatto che il familiare si sia trovato nell'abitazione del destinatario ed abbia preso in consegna l'atto a quest'ultimo diretto, onde non è sufficiente per smentire l'inidoneità della consegna la mancata indicazione della qualità di convivente sull'avviso di ricevimento della raccomandata, mentre ogni indagine circa l'identificazione del luogo in cui è stata eseguita la consegna stessa resta assorbita dall'anzidetta presunzione di convivenza, la quale può essere superata soltanto dalla prova, posta a carico del destinatario dell'atto, dell'insussistenza del rapporto di convivenza con il familiare consegnatario (così, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 27 ottobre 2011 n. 5747, nonché Cass. Civ., Sez. I, 22 novembre 2006 n. 24852).

    4. Le spese e gli onorari del presente grado di giudizio possono peraltro essere integralmente compensati tra le parti.
    PQM
    P.Q.M.

    Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

    definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

    Compensa integralmente tra le parti le spese e gli onorari del presente grado di giudizio.

    Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

    Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 febbraio 2013 con l'intervento dei magistrati:

    Giorgio Giaccardi, Presidente

    Sergio De Felice, Consigliere

    Raffaele Greco, Consigliere

    Diego Sabatino, Consigliere

    Fulvio Rocco, Consigliere, Estensore

    DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 15 LUG. 2013
Avv. Antonino Sugamele

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