La pubblica illuminazione nell’attuale quadro normativo.
1. Introduzione.
La pubblica illuminazione, oggi, costituisce certamente uno dei settori elettivi – quasi una sorta di cartina di tornasole – per verificare ed analizzare la capacità dell'Amministrazione Pubblica di adeguare la propria azione al mutare del tempo, delle condizioni e delle criticità, o anche opportunità, proprie della (spesso) frenetica evoluzione che connota il mondo moderno.
Benché altri servizi (si pensi soltanto alla gestione dei rifiuti ovvero al servizio idrico) impegnino maggiormente le attenzioni non soltanto del dibattito pubblico ma anche dell'azione amministrativa degli Enti locali, i più (forse) ancora ignorano l'importanza della pubblica illuminazione nell'ambito del panorama complessivo dei servizi classicamente erogati dall'Amministrazione:
· si pensi al tema della obsolescenza e dello stato di conservazione degli impianti e, conseguentemente, della sicurezza dei cittadini.
Di recente si sono verificati alcuni episodi in cui la caduta dei classici “pali della luce” ormai in degrado ha causato danni a persone e/o cose, fino addirittura, in alcuni più sfortunati casi, a determinare la morte di ignari passanti;
· si pensi, inoltre, al tema – ancora colpevolmente trascurato o sottovalutato – dell'inquinamento luminoso, non soltanto delle città più grandi ma anche dei piccoli centri urbani.
A riguardo non si può non evidenziare come – sia i soggetti istituzionalmente preposti alla tutela dell'ambiente che le associazioni che si propongono di sollecitare una maggiore attenzione e sensibilità ai temi ambientali – siano certamente molto indietro rispetto alle problematiche e le criticità poste dall'inquinamento luminoso.
· si pensi, ancora, al tema dei costi del servizio di illuminazione pubblica anche in rapporto al più generale contesto dello stato della finanza degli Enti locali.
Si tratta, in tutti i casi, di costi elevatissimi e crescenti in quanto dipendenti, da un lato, all'incremento del costo dell'energia, dall'altro lato, all'incremento degli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria degli impianti.
· si pensi, infine, al tema dell'adeguamento tecnologico degli impianti di pubblica illuminazione ed alla possibilità di sfruttare le opportunità riconnesse ad interventi preordinati al risparmio energetico, nonché ad inserire tali interventi in più ampi progetti finalizzati all'implementazione di smart cities.
Appare dunque evidente – già solo dai brevissimi cenni sopra anticipati – come, nella maggior parte dei casi, il servizio di pubblica illuminazione si presenti quasi come una medaglia a due facce:
· da un lato, le criticità e i problemi propri di un sistema molto spesso antico, obsoleto, inadeguato, fatiscente e per questo anche molto costoso sia in termini gestionali che manutentivi che, addirittura, in termini di sicurezza e di impatto ambientale;
· dall'altro lato, le potenzialità e le opportunità proprie della modernità, del progresso tecnologico suscettibili di concretizzarsi attraverso interventi di adeguamento degli impianti esistenti in grado di elevare gli standard di sicurezza e gestionali, di minimizzare gli impatti ambientali, di ridurre i costi.
Probabilmente si comprende meglio allora la premessa iniziale relativa alla possibilità che il servizio di pubblica illuminazione finisca con l'essere un avamposto privilegiato dal quale scrutare e verificare la capacità del sistema pubblico locale di riuscire a superare il difficile momento che lo impegna (al pari, del resto della società italiana e globale), della propria capacità di reazione rispetto alle difficoltà del momento, di trasformare le criticità in potenzialità, i problemi in opportunità.
2. La necessità di un inquadramento giuridico.
Rispetto a tale obiettivo d'indagine – e senza volere “dare i numeri” del settore – non v'è dubbio che (molto) poco è stato fatto e che, pertanto, tanto (forse quasi tutto) è ancora da fare.
Non vogliamo avventurarci in una disamina – che sarebbe oltremodo articolata e complessa – circa le cause dell'attuale stato di cose.
Pur non ritenendola certamente né la prima né la principale causa che ha impedito la mancata modernizzazione dell'intero settore, riteniamo tuttavia – per quanto di nostro specifico interesse – che, certamente, la mancanza di un quadro normativo dai contorni certi, chiari e ben definiti abbia purtroppo impedito (in modo forse anche significativo) una vera spinta propulsiva del settore di riferimento.
Si pensi solo alla difficoltà di ricostruire – non (sol)tanto sul piano teorico-concettuale – i temi delle procedure per l'affidamento degli interventi di adeguamento tecnologico degli impianti di pubblica illuminazione e della relativa gestione; o ancora all'estrema varietà di modelli procedurali che, nella prassi, vengano adoperati per i predetti affidamenti: appalti (ora di lavori ora di servizi), concessioni di costruzione e gestione, di servizi, project financing, ed ancora procedure di evidenza pubblica, procedure negoziate, affidamenti diretti a società a capitale pubblico.
Senza volere entrare nel merito della legittimità o anche dell'opportunità di utilizzo di taluni dei modelli sopra accennati, è di tutta evidenza che l'estrema varietà dei medesimi non possa assurgere – di per sé – a criticità del sistema ma semmai costituire un'opportunità (nella misura in cui consenta di individuare il modello più confacente ed adeguato alle specificità proprie del caso concreto).
Ciò non di meno, non possiamo fare a meno di rilevare come – probabilmente per la mancanza delle giuste chiavi di lettura del sistema e della conseguente incapacità di lettura del medesimo da parte della maggior parte degli uffici dei Comuni italiani – l'esistenza di un quadro giuridico dai contorni così articolati da diventare frammentari e disomogenei, abbia prodotto due tipi di situazioni, entrambe di segno assolutamente negativo:
· da un lato, situazioni di inerzia nelle quali i Comuni – magari trincerandosi dietro la complessità del settore d'intervento e dei rischi connessi all'esecuzione di azioni non adeguate – hanno preferito mantenere lo status quo, con tutte le criticità sopra segnalate;
· dall'altro, l'adozione di scelte non adeguate al contesto, incapacità di regolazione del settore e raggiungimento di risultati negativi in termini di efficacia ed efficienza dell'intervento o rivelatisi diseconomici per gli Enti locali.
E' di comune consapevolezza la circostanza che – specie a fronte di settori d'intervento in qualche modo nuovi che presentano connotati di delicatezza e complessità qual è quello in esame – un quadro di riferimento connato nei termini sopra descritti, finisca col limitare fortemente la possibilità di diffusione e sviluppo di modelli innovativi e si traduce in una vera e propria “perdita di chance” sia per le P.A. che per gli operatori del settore.
Una corretta individuazione dei modelli procedurali e gestionali per il servizio di pubblica illuminazione presuppone, quindi, uno sforzo di analisi e razionalizzazione delle vigenti disposizioni, al fine di individuare un quadro normativo di riferimento dai contorni chiari e certi.
Punto di partenza di tale progetto deve, necessariamente, essere la constatazione che, allo stato, non esiste una disciplina organica ed omnicomprensiva relativa al servizio di pubblica illuminazione, che fornisca alle amministrazioni ed agli operatori di mercato delle indicazioni certe e stabili in ordine alle modalità di affidamento e gestione del servizio, al regime della proprietà degli impianti, ecc.
In questo contesto, pur auspicando un intervento legislativo – compatibile con il quadro costituzionale in ordine al riparto di competenze tra normativa statale e regionale – possa mettere ordine nella materia, fungendo altresì da fattore propulsivo verso quelle opportunità che sono connaturate agli interventi infrastrutturali nel settore, non possiamo fare a meno di rilevare la necessità che, nelle more, l'interprete si faccia carico di uno sforzo di ricostruzione e di sintesi dell'intera materia.
In casi del genere si rende necessario individuare le norme che possono – rectius devono – essere ritenute comunque applicabili alla fattispecie in commento ovvero ricorrere all'analogia con altri settori con i quali quello della p.i. ha evidente “parentela” (un esempio su tutti, la distribuzione del gas naturale).
Tale indagine ricostruttiva del quadro giuridico di riferimento deve, a nostro avviso, muovere dall'esatta individuazione e definizione dell'oggetto dell'indagine medesima: la pubblica illuminazione, appunto.
In questa direzione di analisi risulta indispensabile, innanzitutto, chiarire la natura giuridica della pubblica illuminazione: un primo conforto ci arriva direttamente dall'Ordinamento, attraverso l'art. 1 del R.D. 2578/1925, secondo il quale l'impianto e l'esercizio dell'illuminazione pubblica rientrano tra i “pubblici servizi”, al pari dell'igiene urbana o del trasporto pubblico.
In altri termini, il citato R.D. recava una definizione/qualificazione normativa della pubblica illuminazione come servizio pubblico.
Sennonché la qualificazione, effettuata quasi 90 anni fa, di servizio pubblico locale è stata, successivamente, messa in dubbio, anche alla luce di ricostruzioni teoriche, talvolta non del tutto convincenti, agevolate molto spesso dall'incertezza o dal silenzio dello stesso Legislatore.
Più volte – anche recentemente – la Giurisprudenza ha, tuttavia,confermato e ribadito il dato normativo, affermando che “il servizio di illuminazione delle strade comunali ha carattere di servizio pubblico locale.” (cfr. Consiglio di Stato n. 8231/2010).
Dalla qualificazione giuridica della pubblica illuminazione come servizio pubblico locale deriva una prima significativa conseguenza relativa all'individuazione della relativa disciplina di riferimento (in merito ai profili dell'organizzazione e modalità di affidamento del servizio medesimo).
In mancanza di specifiche norme di settore, è doverosa l'applicazione delle norme generali in tema di servizi pubblici locali di cui la pubblica illuminazione costituisce una species rispetto al genus.
Ebbene, a differenza dello specifico settore della pubblica illuminazione, quello – maggiormente esteso e che sicuramente lo comprende – dei servizi pubblici locali è stato interessato, nel corso degli ultimi anni, da numerosi interventi normativi: la relativa disciplina, infatti, è stata più volte radicalmente riformata e – ancora oggi – non sembra aver trovato una sua stabilità.
La diretta applicabilità – per analogia – di tale disciplina al settore che ci interessa rende opportuno un preliminare excursus delle molteplici novelle che si sono susseguite negli ultimi decenni, al fine di comprendere il mutamento delle finalità perseguite dal Legislatore e, soprattutto, la sempre maggior influenza della normativa comunitaria all'interno dell'Ordinamento nazionale.
Senza pretesa di esaustività e completezza di tipo scientifico, ci pare tuttavia doveroso tratteggiare le principali tappe di una evoluzione che ancora oggi non può dirsi conclusa ma anzi più che mai in pieno svolgimento.
L'obiettivo, evidentemente, è, per un verso, quello di dare conto dell'assoluta complessità della materia, per l'altro, quello di (tentare) di fornire (per così dire) le chiavi d'accesso al sistema, consentendo di inquadrare la pubblica illuminazione (e le tematiche connesse) sullo sfondo di un quadro generale di riferimento.
3. I servizi pubblici locali: breve sintesi dell'evoluzione normativa.
La disciplina “storica” relativa ai servizi pubblici locali si può far risalire alla Legge 29 marzo 1903, n.103 sulle municipalizzazioni e al successivo R.D. n. 2578/1925, che delineavano una gestione di tipo pubblicistico di tali servizi, alla quale col tempo si sono affiancati – anche sulla scorta di una rivisitazione teorica circa l'intervento pubblico nell'economia – forme e modelli gestionali di marca sempre più privatistica.
Si è approdati così – dopo vivaci discussioni, ed in attesa di una necessaria riforma anche del sistema delle autonomie – ad una nuova normativa complessiva in materia.
Il primo intervento di riforma organica che va sicuramente ricordato è la Legge n. 142/1990, la quale – nel modificare il sistema delle c.d. aziende municipalizzate, introdotte dalla succitata Legge Giolitti del 1903 – ha sostanzialmente introdotto il tema della privatizzazione dei servizi locali, qualificando ad esempio le aziende speciali come enti pubblici economici, muniti di personalità giuridica e di autonomia gestionale, con l'obbligo di pareggio del bilancio da perseguire attraverso l'equilibrio dei costi e dei ricavi ovvero, più in generale, introducendo forme di gestione privatistica dei spl.
La disciplina del 1990 prevedeva cinque distinte forme per la gestione dei servizi pubblici locali: mentre non presentavano carattere di particolare novità l'esercizio in economia, la concessione a terzi, o l'affidamento ad aziende speciali, maggiore dibattito suscitava la previsione della possibilità di affidare la gestione di spl a società per azioni a capitale pubblico.
Come anticipato – e senza in questa sede volerci e poterci dilungare sull'argomento – la riforma del 1990 nasceva da una matrice teorica, concettuale e culturale improntata ad una rivisitazione dell'intervento pubblico nell'economia e proiettata verso le privatizzazioni: ciò nonostante, da più parti, si è, a nostro avviso correttamente, evidenziato che la tale intervento riformatore, più che incardinare il sistema su una vera privatizzazione cd. sostanziale finì col realizzare solo quella cd. formale (di cui le varie forme di società pubbliche erano espressione).
Senza volere rendere giudizi di merito, non v'è dubbio, infatti, che pur animata dall'intento di favorire un coinvolgimento più ampio dei soggetti privati nella gestione di servizi pubblici (tanto in termini manageriali ed industriali che finanziari) secondo le linee di una vera privatizzazione sostanziale del settore, di fatto, la riforma, realizzò per lo più una privatizzazione solo formale del settore.
Successivamente, con la Legge n. 127/1997 (c.d. Legge Bassanini-bis) si è registrato un ulteriore tentativo di apertura dei servizi pubblici locali al “mercato”, attraverso la previsione di agevolazioni fiscali per la trasformazione delle aziende speciali esistenti in società per azioni e con l'obbligo per l'Ente locale di cedere una quota della società entro due anni dall'entrata in vigore della nuova disciplina.
Tuttavia, anche il suddetto intervento se da un lato, contribuì a favorire l'ulteriore percorso verso la privatizzazione in senso formale, dall'altro lato, non riuscì a realizzare la privatizzazione sostanziale del settore.
Tutte le diverse soluzioni normative elaborate nel corso degli anni novanta sono quindi confluite nel “Testo Unico sugli Enti Locali” – segnatamente negli artt. 112 e ss. del D.Lgs. n. 267/2000 – che si poneva l'obiettivo ambizioso di recare, sia pure in pochi articoli, la tanto invocata ed auspicata disciplina generale dei servizi pubblici locali.
Anche il citato Testo Unico, tuttavia, ha presto subìto modifiche, ad opera della Legge n. 448/2001 (cd. Legge finanziaria per il 2002), con la quale è stato introdotto l'art. 113-bis, (poi dichiarato illegittimo con sentenza dalla Corte Costituzionale, n. 272 del 2004), nonché la distinzione della disciplina dei servizi pubblici tra servizi a rilevanza industriale e quelli privi di tale natura, imponendo – tra l'altro – la gara come unica forma di affidamento dei servizi a rilevanza industriale e prevedendo la trasformazione delle aziende e consorzi in società di capitali entro il 30 giugno 2003.
Tuttavia, a distanza di poco tempo, l'assetto normativo è stato nuovamente riformato dall'art. 14 del D.L. n. 269/2003 che ha previsto, accanto alla gara, la possibilità per l'Ente locale di optare discrezionalmente per l'affidamento diretto a società a capitale interamente pubblico (c.d. affidamento in house) o a società mista, nel rispetto della normativa vigente, anche di derivazione comunitaria.
Nello stesso periodo vennero più volte modificate anche alcune importanti normative di settore: tuttavia, mentre con riferimento ai trasporti pubblici locali ed al servizio di distribuzione gas, il Legislatore intese prorogare il periodo transitorio, ritardando l'apertura al mercato del settore; nel servizio idrico e nel servizio di gestione dei rifiuti, invece, anche il recente Codice dell'Ambiente ha previsto l'introduzione di meccanismi di concorrenza per il mercato per l'affidamento del servizio.
Come già anticipato, in nessun caso il Legislatore ha ritenuto opportuno fissare una disciplina organica anche con riferimento al settore della pubblica illuminazione.
L'ultimo tassello nella ricostruzione normativa sopra sinteticamente accennata è rappresentato dall'art. 23-bis del D.L. n. 112/2008, convertito in L. n. 133/2008 e più volte modificato, al quale ha fatto seguito il Regolamento attuativo n. 168/2010.
In particolare, tale disposizione – in modo innovativo rispetto all'assetto esistente così come definito dalle norme del T.U.E.L. – prevedeva che:
a) l'affidamento del servizio pubblico locale, in via ordinaria, dovesse essere concesso mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, con riferimento non solo a società di capitali ma, più in generale, ad «imprenditori o […] società in qualunque forma costituite»;
b) l'affidamento della gestione del servizio pubblico locale potesse avvenire in favore di società miste il cui socio privato sia scelto mediante procedure competitive ad evidenza pubblica (conferimento della gestione «in via ordinaria»), alla duplice condizione che la procedura di gara riguardi non solo la qualità di socio, ma anche l'attribuzione di «specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio» e che al socio privato sia attribuita una partecipazione non inferiore al 40%;
c) l'affidamento diretto, ossia in house providing, «in deroga» ai conferimenti effettuati in via ordinaria, dovesse «avvenire nel rispetto dei princípi della disciplina comunitaria», con l'ulteriore presupposto della sussistenza di «situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato».
L'elemento (forse) più significativo della nuova disciplina era rappresentato dalla decisa virata del Legislatore verso la privatizzazione sostanziale del mercato dei spl (con la conseguente valorizzazione dei modelli gestionali di tipo privatistico) rispetto a la conseguente drastica riduzione dell'ambito di operatività (e di sopravvivenza) dei modelli sostanzialmente pubblicistici (le cd. società in house providing).
Finalmente (a sommesso avviso degli scriventi) il Legislatore sembrava aver compiuto una scelta piuttosto netta in ordine alla concezione di fondo del sistema dei spl, all'assetto definitivo verso il quale il settore sarebbe dovuto gradualmente approdare nel corso del tempo.
Certamente anche tale disciplina non era immune da critiche e da possibili censure – sia di carattere teorico-concettuale che tecnico-formale – ma tuttavia (sempre secondo il personale parere degli scriventi) si lasciava apprezzare perché finalmente sembrava tracciare linee molto precise dell'evoluzione del sistema rispetto alle quali gli operatori avrebbero potuto consapevolmente fondare le proprie scelte organizzative e strategiche per il futuro.
Tuttavia anche tale disciplina ha avuto vita sostanzialmente breve, essendo intervenuta l'abrogazione – sia per l'art. 23-bis del D.L. n. 112/2008, che per il relativo Regolamento attuativo di cui al D.P.R. n. 168/2010 – a seguito del Referendum popolare del 12 e 13 giugno 2011, per effetto del D.P.R. 18 luglio 2011, n.113 (che proclamava l'esito referendario).
Il Referendum abrogativo è stato accompagnato da diverse polemiche, non solo di carattere politico.
Invero, a tacer delle diatribe politiche che non competono a chi scrive, sicuramente il nodo giuridico della questione atteneva (e attiene oggi, in particolare alla luce della dichiarazione di incostituzionalità della novella post-referendaria, come si vedrà meglio in avanti) agli obiettivi cui puntava il quesito referendario: ovvero all'interrogativo legato al nuovo quadro normativo che si sarebbe delineato alla luce della volontà popolare in senso abrogativo della precedente disciplina.
Infatti, nella difficoltà di comprendere, con sufficienti margini di certezza, quale fosse l'intento abrogativo, pare opportuno attenersi a quanto statuito dalla Corte Costituzionale in sede di ammissibilità del quesito referendario.
Invero, non deve essere confuso l'obiettivo – prevalentemente politico-propagandistico, legato alla c.d. “pubblicizzazione dell'acqua” – con gli effetti sul piano giuridico dell'abrogazione di una disciplina relativa a tutti i servizi pubblici locali.
Su questo piano, come afferma la Consulta nella sentenza n. 24/2011 “esula dall'esame della Corte ogni valutazione circa la complessiva coerenza dei diversi quesiti incidenti sulla stessa materia e, quindi, non ha alcun rilievo neppure l'eventualità che essi siano stati proposti (in tutto o in parte) dai medesimi promotori. Ne consegue che ciascun quesito deve essere esaminato separatamente dagli altri” (come è noto, infatti, alcuni quesiti avevano ad oggetto specifiche norma relative alla gestione de servizio idrico integrato, come previste dal Codice dell'Ambiente).
Sul punto, occorre sottolineare – e crediamo che ciò influenzerà il dibattito e l'attività legislativa di riforma della disciplina proprio a seguito della pronunzia di incostituzionalità già citata – il fatto che “l'obiettivo dei sottoscrittori del referendum va desunto non dalle dichiarazioni eventualmente rese dai promotori (dichiarazioni, oltretutto, aventi spesso un contenuto diverso in sede di campagna per la raccolta delle sottoscrizioni, rispetto a quello delle difese scritte od orali espresse in sede di giudizio di ammissibilità), ma esclusivamente dalla finalità «incorporata nel quesito», cioè dalla finalità obiettivamente ricavabile in base alla sua formulazione ed all'incidenza del referendum sul quadro normativo di riferimento. Sono dunque irrilevanti, o comunque non decisive, le eventuali dichiarazioni rese dai promotori” (nei termini, sent. ult. cit.).
Dunque, è la Corte a tracciare il ‘perimetro' del quesito, l'intento obiettivo che se ne ricaverebbe allorquando evidenzia che “l'obiettiva ratio del quesito n. 1 [appunto l'abrogazione dell'art. 23 bis, ndr] va ravvisata, come sopra rilevato, nell'intento di escludere l'applicazione delle norme, contenute nell'art. 23-bis, che limitano, rispetto al diritto comunitario, le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, quelle di gestione in house di pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica (ivi compreso il servizio idrico)”.
Per cui, a seguito del successo referendario, l'attività riformatrice del Legislatore sarebbe dovuta essere quella indicata proprio dalla Corte nel passaggio sopra citato.
Immediatamente, tuttavia, il Governo è intervenuto a riempire il “vuoto normativo” determinato dall'esito referendario attraverso il ricorso allo strumento della decretazione d'urgenza: il riferimento è agli artt. 3-bis e 4 del D.L. n. 138/2011, convertito in Legge n. 148/2011 e successivamente modificato prima dalla Legge n. 183/2011 (cd. Legge di Stabilità 2012), poi dal D.L. n. 1/2012 (cd. Cresci-Italia), convertito in Legge n. 27/2012 ed, in ultimo, dal D.L. n. 83/2012.
Come da tradizione – senz'altro negativa – degli ultimi anni, quindi, ancora una volta l'individuazione della disciplina di un settore tanto delicato veniva affidata ad un Decreto Legge, peraltro, diretto ad intervenire su svariate materie, come risulta agevole intuire già dall'ampiezza della relativa rubrica “misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo”.
Stesso discorso per le successive, numerose modifiche che hanno successivamente interessato il medesimo Decreto, imposte da provvedimenti a carattere generale che, se da un lato hanno senz'altro perseguito l'apprezzabile scopo di integrare e perfezionare le disposizioni originarie laddove risultava più opportuno (ad esempio, con l'inserimento del comma 32-ter dell'art 4, relativo alla continuità nella gestione – di cui si parlerà approfonditamente più avanti) dall'altro hanno reso particolarmente arduo il compito dell'interprete, costretto a districarsi in un labirinto di abrogazioni, sostituzioni ed aggiunte che si sono susseguite con cadenza quasi mensile.
Prima di dare conto dell'ulteriore tappa (che certamente, non sarà l'ultima) di questa lunghissima, tortuosa e (spesso) schizofrenica evoluzione del quadro giuridico di riferimento, occorre sottolineare come la disciplina introdotta a seguito del Referendum – seppure non del tutto condivisibile (secondo il personale giudizio degli scriventi) e non immune da evidenti censure anche di tecnica legislativa – tuttavia recava in sé l'ambizioso obiettivo di porsi come riforma strutturale dell'intero sistema e come corpo normativo organico della materia.
Prima di scendere nel dettaglio dell'analisi della normativa introdotta a seguito del Referendum, in termini assolutamente generali possiamo senz'altro evidenziare che, la stessa – lungi dal porsi in termini di discontinuità rispetto a quella sottoposta a Referendum e conseguentemente abrogata – ne riproduce non soltanto la medesima ratio ispiratrice ma, anzi, addirittura, rafforzava alcuni pilastri del precedente assetto normativo.
Il riferimento è, in particolare, alla collocazione dell'istituto dell'affidamento cd. in house providing nell'ambito del quadro generale delle modalità di affidamento dei spl di rilevanza economica: la nuova disciplina, infatti, limitava ancora di più la possibilità che gli Enti locali possano in concreto ricorrere a tale modalità di gestione dei spl (con l'esclusione dell'ambito del servizio idrico integrato nel quale, proprio per effetto del Referendum tale facoltà era stata reintrodotta).
Sennonché anche tale ultima disciplina ha avuto vita brevissima, essendo stata abrogata per effetto della recentissima sentenza della Corte Costituzionale del 20 luglio 2012, n.199 che ha pronunciato l'illegittimità costituzionale dell'art.4 del D.L. n. 138/2011 – convertito in Legge n. 148/2011 e successivamente modificato prima dalla Legge n. 183/2011 (cd. Legge di Stabilità 2012), poi dal D.L. n. 1/2012 (cd. Cresci-Italia), convertito in Legge n. 27/2012 ed, in ultimo, dal D.L. n. 83/2012 – in quanto “viola il divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare, desumibile dall'art.75 Cost.”.
In buona sostanza, la Corte ha osservato che:
· la precedente normativa (quella sottoposta a Referendum e conseguentemente abrogata) restringeva “rispetto al livello minimo stabilito dalle regole concorrenziali comunitarie, le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, di gestione in house dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, consentite solo in casi eccezionali ed al ricorrere di specifiche condizioni (…)”;
· con la “richiamata consultazione referendaria detta normativa veniva abrogata e si realizzava, pertanto, l'intento referendario di escludere l'applicazione delle norme contenute nell'art.23-bis che limitano, rispetto al diritto comunitario, le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, quelle di gestione in house di pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica e di consentire, conseguentemente, l'applicazione diretta della normativa comunitaria conferente”;
· a distanza di “meno di un mese dalla pubblicazione del decreto dichiarativo dell'avvenuta abrogazione dell'art.23-bis del D.L. n.112/2008, il Governo è intervenuto nuovamente sulla materia con l'impugnato art.4, il quale, nonostante sia intitolato ‹‹Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell'Unione europea››, detta una nuova disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, che non solo è contraddistinta dalla medesima ratio di quella abrogata, in quanto opera una drastica riduzione delle ipotesi di affidamenti in house, al di là di quanto prescritto dalla normativa comunitaria, me è letteralmente riproduttiva, in buona parte, di svariate disposizione dell'abrogato art.23-bis e di molte disposizioni del Regolamento attuativo del medesimo art.23-bis contenuto nel DPR n.168/2010”;
· la nuova disciplina “rende ancor più remota l'ipotesi di affidamento dei servizi, in quanto non solo limita, in via generale, l'attribuzione di diritti di esclusiva (…) ma la àncora anche al rispetto di una soglia commisurata al valore dei servizi stessi, il superamento della quale (900.000 euro nel testo originariamente adottato, ora 200.000 euro, nel testo vigente del comma 13) determina automaticamente l'esclusione della possibilità di affidamenti diretti”.
In definitiva, a giudizio della Corte le “poche novità introdotte dall'art. 4 accentuano la drastica riduzione delle ipotesi di affidamenti diretti dei servizi pubblici locali che la consultazione referendaria aveva interso escludere (…) con la conseguenza che la norma oggi all'esame costituisce sostanzialmente la reintroduzione della disciplina abrogata con il referendum del 12 e 13 giugno 2011”.
Allo stato attuale, dunque, l'intervenuta abrogazione del richiamato art.4 (che conteneva l'intero corpo normativo) ha finito con l'azzerare il quadro normativo nazionale di riferimento e col determinare la necessità di un nuovo intervento legislativo.
Nelle more – mutuando quanto già affermato dalla Corte con la sentenza n. 24/2011 relativa al giudizio sull'ammissibilità del referendum – trovano applicazione immediata nel nostro ordinamento, della normativa comunitaria che, peraltro, ha una portata meno restrittiva rispetto a quella interna oggi abrogata.
In questo contesto, certamente di assoluta e generale incertezza circa le possibili linee di sviluppo della materia, tenteremo di ricostruire il quadro di riferimento, anche muovendo dall'analisi delle principali norme di cui all'art. 4 (oggi abrogato).
Per cui, occorre chiedersi quale sia oggi la disciplina – in attesa dell'ulteriore intervento del Legislatore, si spera finalmente organico – applicabile alla disciplina in esame.
Come si è detto, tanto dopo l'avvenuta abrogazione referendaria, quanto dopo l'intervento del Giudice delle leggi, la disciplina vigente è rappresentata da quella di origine comunitaria.
L'intervento della normativa di livello superiore si pone oggi sotto la lente d'ingrandimento, in particolare alla luce delle nuove ‘possibilità' previste a seguito della caducazione della precedente disciplina.
Occorre quindi procedere ad un'analisi comparativa sul piano dell'ammissibilità della gestione diretta dei servizi, ciò che appare essere la vera novità a seguito dell'effetto demolitorio del referendum prima e poi della sentenza costituzionale.
La normativa comunitaria, infatti, la ammette nel caso in cui lo Stato nazionale ritenga che l'applicazione delle regole di concorrenza (e, quindi, anche della regola della necessità dell'affidamento a terzi mediante una gara ad evidenza pubblica) ostacoli, in diritto od in fatto, la «speciale missione» dell'ente pubblico (art. 106 TFUE; ex plurimis, sentenze della Corte di giustizia UEE 11 gennaio 2005, C-26/03, Stadt Halle, punti 48 e 49, e 10 settembre 2009, C-573/07, Sea s.r.l.).
In tale ipotesi l'ordinamento comunitario, rispettoso dell'ampia sfera discrezionale attribuita in proposito agli Stati membri, si riserva solo di sindacare se la decisione dello Stato sia frutto di un “errore manifesto”.
Ma la disciplina europea riguarda tutte le modalità vigenti nell'Ordinamento italiano, introdotte già con l'art. 23 bis del D.L. 112/2008 conv. L. n. 133/2008.
Si pensi all'affidamento della gestione del servizio alle società miste, cioè con capitale pubblico/privato (cosiddetto PPPI).
La normativa comunitaria consente l'affidamento diretto del servizio (cioè senza una gara ad evidenza pubblica per la scelta dell'affidatario) alle società miste nelle quali si sia svolta una gara ad evidenza pubblica per la scelta del socio privato e richiede sostanzialmente che tale socio sia un socio «industriale» e non meramente «finanziario» (in tal senso, in particolare, il Libro verde della Commissione del 30 aprile 2004), senza espressamente richiedere alcun limite, minimo o massimo, della partecipazione del socio privato (come si avrà modo di vedere meglio in avanti).
Da ultimo resta l'affidamento in house. Secondo la normativa comunitaria, le condizioni integranti tale tipo di gestione ed alle quali è subordinata la possibilità del suo affidamento diretto (capitale totalmente pubblico; controllo esercitato dall'aggiudicante sull'affidatario di ««contenuto analogo» a quello esercitato dall'aggiudicante stesso sui propri uffici; svolgimento della parte piú importante dell'attività dell'affidatario in favore dell'aggiudicante) debbono essere interpretate restrittivamente, costituendo l'in house providing un'eccezione rispetto alla regola generale dell'affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica.
Tale eccezione viene giustificata dal diritto comunitario con il rilievo che la sussistenza delle suddette condizioni esclude che l'in house contract configuri, nella sostanza, un rapporto contrattuale intersoggettivo tra amministrazione aggiudicatrice ed affidatario, perché quest'ultimo è, in realtà, solo la longa manus della prima.
Nondimeno, la giurisprudenza comunitaria non pone ulteriori requisiti per procedere a tale tipo di affidamento diretto, ma si limita a chiarire via via la concreta portata delle suddette tre condizioni.
Ciò che oggi si può forse ipotizzare – ma l'excursus normativo impone comunque cautela – riguarda la direzione verso cui sarebbe portato il Legislatore nazionale, ossia in direzione di un ampliamento della discrezionalità del ricorso all'in house (ferme restando le condizioni ‘costitutive' come sopra descritte) rispettando così la volontà popolare espressa nel referendum del giugno 2011.
4. La concorrenza “nel” mercato e “per” il mercato.
Uno dei fulcri della nuova disciplina appena abrogata era senz'altro rappresentata dall'individuazione della “gestione concorrenziale” quale regola generale della materia: si tratta della prima attestazione normativa del principio della cd. concorrenza “nel” mercato, ovvero della possibilità, concessa a tutti gli operatori del settore, di proporsi direttamente agli utenti del servizio – senza più dover essere previamente scelti ed autorizzati dall'Amministrazione – e di offrire agli stessi le proprie prestazioni nelle modalità ed ai prezzi ritenuti più competitivi.
Va, tuttavia, immediatamente precisato che tale assetto era – in realtà – stato già previsto dal Regolamento di attuazione dell'art. 23-bis, la cui breve “vita” non aveva, però, consentito una reale ed effettiva messa in atto delle spinte legislative verso la liberalizzazione.
In analogia con l'art. 2 del citato Regolamento, l'art. 4, comma 1, disponeva che «Gli enti locali, nel rispetto dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi, dopo aver individuato i contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e universale, verificano la realizzabilità di una gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, di seguito "servizi pubblici locali", liberalizzando tutte le attività economiche compatibilmente con le caratteristiche di universalità e accessibilità del servizio e limitando, negli altri casi, l'attribuzione di diritti di esclusiva alle ipotesi in cui, in base ad una analisi di mercato, la libera iniziativa economica privata non risulti idonea a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità».
Come è agevole notare, l'affidamento della gestione del servizio in via esclusiva a una determinata impresa – cd. concorrenza “per il” mercato – che nel sistema previgente costituiva la regola, veniva invece trasformata in ipotesi subordinata, praticabile esclusivamente laddove non era possibile la completa liberalizzazione.
La ratio perseguita dalla norma – in analogia con le più recenti indicazioni provenienti dall'Unione Europea – era senz'altro quella di favorire la corretta esplicazione dei principi di concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi.
Sul piano squisitamente procedurale, lo spartiacque tra la concorrenza nel mercato e la concorrenza per il mercato, è rappresentato – nella disciplina ormai abrogata introdotta dal citato art. 4 – da una complessa attività istruttoria che ciascun Ente locale sarebbe chiamato a svolgere, le cui risultanze avrebbero dovuto essere poste a base di una apposita “delibera quadro”: nell'ambito di tale provvedimento, l'Ente avrebbe dovuto esporre le eventuali ragioni che potevano ostare alla liberalizzazione del mercato di riferimento e giustificare, quindi, l'affidamento della gestione del servizio in esclusiva ad uno o più operatori selezionati tramite le procedure individuate dalla vigente normativa.
Stante l'intervenuta abrogazione del citato art. 4, ci pare fuori luogo dilungarci nella descrizione analitica della disciplina relativa alla liberalizzazione dei spl e del relativo procedimento (di cui ai commi 1-4) mentre appare di maggiore interesse interrogarsi circa la possibilità di completa liberalizzazione del settore della pubblica illuminazione.
La tematica in commento, infatti, anche al di là del momentaneo vuoto normativo rappresenta certamente un tema rilevante anche de iure condendo.
La questione di fondo si incentra sulla possibilità di realizzare una totale liberalizzazione di un settore – quale quello di cui si discute – in cui l'erogazione del servizio finisce col coincidere con la gestione di un impianto non duplicabile: è evidente come ciò renda alquanto difficile ipotizzare la contemporanea presenza ed operatività di una pluralità di gestori in concorrenza tra loro.
Si ritiene che con riferimento al servizio di pubblica illuminazione si sia in presenza di una situazione di “monopolio naturale”, determinata dalla evidente unicità delle infrastrutture e dalla conseguente impossibilità che il servizio medesimo venga offerto, in maniera autonoma e concorrenziale, da più operatori di mercato.
È pertanto evidente che – ove il servizio coincida con la gestione dell'unica rete/impianto/infrastruttura non duplicabile – allora l'unica opzione concretamente possibile è la concorrenza per il mercato ovvero l'espletamento di una gara per l'individuazione di un gestore unico che, conseguentemente, si troverà successivamente ad operare in condizione di monopolio (naturale).
In tali casi, dunque, non essendo possibile una concorrenza “a valle” ovvero “nel mercato” allora la stessa è assicurata per così dire “a monte” attraverso l'individuazione concorsuale del soggetto gestore.
D'altra parte, come ovvio, anche l'abrogata disciplina normativa individuava la possibile «sussistenza di situazioni di monopolio naturale» come condizione suscettibile di influire sull'effettiva liberalizzare del servizio, costituendo un evidente impedimento alla completa apertura del settore alla concorrenza.
5. La gestione per Ambiti Territoriali Ottimali.
Tra le disposizioni sopravvissute all'intervento abrogativo della Corte Costituzionale merita di essere segnalata e analizzata l'art.3-bis del D.L. n. 138/2011 (introdotto, tuttavia, dal successivo D.L. n. 1/2012, convertito in Legge n. 27/2012).
In particolare, tra le varie disposizioni contenute nel citato art. 3-bis spicca quella di cui al comma 1, tramite la quale viene codificato il principio della gestione su base d'ambito dei servizi pubblici locali “a rete”.
Pare opportuno richiamare testualmente il dato normativo, al fine di analizzarne la portata innovativa e precettiva: «A tutela della concorrenza e dell'ambiente, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano organizzano lo svolgimento dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica in ambiti o bacini territoriali e omogenei tali da consentire economie di scala e di differenziazione idonee a massimizzare l'efficienza del servizio, entro il termine del 30 giugno 2012. La dimensione degli ambiti o bacini territoriali ottimali di norma deve essere non inferiore almeno a quella del territorio provinciale».
La disposizione prosegue con l'indicazione delle specifiche modalità di costituzione degli ambiti, prevedendo, in particolare, il potere sostitutivo del Consiglio dei Ministri in caso di mancato rispetto del termine da parte degli enti locali.
In analogia con quanto previsto per alcuni settori dalla relativa specifica disciplina – ci si riferisce, ad esempio, alla gestione del servizio idrico integrato (D.Lgs. n. 152/2006 e s.m.i.) o a quella del servizio di distribuzione del gas naturale (D.Lgs. n. 164/2000 e s.m.i.) – il Legislatore ha inteso introdurre, con riferimento a tutti i SPL “a rete”, il principio della gestione per ambiti o bacini territoriali ottimali.
Si tratta, in sostanza, di pervenire ad una gestione unitaria del servizio da parte di più enti locali, ai quali viene imposto di unirsi in un “ambito” o “bacino” le cui dimensioni (sia in termini di territorio, che di impiantistica che di utenza) risultino quelle maggiormente idonee (ottimali) a garantire qualità, efficienza ed economicità del servizio medesimo.
In via generale, è noto, l'organizzazione e lo svolgimento di un SPL per una popolazione e per un territorio di dimensioni sovra-comunali consente di ridurre i costi di erogazione e di agevolare le procedure di affidamento e controllo.
In astratto, infatti, l'allargamento del perimetro del servizio dovrebbe portare, in virtù delle economie di scala connaturate alla maggior estensione del perimetro di gestione, alla diminuzione generalizzata dei costi a carico degli operatori e, quindi, dei prezzi all'utenza.
Senza volere entrare nel merito dell'idoneità di tali soluzioni organizzative a realizzare in concreto gli obiettivi di efficacia, efficienza ed economicità che astrattamente mirano a perseguire, appare importante sottolineare che l'obbligatorietà della gestione d'ambito riguarda – a norma del richiamato art.3-bis – per i servizi pubblici locali c.d “a rete”.
Tuttavia, la citata disposizione non ha provveduto ad individuare esplicitamente quali siano i SPL “a rete” né ha definito cosa debba intendersi per servizio “a rete”.
Si tratta, dunque, di comprendere l'applicabilità della richiamata disposizione anche al settore della pubblica illuminazione: la questione – lungi dall'avere rilievo squisitamente sul piano teorico – riveste una significativa importanza sul piano pratico dal momento che, in tale caso, sarebbe preclusa la possibilità per i singoli Comuni di procedere (forse anche in via transitoria) all'affidamento del servizio su base comunale.
Orbene, pure in mancanza di alcun riferimento normativo capace di orientare l'attività interpretativa, si è ragionevolmente portati a ritenere che la portata della norma vada intesa nel senso di estendere e rendere obbligatoria la gestione per ambiti territoriali ottimali per quei servizi contraddistinti dall'esistenza di una “rete” infrastrutturale comune ed estesa al territorio di una pluralità di Comuni.
In altri termini, si ritiene che il Legislatore intendesse alludere a quei servizi che si connotano per una serie di infrastrutture che, seppur materialmente localizzate sul territorio di diversi enti locali, costituiscono parti di uno stesso impianto e risultano, pertanto, fisicamente e funzionalmente collegate tra loro: ciò consente – anzi, rende più conveniente sia in termini di efficienza che di economicità – una gestione unitaria.
E' il caso, come anticipato, del servizio idrico integrato ovvero di quello di distribuzione del gas naturale, nei quali gli impianti comunali non sono altro che le ramificazioni locali di un'unica rete “centrale”, la cui estensione può superare il territorio provinciale ed persino quello regionale (ciò non di meno, non possiamo non rilevare come la stessa disposizione faccia «salva l'organizzazione di servizi pubblici locali di settore in ambiti o bacini territoriali ottimali già prevista in attuazione di specifiche direttive europee nonché ai sensi delle discipline di settore vigenti» ovvero proprio il servizio idrico integrato e la distribuzione gas per i quali la gestione sulla base di ambiti territoriali ottimali è già prevista dalle rispettive discipline di settore).
Al di là dell'affermazione di principio, non si comprende pertanto a quali servizi pubblici il Legislatore abbia inteso riferirsi.
Non riteniamo – per ritornare alla questione che ci impegna – che in ogni caso la norma sia applicabile al servizio di pubblica illuminazione:non sfugge, infatti, come in tali casi, gli impianti di un Comune, di regola, costituiscono un'entità materialmente e funzionalmente autonoma rispetto a quelli del Comune confinante.
Non esiste, di regola, una infrastruttura unica a livello sovra comunale ovvero una interconnessione tra i singoli impianti Comunali che sono, solitamente, autonomi.
Pur non sottacendo l'evidente ambiguità della portata applicativa della norma in commento, tuttavia si ritiene, sulla base delle sopra richiamate preminenti considerazioni, che la stessa – e quindi il relativo obbligo di gestione su base d'ambito – non sia applicabile al servizio di pubblica illuminazione.
Diversa è, invece, la questione della possibilità – certamente sempre ammissibile e anche auspicabile – di una gestione associata dei servizi da parte di una pluralità di Comuni: il riferimento è, in particolare, alla circostanza che una pluralità di Comuni – secondo i meccanismi e le modalità proprie delle gestioni associate di funzioni amministrative – decidano di procedere all'espletamento di un'unica procedura per l'individuazione di un unico gestore del servizio.
Tale assetto organizzativo si pone tuttavia come facoltativo e non obbligatorio per i singoli Comuni e deve intendersi ricollegato alla possibilità di perseguire, in concreto, dei vantaggi (in termini di qualità del servizio e/o di economicità del medesimo) rispetto ad una gestione singola dello stesso.
6. Le modalità di affidamento e gestione del servizio.
Alla stregua dell'intervenuta abrogazione dell'art.4 per effetto della citata sentenza della Corte Costituzionale n.199/2012, allo stato attuale, e fino ad un nuovo intervento legislativo, il tema delle modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici (ivi inclusa la pubblica illuminazione) si connota per un sostanziale vuoto normativo.
Un vuoto normativo che – richiamando quanto già affermato dalla stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 24/2011 in sede di verifica di ammissibilità del Referendum – può essere colmato attingendo al sottostante quadro giuridico comunitario.
Quanto sopra porta a ritenere che l'affidamento di servizi pubblici locali di rilevanza economica (tra i quali, come detto, è da annoverare anche la pubblica illuminazione) possa avvenire secondo tre diversi modelli cui corrispondo altrettante soluzioni organizzative e gestionali:
1. tramite conferimento in favore di imprenditori o di società individuati mediante procedure ad evidenza pubblica (cd. esternalizzazione);
2. tramite affidamento a società a capitale misto pubblico privato, il cui partner privato sia individuato a seguito di gara ad evidenza pubblica cd. a doppio oggetto;
3. tramite affidamento diretto a società a totale capitale pubblico corrispondente al modello cd. in-house providing.
Sennonché mentre l'abrogato art.4 – così come il precedente art.23-bis (oggi, lo ripetiamo, entrambi abrogati, il primo dalla recentissima sentenza della Corte Cost., il secondo dal Referendum del 2011) – privilegiavano l'affidamento secondo modalità concorrenziali (esternalizzazione/società mista) rispetto all'affidamento in house (che veniva considerato come un modello derogatorio rispetto alla regolare e pertanto limitato alla sussistenza di specifiche condizioni), allo stato attuale, deve ritenersi che la sentenza della Corte Cost. abbia finito con l'equiparare, sul piano astratto, i tre modelli.
Dunque – alla stregua della richiamata sentenza della Corte Cost. e sulla base del quadro comunitario di riferimento (che trova diretta applicazione in mancanza di una disciplina interna di riferimento) – deve ritenersi che i tre modelli sopra indicati siano da considerarsi astrattamente equivalenti, venendo meno quel rapporto tra regola ed eccezione che era stato introdotto dalla disciplina ormai abrogata.
Ciò non di meno – mutuando l'orientamento giurisprudenziale che si era formato sotto la vigenza dell'art.113 TUEL – deve, altresì, ritenersi che l'astratta equiparazione tra i tre modelli sopra indicati, non esime l'Ente locale dall'obbligo di motivare le ragioni che, in concreto, giustificano il ricorso all'uno o altro modello, sulla base di specifiche valutazioni compiute dai competenti organi comunali (e dunque, in primo luogo, dal Consiglio Comunale) circa l'organizzazione e le modalità di affidamento di un servizio pubblico.
7. L'esternalizzazione.
Con riferimento alla prima ipotesi di affidamento del servizio – l'esternalizzazione mediante gara ad evidenza pubblica – l'abrogato art.4 (commi da 8 a 13) recava una disciplina che già di per se era piuttosto generica e di principio.
L'abrogato comma 8 disponeva che «Nel caso in cui l'ente locale, a seguito della verifica di cui al comma 1, intende procedere all'attribuzione di diritti di esclusiva, il conferimento della gestione di servizi pubblici locali avviene in favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di economicità, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento e proporzionalità. Le medesime procedure sono indette nel rispetto degli standard qualitativi, quantitativi, ambientali, di equa distribuzione sul territorio e di sicurezza definiti dalla legge, ove esistente, dalla competente autorità di settore o, in mancanza di essa, dagli enti affidanti».
La norma – oltre a confermare, ancora una volta, la subordinazione dell'ipotesi di attribuzione di diritti di esclusiva rispetto alla liberalizzazione – è, con tutta evidenza, piuttosto generica, limitandosi a richiedere l'espletamento di una procedura competitiva ad evidenza pubblica (quindi, in sostanza, una gara) ed il rispetto dei principi cardine dell'Unione Europea, finalizzati a garantire un corretto esplicarsi della cd. concorrenza “per il” mercato.
Appare evidente come, con riferimento al modello in commento, l'intervenuta abrogazione della disposizione succitata sia sostanzialmente priva di effetto dal momento che l'affidamento mediante procedura di evidenza pubblica deve comunque ritenersi sempre ammissibile (pena la violazione delle più elementari regole comunitarie) e che l'espletamento della gara non può che avvenire nel rispetto dei principio di derivazione comunitaria che regolano la materia.
Considerazioni sostanzialmente analoghe valgono anche con riferimento alle altre disposizioni (ormai abrogate) dettate dall'art.4 in relazione a tale modello di affidamento:
· il comma 9, che consentiva espressamente la partecipazione delle società a capitale interamente pubblico alle suddette procedure competitive, fermi restando gli eventuali ulteriori divieti previsti dalla legge: si tratta, in realtà, di una ipotesi implicitamente affermata dal sistema, indipendentemente da una specifica previsione normativa; anzi l'intervenuta abrogazione del divieto sancito dall'art. 4, comma 33, elimina qualsiasi dubbio in merito ed anzi estende la possibilità di partecipazione alle gare anche alle società che siano titolari di affidamenti diretti;
· il comma 11, che dettava specifiche prescrizioni in merito alla formulazione e al contenuto degli atti di gara disponendo che «Al fine di promuovere e proteggere l'assetto concorrenziale dei mercati interessati, il bando di gara o la lettera di invito relative alle procedure di cui ai commi 8, 9, 10:
a) esclude che la disponibilità a qualunque titolo delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali non duplicabili a costi socialmente sostenibili ed essenziali per l'effettuazione del servizio possa costituire elemento discriminante per la valutazione delle offerte dei concorrenti;
b) assicura che i requisiti tecnici ed economici di partecipazione alla gara siano proporzionati alle caratteristiche e al valore del servizio e che la definizione dell'oggetto della gara garantisca la più ampia partecipazione e il conseguimento di eventuali economie di scala e di gamma;
b-bis) prevede l'impegno del soggetto gestore a conseguire economie di gestione con riferimento all'intera durata programmata dell'affidamento, e prevede altresì, tra gli elementi di valutazione dell'offerta, la misura delle anzidette economie e la loro destinazione alla riduzione delle tariffe da praticarsi agli utenti ed al finanziamento di strumenti di sostegno connessi a processi di efficientamento relativi al personale;
c) indica, ferme restando le discipline di settore, la durata dell'affidamento commisurata alla consistenza degli investimenti in immobilizzazioni materiali previsti nei capitolati di gara a carico del soggetto gestore. In ogni caso la durata dell'affidamento non può essere superiore al periodo di ammortamento dei suddetti investimenti;
d) può prevedere l'esclusione di forme di aggregazione o di collaborazione tra soggetti che possiedono singolarmente i requisiti tecnici ed economici di partecipazione alla gara, qualora, in relazione alla prestazione oggetto del servizio, l'aggregazione o la collaborazione sia idonea a produrre effetti restrittivi della concorrenza sulla base di un'oggettiva e motivata analisi che tenga conto di struttura, dimensione e numero degli operatori del mercato di riferimento;
e) prevede che la valutazione delle offerte sia effettuata da una commissione nominata dall'ente affidante e composta da soggetti esperti nella specifica materia;
f) indica i criteri e le modalità per l'individuazione dei beni di cui al comma 29, e per la determinazione dell'eventuale importo spettante al gestore al momento della scadenza o della cessazione anticipata della gestione ai sensi del comma 30;
g) prevede l'adozione di carte dei servizi al fine di garantire trasparenza informativa e qualità del servizio;
g-bis) indica i criteri per il passaggio dei dipendenti ai nuovi aggiudicatari del servizio, prevedendo, tra gli elementi di valutazione dell'offerta, l'adozione di strumenti di tutela dell'occupazione».
Sarà estremamente interessante verificare la risposta giurisprudenziale rispetto alle gare che non dovessero essere del tutto in linea con riferimento alle suddette previsioni (peraltro ormai abrogate): in molti casi, infatti, le disposizioni in commento erano la codificazioni di orientamenti giurisprudenziali ormai consolidati (e sorti in assenza di una specifica disciplina) che, riteniamo, continueranno a rimanere tali.
La possibilità che l'Ente locale proceda all'esternalizzazione del servizio mediante una procedura di evidenza pubblica che sia necessariamente rispettosa dei principi comunitari che regolano la materia, pone il problema dell'individuazione delle specifiche regole cui informare la procedura medesima.
Sul punto, non v'è dubbio che l'Ente locale goda di una certa autonomia e ampio margine di discrezionalità nella definizione delle regole della cd. lex specialis; in questa direzione, tuttavia, appare evidente che utile parametro di riferimento è rappresentato, in concreto, dalle norme dettate dal Codice dei Contratti Pubblici (D.Lgs. 163/2006 e s.m.i.) che, come noto, sono dettate in specifica attuazione della disciplina comunitaria.
In questa direzione, dunque, si ritiene che – ferma restando la facoltà dell'Ente locale di autodisciplinare la procedura di gara, concretizzando nella lex specialis della procedura i principi comunitari in materia – l'eventuale applicazione delle regole cristallizzate nel Codice dei Contratti Pubblici certamente porrebbe al riparo l'Ente locale da qualsivoglia genere di censura circa la mancata e/o inesatta attuazione dei principi comunitari.
In tale prospettiva di analisi, si ritiene che certamente l'Ente locale godrebbe di ampia autonomia circa la scelta del modello procedurale ritenuto più idoneo al perseguimento dei propri obiettivi: beninteso, tuttavia, in concreto, la scelta del modello procedurale/contrattuale non può prescindere da un valutazione, da compiersi caso per caso, circa la situazione effettivamente esistente e le concrete esigenze dell'ente locale.
In via meramente esemplificativa, è agevole evidenziare come, da un lato, la definizione dell'oggetto specifico della procedura (e dunque la circostanza che la stessa abbia ad oggetto l'affidamento della mera gestione dell'impianto ovvero anche la progettazione ed esecuzione di interventi di adeguamento tecnologico e/o ampliamento della rete di pubblica illuminazione) dall'altro lato, la circostanza che l'ente locale disponga o meno di risorse finanziarie necessarie per fronte all'esecuzione degli interventi (ovvero, in alternativa, debba ricorrere a forme volte a sollecitare l'autofinanziamento da parte di operatori privati), sono entrambi necessari elementi di valutazione che, in concreto, concorrono all'individuazione del modello procedurale più idoneo.
Occorre ribadire, come del resto, la vigente normativa in materia di contratti pubblici metta a disposizione delle Amministrazioni un ampio spettro di procedure e figure contrattuali diverse, nell'ambito del quale le stesse possono ricercare la soluzione più adatta al caso concreto.
Tale è, pertanto, la ragione per la quale, nella prassi, le modalità di esternalizzazione di interventi connessi agli impianti di pubblica illuminazione, rispondono a modelli procedurali e figure contrattuali spesso molto diversi tra loro.
Senza pretesa di approfondire, in questa sede, l'analisi di tutte le fattispecie astrattamente ipotizzabili, ci limitiamo a richiamare un breve elenco dei modelli procedurali possibili (tra quelli offerti dal Codice dei Contratti Pubblici):
· appalto di lavori e/o di servizi;
· concessione di lavori e/o di servizi;
· concessione di costruzione e gestione;
· project financing;
· finanziamento tramite terzi.
Ovviamente non è questa la sede per approfondire nel dettaglio le specificità e la disciplina di ogni singola procedura/tipologia contrattuale sopra indicata, specie con riferimento alla pubblica illuminazione.
Riteniamo, tuttavia, doveroso (ancorchè, forse, persino banale) sottolineare come le opportunità offerte dal Codice dei Contratti Pubblici non possano essere interpretate (rectius confuse) come equivalenza tra le medesime.
Non v'è dubbio, infatti, che gli istituti sopra richiamati non sono affatto equivalenti e/o simili ma assolutamente diversi nei presupposti, negli obiettivi e nel relativo svolgersi: sarà, dunque, onere del singolo ente locale individuare – nell'ipotesi in cui lo stesso decida di procedere mediante l'esternalizzazione del servizio di pubblica illuminazione – la soluzione procedurale (cui corrisponde la relativa figura contrattuale) più idonea alla situazione di fatto esistente e alle esigenze in concreto presenti.
A ben vedere, quanto sopra vale non soltanto con riferimento alla scelta del modello organizzativo generale (esternalizzazione, società mista, affidamento in house, gestione diretta in economia) ma anche, nell'ipotesi di esternalizzazione, alla definizione del perimetro dell'affidamento e delle relative modalità.
8. L'affidamento a società mista.
Come già anticipato, l'intervenuta abrogazione dell'art.4 e il vuoto normativo che ne è derivato, non esclude, tuttavia, la possibilità di ricorrere – quale modalità di gestione dei servizi pubblici economici – all'affidamento a società mista pubblico/privata il cui socio privato venga selezionato mediante gara cd. a doppio oggetto.
Tale modello di affidamento del servizio ha, ormai, assunto fondamento di rango addirittura comunitario.
Del resto la disciplina dettata dall'ormai abrogato art.4, comma 12, non era che la sintesi e il punto d'arrivo di un lungo ed articolato percorso – di tipo dottrinale, legislativo e giurisprudenziale – che ha certamente trovato un momento fondamentale nel Libro Verde della Commissione CE del 30 aprile 2004, relativo ai cd. Partenariati Pubblico Privati (PPP).
Il citato Libro Verde ha inquadrato la società mista nel novero dei PPP, definendo come tali quelle «forme di cooperazione tra autorità pubbliche e il mondo delle imprese che mirano a garantire il finanziamento, la costruzione, il rinnovamento, la gestione o la manutenzione di un'infrastruttura o la fornitura di un servizio», la cui ratio va rinvenuta nell'esigenza, da parte delle amministrazioni, di ricorrere a capitali ed energie privati al fine di garantire il reperimento delle risorse necessarie all'esecuzione di opere o servizi indispensabili alla comunità e, al tempo stesso, di rispettare i principi di efficienza, efficacia ed economicità che devono sempre sovrintendere all'azione amministrativa.
In particolare, la società mista configura una forma di PPP cd. istituzionalizzato, in quanto la collaborazione tra ente pubblico e impresa privata viene attuata tramite un'entità distinta, dotata di autonoma personalità giuridica e partecipata congiuntamente da entrambi i soggetti, che sarà chiamata a realizzare il servizio a favore dei cittadini.
Tale formula ha, peraltro, trovato espresso riconoscimento anche nel D.Lgs. n. 163/2006 (cd. Codice dei Contratti Pubblici) che, riprendendo la definizione proposta dal Libro Verde, inserisce le società miste tra i «contratti aventi per oggetto una o più prestazioni quali la progettazione, la costruzione, la gestione o la manutenzione di un'opera pubblica o di pubblica utilità, oppure la fornitura di un servizio, compreso in ogni caso il finanziamento totale o parziale a carico di privati, anche in forme diverse, di tali prestazioni, con allocazione dei rischi ai sensi delle prescrizioni e degli indirizzi comunitari vigenti» (cfr. art. 3, comma 15-ter).
Più specificamente, la creazione della società mista può avvenire secondo una duplice modalità:
· costituzione ad hoc di un nuovo soggetto a capitale misto pubblico-privato;
· ingresso di soggetti privati nel capitale di società originariamente pubbliche.
Alla scelta tra le due formule, poi, dovrebbe seguire quella legata all'entità della percentuale di capitale sociale riservata al partner privato, sotto tale aspetto distinguendosi tra società a partecipazione pubblica maggioritaria o minoritaria.
Tale differenziazione aveva, in passato, una certa importanza in quanto l'espletamento di una procedura ad evidenza pubblica era necessario esclusivamente qualora il socio privato avesse dovuto detenere la maggioranza del capitale sociale.
Tuttavia, la problematica aveva perso di importanza già con l'art. 113 TUEL, nel quale non si ritrovava più alcun riferimento all'entità della partecipazione del privato, essendo pertanto sempre prescritta, in caso di società mista, la pubblica selezione.
Tale impostazione, peraltro, è stata confermata anche dal Codice degli appalti, il cui art. 1 comma 2 prevede esplicitamente che «Nei casi in cui le norme vigenti consentono la costituzione di società miste per la realizzazione e/o gestione di un'opera pubblica o di un servizio, la scelta del socio privato avviene con procedure di evidenza pubblica. »
L'accennato difficile percorso di definizione delle caratteristiche delle società miste si è dipanato, in realtà, soprattutto intorno alla necessità o meno di una doppia gara per la scelta del socio privato e per il conseguente affidamento, al medesimo, dei compiti operativi.
La problematica, in sostanza, era la seguente: una volta selezionato, tramite procedura ad evidenza pubblica, il socio privato, è possibile che l'Ente pubblico titolare del servizio (e comproprietario della stessa società) affidi a questa “direttamente” il servizio pubblico oppure si rende necessaria una seconda gara, soltanto all'esito della quale la società mista vincitrice potrà effettivamente rendersi affidataria della gestione?
La Giurisprudenza nazionale si era dapprima pronunciata, a più riprese, nel senso della non necessità della seconda procedura (cfr. Cons. St., sez. V, 30 aprile 2002, n. 2297 e Cons. St., sez. V, 18 settembre 2003, n. 5316).
In seguito, era stato il medesimo supremo giudice amministrativo ad inserire precise limitazioni alla possibilità di eseguire una gara unica, sostenendo che l'affidamento diretto di servizi ad una società mista non contrasta con i principi comunitari qualora la procedura per la scelta del socio privato abbia rispettato determinati criteri.
Con il noto parere 18 aprile 2007, n. 456, il Consiglio di Stato aveva ritenuto, infatti, che «laddove vi siano giustificate ragioni per non ricorrere a un affidamento esterno integrale, è legittimo configurare, quantomeno, un modello organizzativo in cui ricorrano due garanzie:
1) che vi sia una sostanziale equiparazione tra gara per l'affidamento del servizio pubblico e gara per la scelta del socio, in cui quest'ultimo si configuri come un "socio industriale od operativo", il quale concorre materialmente allo svolgimento del servizio pubblico o di fasi dello stesso; il che vuol dire effettuazione di una gara che con la scelta del socio definisca anche l'affidamento del servizio operativo;
2) che si preveda un rinnovo della procedura di selezione "alla scadenza del periodo di affidamento", evitando così che il socio divenga "socio stabile" della società mista, possibilmente prescrivendo che sin dagli atti di gara per la selezione del socio privato siano chiarite le modalità per l'uscita del socio stesso (con liquidazione della sua posizione), per il caso in cui all'esito della successiva gara egli risulti non più aggiudicatario. »
Della questione era stata investita anche l'Adunanza Plenaria, la quale, tuttavia, con la pronuncia 3 marzo 2008, n. 1, non aveva preso espressamente posizione, limitandosi a sostenere che «Il modello di società mista elaborato dalla sez. II del Consiglio di Stato, con il parere n. 456/2007, rappresenta una delle possibili soluzioni delle problematiche connesse alla costituzione di tali società e all'affidamento del servizio alle stesse, anche se, in mancanza di indicazioni precise da parte della normativa e della giurisprudenza comunitaria, non è allo stato elaborabile una soluzione univoca o un modello definitivo di società mista. »
La carenza di una specifica normativa, a livello comunitario, sulla costituzione dei PPP istituzionalizzati è stata, in seguito, segnalata anche dalla Comunicazione 5 febbraio 2008 (C/2007/6661) della Commissione Europea che sottolineava la difficile praticabilità di una doppia procedura di gara.
In quella sede la stessa Commissione affermò invece «il partner privato è selezionato nell'ambito di una procedura trasparente e concorrenziale, che ha per oggetto sia l'appalto pubblico o la concessione da aggiudicare all'entità a capitale misto, sia il contributo operativo del partner privato all'esecuzione di tali prestazioni e/o il suo contributo amministrativo alla gestione dell'entità a capitale misto. La selezione del partner privato è accompagnata dalla costituzione di PPPI e dall'aggiudicazione dell'appalto pubblico o della concessione all'entità a capitale misto».
L'indicazione resa dalla Commissione Europea è stata successivamente recepita dal Legislatore italiano nella redazione della disciplina ora abrogata (il riferimento è sia all'art. 23-bis, abrogato per effetto del Referendum che all'art. 4, abrogato per effetto delle recentissima sentenza della Corte Cost.).
Infatti, l'abrogato art.4, comma 12, codificava l'orientamento comunitario affermando la possibilità di affidamento del servizio a società miste pubblico/private il cui partner privato industriale (e non mero finanziatore) fosse stato individuato previa procedura di evidenza pubblica cd. a doppio oggetto.
In altri termini, sulla scorta dell'evoluzione, sia in chiave interpretativa che giurisprudenziale, del diritto comunitario, si è giunti a codificare il principio in base al quale l'affidamento diretto alla società mista risulta giustificabile laddove:
· il partner privato sia individuato previo espletamento di una procedura di evidenza pubblica che possa far ritenesse assolto “a monte” – ovvero al momento della scelta del partner privato – il necessario confronto concorrenziale sul servizio;
· il partner privato non sia un mero finanziatore bensì un partner industriale al quale affidare specifici compiti operativi;
· la gara per l'individuazione del partner privato abbia, pertanto, ad oggetto non soltanto la selezione di un socio ma anche l'attribuzione di specifici compiti operativi;
· la partecipazione del partner privato al capitale sociale sia significativa e non elusiva e che, pertanto, il medesimo detenga una quota significativa del capitale sociale.
In altri termini, l'idea della gara unica – teorizzata sia dal Consiglio di Stato che dalla Commissione Europea – ha trovato un espresso riscontro normativo nella disciplina oggi abrogata che la declinava come cd. gara a doppio oggetto, e che la individuava come condizione di legittimità dell'affidamento di spl a favore di società a capitale misto pubblico-privato.
Tale approdo deve ritenersi tutt'ora valido e fondante la legittimità di affidamenti a favore di società miste anche in mancanza di una specifica disciplina interna che la codifichi.
Si ritiene, pertanto, che la costituzione e l'affidamento di spl a favore di società miste deve quindi avvenire attraverso una procedura ad evidenza pubblica che abbia ad oggetto, allo stesso tempo, sia l'entità della partecipazione al capitale sociale da parte del socio “privato”, sia lo svolgimento, da parte di quest'ultimo – nell'ambito della costituenda società – di specifici compiti operativi connessi al servizio pubblico oggetto della gara, le cui modalità e corrispettivo vengano individuati nel corso della procedura di selezione (cfr. Consiglio di Stato, 16 marzo 2009, n. 1555).
Inoltre, la disciplina abrogata prescriveva la necessità che al socio privato (operativo) fosse attribuito almeno il 40% del capitale sociale: la finalità di tale ulteriore requisito andava ricercata, come detto, nell'esigenza di fornire una base solida, anche dal punto di vista dell'assetto proprietario della società, all'impresa privata chiamata, in concreto, ad eseguire il servizio pubblico.
Con riferimento all'entità della quota di partecipazione del partner privato alla società, riteniamo che – in mancanza di una norma espressa che prescriva una misura minima – sarebbe astrattamente ammissibile anche una quota minore ma che comunque consenta di ritenere sostanzialmente rispettata la ratio di fondo.
Infine, occorre sottolineare come l'abrogato art.4, comma 12, dettava specifiche prescrizioni relative al bando di gara o alla lettera di invito relative all'ipotesi di gara per l'individuazione del partner privato di una società mista (che andavano ad aggiungersi a quelle già evidenziate nel precedente paragrafo relativo alle cd. esternalizzazioni).
In particolare, la citata disposizione prevedeva che «il bando di gara o la lettera di invito assicura che:
a) i criteri di valutazione delle offerte basati su qualità e corrispettivo del servizio prevalgano di norma su quelli riferiti al prezzo delle quote societarie;
b) il socio privato selezionato svolga gli specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio per l'intera durata del servizio stesso e che, ove ciò non si verifica, si proceda a un nuovo affidamento;
c) siano previsti criteri e modalità di liquidazione del socio privato alla cessazione della gestione».
Come si vede, le suddette disposizioni mirano a conferire alla partecipazione delle imprese private in società miste un'impronta decisamente operativa, legata alla concreta esecuzione del servizio pubblico posto a gara, al fine di escludere l'ipotesi di soci cd. finanziatori, molto frequente nel passato e contrastante con le più recenti prescrizioni comunitarie.
A ben vedere, le disposizioni in commento rappresentavano la codificazione in ambito nazionale di specifiche osservazioni formulate dalla Commissione Europea con specifico riferimento ai PPP di tipo istituzionalizzato e, pertanto, allo stato attuale, anche in mancanza di una norma nazionale interna che le codifichi e le recepisca, devono comunque intendersi richiamate e operanti nel nostro ordinamento stante l'applicazione del quadro normativo comunitario.
In conclusione, dunque, nel confermare la piena legittimità e utilizzabilità del modello della società mista, si ritiene di dovere precisare che la stessa è subordinata all'espletamento di una gara (unica) per l'individuazione del socio privato che dovrà avere un doppio oggetto:
· l'uno relativo alle modalità di partecipazione al capitale sociale, dal punto di vista sia tecnico (tipo di governance e piano industriale) che economico (valore delle azioni o delle quote);
· l'altro relativo alle condizioni del servizio oggetto dell'affidamento, anche qui con riferimento all'aspetto tecnico (modalità di svolgimento e progetto operativo) e a quello economico (corrispettivo richiesto).
9. L'affidamento diretto a società in house.
L'intervenuta abrogazione del citato art.4 a la conseguente diretta applicazione della normativa comunitaria – almeno fino ad un nuovo intervento legislativo interno – determina effetti rilevantissimi in ordine alla possibilità di affidare spl (e tra questi, dunque, anche la pubblica illuminazione) a società a totale capitale pubblico conformi al modello in house providing.
Si è già evidenziato come la più recente normativa previgente in materia (l'art.23-bis prima e l'art.4 poi) avesse relegato tale modulo organizzativo e gestionale – fin lì largamente utilizzato e forse fin troppo abusato – a modello eccezionale e derogatorio rispetto a quelli fondati su procedure d'evidenza pubblica (l'esternalizzazione e la società mista) utilizzabile solo in casi molto limitati e circoscritti e nel rispetto di ben precise condizioni procedimentali.
Da un lato, l'art.23-bis (poi abrogato per effetto del Referendum):
· consentiva l'affidamento in house solo in presenza di «situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato»;
· in ogni caso limitava tale modello per affidamenti di importo molto limitati (non superiori a 900.000 € annui);
· infine, prescriveva lo svolgimento di un'analisi di mercato che accertasse l'effettiva sussistenza delle condizioni sopra richiamate e il vaglio dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato su tale attività istruttoria.
Dall'altro lato, l'art.4 (emanato in conseguenza dell'abrogazione dell'art.23-bis e oggi a sua volta abrogato per effetto della richiamata sentenza della Corte Cost.) – pur rimuovendo le altre condizioni poste dalla precedente disciplina – ha espressamente qualificato tale modalità di affidamento come «deroga a quanto previsto dai commi 8, 9, 10, 11 e 12», limitato ulteriormente la portata degli affidamenti in house ai casi in cui «il valore economico del servizio oggetto dell'affidamento è pari o inferiore alla somma complessiva di 200.000 euro annui».
E' di tutta evidenza che la particolare limitazione quantitativa del valore degli affidamenti in house finiva, in concreto, col rendere tale modello inutilizzabile.
Sennonché, come detto, l'intervenuta abrogazione dell'art.4 rende direttamente applicabile nel nostro ordinamento interno, la disciplina comunitaria che non prevede limiti alla possibilità di affidamenti in house (se non, ovviamente, quelli connaturati e propri del modello medesimo ovvero i principi affermati dalla giurisprudenza comunitaria e poi recepiti anche da quella nazionale).
Sulla scorta di tali principi, ormai pacificamente consolidati, due sono gli elementi fondamentali che contraddistinguono un affidamento in-house e che, pertanto, si configurano come altrettante condizioni di legittimità dell'affidamento medesimo:
· l'amministrazione aggiudicatrice deve esercitare sul soggetto affidatario un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri organi ed uffici;
· il soggetto affidatario deve svolgere la maggior parte della propria attività in favore dell'ente pubblico di appartenenza.
Conseguentemente, in ragione della sussistenza del duplice requisito del “controllo analogo” e della “destinazione prevalente dell'attività”, «l'ente in house non può ritenersi terzo rispetto all'amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell'amministrazione stessa (principi affermati dalla Corte di Giustizia a partire dalla sentenza Teckal del 18 novembre 1999, C-107/98» (cfr. TAR Puglia, Lecce, Sez. II, 4.10.2007 n. 3436; in senso conforme Consiglio di Stato, Sez. VI, 3.4.2007 n. 1514).
Data l'assenza di una definizione normativa di “controllo analogo”, la Giurisprudenza è intervenuta più volte ad esplicitare cosa debba intendersi con tale espressione, affermando che affinché possa sussistere tale forma di controllo è necessario che:
· il capitale sociale della società sia totalmente detenuto da soggetti pubblici;
· lo statuto della società vieti espressamente l'ingresso di capitale privato, anche minoritario, nella compagine sociale;
· il consiglio di amministrazione della società non abbia rilevanti poteri gestionali e all'ente pubblico controllante sia consentito esercitare poteri maggiori rispetto a quelli che il diritto societario riconosce normalmente alla maggioranza sociale;
· pertanto le decisioni più importanti e strategiche e/o di tipo straordinario siano comunque poste a conoscenza dell'ente affidante;
· l'impresa non abbia acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo dell'ente pubblico e che risulterebbe, tra l'altro, dall'ampliamento dell'oggetto sociale, dall'apertura obbligatoria della società, a breve termine, ad altri capitali, dall'espansione territoriale dell'attività della società a tutta l'Italia e all'estero.
L'ulteriore requisito della “destinazione prevalente dell'attività” è finalizzato a tutelare le regole della concorrenza, che risulterebbero violate nel caso di un affidamento in via diretta ad un'impresa che opera a tutti gli effetti sul mercato, posto che tale impresa godrebbe di una posizione di sicuro privilegio rispetto e tutti gli altri possibili concorrenti.
Secondo la Giurisprudenza, nel valutare se un'impresa svolga la parte più importante della propria attività con l'ente pubblico che ne detiene il capitale, occorre tener conto di tutte le attività realizzate da tale impresa, indipendentemente da chi remunera l'attività e dal territorio sul quale sono erogati i servizi: nell'ambito di tale complesso di attività – perché possa parlarsi correttamente di in-house – ogni prestazione svolta dall'impresa a favore di soggetti diversi dall'ente affidante deve rivestire carattere assolutamente marginale.
10. La gestione diretta del servizio da parte dell'Ente.
Tra le diverse modalità di gestione del servizio occorre prendere in considerazione – viepiù a seguito della sentenza della Corte costituzionale – la possibilità per l'Ente di gestire il servizio in via diretta.
Tale modalità, talvolta “offuscata” dal dominante dibattito in merito alla ‘privatizzazione' dei servizi pubblici, è in verità un istituto vigente e ammissibile al pari degli altri già analizzati, al ricorrere delle condizioni di fatto e di diritto previste.
Una prima (e decisa) apertura in tal senso è addirittura avvenuta in vigenza dell'art. 23 bis ad opera del Consiglio di Stato con la sentenza n. 522/2011, in tema di illuminazione votiva.
In primo luogo, i Giudici di Palazzo Spada evidenziavano “la distinzione tra gestione diretta (sempre praticabile dall'ente locale, soprattutto quando si tratti di attività di modesto impegno finanziario, come nella specie: poche migliaia di euro all'anno) ed affidamento diretto, postulante la scelta di attribuire la gestione di un servizio all'esterno del comune interessato, il che non può accadere se non mediante gara ad evidenza pubblica”.
In tale occasione il Supremo Collegio ha affermato, non senza qualche enfasi, che “appartiene, in realtà, alla dimensione dell'inverosimile immaginare che un comune di non eccessiva grandezza non possa gestire direttamente un servizio come quello dell'illuminazione votiva cimiteriale, esigente solo l'impegno periodico di una persona e la spesa annua di qualche migliaio di euro, laddove l'esborso sarebbe notoriamente ben maggiore solo per potersi procedere a tutte le formalità necessarie per la regolare indizione di una gara pubblica[…]”(nei termini, sent. ult. cit).
Sicuramente l'obiter dictum dei Giudici amministrativi apre la strada ad una ‘ri-espansione' delle modalità di gestione diretta da parte della Pubblica amministrazione che necessita comunque di un'approfondita valutazione sistematica e teorica, che non alteri ancor più il già instabile quadro normativo.
Non è da escludere, tuttavia, anche ai fini di evitare abusi ai fini contabili e di bilancio, un intervento del legislatore nazionale anche su questo piano, ampliando così lo spettro di potenzialità rimesse alle Amministrazioni locali.
La peculiarità di tale affidamento – tale solo per la difficoltà tecnico/economica che eventualmente può incontrare, ma non certo per la sua “cogenza” – non deve però essere presa in considerazione con quell'approccio, talvolta manicheo, che ha accompagnato il tema delle modalità di gestione dei servizi pubblici.
Infatti, la duttilità che deve accompagnare le scelte dell'Amministrazione, guidate dal rispetto dei principi di economicità e buon andamento, non impedisce alla stessa di gestire il servizio in via diretta potendo però appaltare (ad esempio mediante appalto di lavori) a terzi alcune opere straordinarie o di particolare livello tecnologico, sì da poter usufruire di competenze e mano d'opera specialistica per quello specifico intervento, pur lasciando nelle mani dell'Amministrazione la gestione dell'intero servizio.
In altri termini, la segmentazione del servizio – anche solo transeunte – consente all'Ente di poter adattare alle specifiche esigenze gli strumenti messi a disposizione dalla normativa, esternalizzando laddove necessario e possibile, mantenendo comunque una gestione diretta del servizio.
D'altro canto, tale approccio (ossia di consentire duttilità e adeguatezza all'agire amministrativo) dovrebbe rappresentare – in attesa di maggior sensibilizzazione in tal senso da parte del Legislatore nazionale – il modus operandi che orienta il tema dei servizi pubblici locali.
Ma allo stato, e non senza qualche amarezza rispetto al tempo perso e alle direzioni imboccate, simile constatazione sembra non trovare piena cittadinanza nelle sedi di elaborazione legislativa.
11. La scadenza anticipata degli affidamenti in essere.
Uno dei principali effetti pratici dell'intervenuta abrogazione dell'art.4 – oltre alla riproposizione del modulo della società in house providing quale modello di gestione dei spl di rilevanza economica (ivi inclusa la pubblica illuminazione) – è certamente rappresentato dal venir meno della scadenza anticipata dei precedenti affidamenti.
Infatti, l'art.4 – oltre a delineare il nuovo assetto del settore dei spl – prevedeva la scadenza anticipata ex lege di tutti gli affidamenti in essere che non fossero conformi al nuovo quadro normativo introdotto dallo stesso art.4.
Senza in questa sede volere entrare nel dettaglio dell'analitica disciplina sancita dal precedente art.4, comma 32, ci limitiamo ad osservare che la norma prevedeva la progressiva anticipata scadenza di tutti gli affidamenti (posti in essere prima dell'entrata in vigore dello stesso art.4) non più in linea con la nuova disciplina.
In via meramente esemplificativa, il richiamato comma 32, prevedeva:
· la scadenza anticipata al 31.12.2012, per le forme di esternalizzazione a terzi poste in essere senza gara e/o con gara non conforme ai principi comunitari;
· la scadenza anticipata al 31.12.2012, per gli affidamenti in house di importo superiore ad € 200.000 annui;
· la scadenza anticipata al 31.03.2012 per gli affidamenti a favore di società miste costituite senza la gara a doppio oggetto;
· uno speciale regime a garanzia della conservazione degli affidamenti posti in essere a favore delle società a partecipazione pubblica quotata in borsa a condizione della progressiva riduzione della partecipazione pubblica mediante procedure di privatizzazione e/o collocamento sul mercato.
Conseguentemente, la predetta disciplina obbligava i singoli Comuni a verificare la compatibilità degli affidamenti dei spl (ivi inclusa la pubblica illuminazione) e – nell'ipotesi di non conformità rispetto al nuovo regime introdotto dallo stesso art.4 – li obbliga a procedere mediante procedure competitive.
Sennonché l'intervenuta abrogazione dell'art.4 (ivi incluso dunque il comma 32 in commento) fa venire meno la scadenza anticipata ope legis degli affidamenti eventualmente non conformi, con la conseguenza che – allo stato e fatto salvo ogni eventuale successivo intervento legislativo in materia – tutti gli affidamenti in essere proseguono fino alla scadenza naturale (stabilita negli atti di affidamento e/o nei relativi contratti).
Parimenti dicasi per la previsione di cui all'abrogato art.4, comma 33 che poneva il divieto – per tutte le società in qualunque modo affidatarie dirette di spl ovvero dalle medesime controllate e/o controllanti – di acquisire nuovi affidamenti, anche mediante la partecipazione a gare pubbliche.
La norma – già introdotta dall'art.23-bis, poi abrogata per effetto del Referendum e di seguito re-introdotta con l'art.4 – aveva una significativa importanza sul piano operativo poiché impediva la partecipazione alle gare di tutte le società (in specie quelle pubbliche) che avevano beneficiato di affidamenti diretti e che, come tali, potevano godere di un vantaggio in grado di alterare il libero confronto concorrenziale sul mercato con altri operatori.
L'intervenuta abrogazione dell'art.4 (e dunque dello stesso comma 33) pone nel nulla il divieto in commento con la conseguenza che – in mancanza di un divieto normativo espresso – deve, allo stato, ritenersi pienamente ammissibile la partecipazione alle gare di imprese (pubbliche e/o private e/o miste) che (a seconda dei casi) siano titolari di affidamenti diretti, ovvero in house ovvero non conformi ai principi comunitari in tema di evidenza pubblica ovvero non preceduti dall'espletamento di una gara cd. a doppio oggetto.
12. La proprietà degli impianti.
Tra le disposizioni abrogate – per effetto della pronuncia della Corte Costituzionale in merito all'art.4 – particolarmente significative (anche con riferimento alla pubblica illuminazione) appaiono quelle relative al regime della proprietà degli impianti.
Il riferimento è, nello specifico, alle disposizioni di cui ai commi 28, 29, 30 e 31 che testualmente disponevano:
«28. Ferma restando la proprietà pubblica delle reti, la loro gestione può essere affidata a soggetti privati.
29. Alla scadenza della gestione del servizio pubblico locale o in caso di sua cessazione anticipata, il precedente gestore cede al gestore subentrante i beni strumentali e le loro pertinenze necessari, in quanto non duplicabili a costi socialmente sostenibili, per la prosecuzione del servizio, come individuati, ai sensi del comma 11, lettera f), dall'ente affidante, a titolo gratuito e liberi da pesi e gravami.
30. Se, al momento della cessazione della gestione, i beni di cui al comma 29 non sono stati interamente ammortizzati, il gestore subentrante corrisponde al precedente gestore un importo pari al valore contabile originario non ancora ammortizzato, al netto di eventuali contributi pubblici direttamente riferibili ai beni stessi. Restano ferme le disposizioni contenute nelle discipline di settore, anche regionali, vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonché restano salvi eventuali diversi accordi tra le parti stipulati prima dell'entrata in vigore del presente decreto.
31. L'importo di cui al comma 30 è indicato nel bando o nella lettera di invito relativi alla gara indetta per il successivo affidamento del servizio pubblico locale a seguito della scadenza o della cessazione anticipata della gestione».
La disciplina sopra indicata – oggi abrogata come tutto l'art.4 – era particolarmente significativa e rilevante proprio con riferimento al servizio di pubblica illuminazione in quanto forniva riferimenti molto utili proprio nell'ambito delle procedure di affidamento del servizio e di regolazione dei rapporti tra Ente locale e gestore uscente, in relazione al tema della proprietà delle reti.
Non v'è dubbio che, con riferimento a tale profilo, l'intervenuta abrogazione dell'art.4 (e dunque anche delle disposizioni in commento) privi gli operatori di importanti riferimenti normativi; beninteso, tuttavia, che le predette disposizioni si limitavano a codificare principi ormai consolidati nell'ordinamento emersi soprattutto in via giurisprudenziale.
In primo luogo, con specifico riferimento al tema della proprietà delle reti e degli impianti di pubblica illuminazione è di tutta evidenza la funzionalità degli stessi all'erogazione di un pubblico servizio: ciò non di meno, sono tutt'altro che rare le ipotesi in cui tali impianti risultino di proprietà privata, in quanto realizzati dal gestore (pubblico o privato: si pensi all'ipotesi di società controllate da ex monopolisti pubblici ovvero agli impianti realizzate dalle vecchie municipalizzate o ancora a quelli realizzati da privati nell'ambito di un rapporto di concessione affidatagli dall'Ente locale).
Appare evidente che, in tutti i casi, si tratta di beni destinati (e/o strumentali all'erogazione) ad un pubblico servizio sicché non può essere revocata in dubbio la natura pubblicistica del regime proprietario (sostanzialmente riconducibili al patrimonio indisponibile).
Occorre poi distinguere tra:
· le reti e gli impianti che vengono realizzati dal gestore del servizio durante il relativo periodo di affidamento;
· gli impianti preesistenti all'affidamento.
Non potendo in questa sede diffonderci oltremodo sull'argomento, si ritiene – fatta salva una diversa e specifica regolamentazione negli eventuali contratti di servizio e/o atti di affidamento esistenti e richiamando per analogia l'esperienza maturata con riferimento al settore della distribuzione gas – che:
· i primi nascono nella titolarità del gestore e sono successivamente trasferiti all'Ente locale che, pertanto, ne acquista la proprietà ex post;
· i secondi sono già di proprietà dell'Ente locale che, pertanto, ne trasferisce al gestore la mera disponibilità.
Anche con riferimento alla pubblica illuminazione – così come già sperimentato con riferimento al servizio pubblico di distribuzione gas – il trasferimento delle reti e degli impianti realizzati dal gestore durante il periodo di affidamento avviene attraverso la cd. devoluzione che (nei termini regolamentati negli atti di affidamento/concessione/contratto di servizio) può essere gratuita ovvero onerosa.
Nella prassi – salvo che non sia prevista la devoluzione gratuita – la devoluzione onerosa viene disciplinata attraverso il rinvio ai criteri di cui all'art.24 del R.D. n.2578/1925.
In altri termini, in molti casi, i vigenti contratti di servizio (e/o atti di concessione e/o di affidamento, comunque denominati) prevedono che, alla scadenza dell'affidamento, la proprietà degli impianti realizzati dal gestore venga trasferita all'ente locale titolare a fronte del pagamento, da parte di quest'ultimo, del cd. “valore industriale residuo” dei medesimi impianti determinato secondo i criteri di cui all'art. 24 del R.D. n. 2578/1925: ovvero tenendo conto:
· del valore industriale dell'impianto, del tempo trascorso dall'effettivo avvio dell'esercizio e dagli eventuali ripristini;
· di eventuali contributi pubblici e/o altre agevolazioni percepite dal gestore.
La valutazione del “valore industriale residuo” eventualmente da riconoscere al gestore uscente è operazione di particolare importanza è delicatezza che presuppone la redazione del cd. stato di consistenza dell'impianto sulla quale si incardina la vera e propria operazione di stima/calcolo del predetto valore.
Particolare importanza riveste la redazione del cd. “stato di consistenza”, ovvero del documento che – costituendo una sorta di fotografia dell'impianto – ne descrive lo stato, l'estensione, le condizioni, le operazioni di manutenzione, sostituzione, rinnovo eventualmente effettuati dal gestore nel corso dell'affidamento.
Lo stato di consistenza costituisce la base del calcolo del valore residuo.
Appare di tutta evidenza, da un lato la delicatezza dall'altro lato la complessità di tale fase tecnico-amministrativa, anche in considerazione della rilevanza degli interessi pubblici sottostanti e i rischi connessi (anche in relazione ad eventuali profili di carattere erariale).
Proprio con riferimento alle ipotesi di devoluzione onerosa degli impianti alla scadenza dell'affidamento, si pone il problema di considerare cosa accade nell'ipotesi di mancato accordo tra ente locale e gestore uscente in ordine al valore industriale residuo che l'ente locale è tenuto a corrispondere al gestore uscente.
A tal proposito, pare opportuno richiamare di seguito una recente pronuncia del TAR Lombardia – Brescia, relativa ad una ipotesi di contrasto tra gestore uscente ed ente locale in ordine alla individuazione del valore di riscatto di un impianto di distribuzione del gas: si tratta di un settore che il TAR ritiene analogo a quello della pubblica illuminazione, con la conseguenza che molte soluzioni alle quali è pervenuta la Giurisprudenza in tema di distribuzione gas possono essere ritenute valide anche per il servizio in commento.
In particolare, ad avviso dei Giudici amministrativi «La normativa di cui al regolamento approvato con DPR 902/86 non subordina la possibilità del riscatto al previo raggiungimento di un accordo tra le parti sullo stato di consistenza prima e sulla quantificazione dell'indennizzo poi. Il sistema delineato dalla legge, infatti, prevede espressamente la possibilità, in caso di mancato accordo, di rimettere la questione ad un apposito collegio arbitrale, ma in nessun punto è espressamente previsto che il trasferimento degli impianti risulti procrastinato ad un momento successivo all'avvenuta definizione e liquidazione dell'indennizzo dovuto. In altre parole la disciplina applicata non detta alcuna specifica disposizione in ordine agli effetti traslativi della proprietà degli impianti nelle more della definizione della controversia per la quantificazione dell'indennità dovuta ed in particolare non prevede alcun diritto di ritenzione da parte del concessionario che, quindi, non può vantare alcuno strumento privilegiato di tutela del proprio credito eventuale. A tale proposito la giurisprudenza ha già avuto modo di affermare, ancorché con riferimento al servizio di distribuzione del gas, che se una controversia sulla quantificazione del “rimborso” potesse mantenere nel possesso il gestore uscente, si realizzerebbe un prolungamento del rapporto concessorio esclusivamente per volontà di una delle parti senza oggettive ragioni di interesse pubblico, incompatibile con i principi che regolano il mercato. Tale principio appare attagliarsi perfettamente anche al riscatto del servizio di illuminazione pubblica, in relazione all'esercizio del quale il Comune deve essere ritenuto libero di individuare la modalità che meglio garantisce efficacia ed economicità del servizio stesso nel rispetto della legge.» (cfr. sentenza n. 2165/2010).
L'assenza di un diritto di ritenzione da parte del gestore uscente è stata confermata anche dal Consiglio di Stato, ad avviso del quale «L'esercizio del diritto di riscatto non è in alcun modo subordinato al previo raggiungimento di un accordo tra le parti sullo stato di consistenza o sulla quantificazione dell'indennizzo, in quanto la mancata definizione consensuale della questione patrimoniale, senza paralizzare l'esercizio del potere pubblicistico di disporre il riscatto, implica la rimessione della controversia economica ad un apposito collegio arbitrale» (cfr. sentenza n. 5403/2011).
In altri termini, alla stregua del consolidato orientamento giurisprudenziale, si ritiene che il mancato accordo tra le parti in ordine al cd. valore industriale residuo che l'ente locale è tenuto a riconoscere al gestore uscente alla scadenza dell'affidamento, non fa sorgere alcun diritto di ritenzione in capo al gestore uscente.
Conseguentemente – nelle more della definizione giudiziale della vicenda e dunque dell'accertamento del predetto valore – il gestore non può impedire l'espletamento della gara e/o il subentro del nuovo gestore nella disponibilità degli impianti medesimi.
13. La facoltà di riscatto anticipato.
Senza la pretesa della esaustività e della completezza, occorre tuttavia distinguere – nella prospettiva di prevenire fuorvianti equivoci interpretativi – l'ipotesi descritta nel paragrafo precedente, dell'eventuale riconoscimento al gestore uscente (al momento della scadenza naturale dell'affidamento) di una somma a titolo di riconoscimento del valore industriale residuo degli impianti (ove i relativi contratti prevedano forme di devoluzione onerosa) dall'ipotesi di riscatto anticipato.
Il riscatto è un istituto in forza del quale l'amministrazione risolve anticipatamente (rispetto alla scadenza prevista) il rapporto concessorio e, al tempo stesso, di impossessa (o acquisisce la proprietà) degli impianti che il concessionario abbia ricevuto (o realizzato durante) per l'esercizio della concessione medesima.
La facoltà di riscatto anticipato venne introdotta con la L. n.103/1903 e successivamente regolata dal R.D. n.2578/1925 e dal relativo regolamento d'attuazione di cui al D.P.R. n.902/1986.
La disciplina sopra indicata, individua una serie di condizioni alle quali è subordinato l'esercizio del diritto di riscatto:
· che la facoltà di riscatto anticipato sia prevista nel relativo atto/contratto di concessione/affidamento;
· che sia decorso un congruo periodo di tempo dall'inizio della concessione (almeno 1/3 della durata complessiva prevista e comunque almeno 10 anni);
· che venga fornito un preavviso di almeno 1 anno;
· che venga corrisposta al gestore uscente un'indennità determinata in funzione: a) del valore industriale residuo dell'impianto; b) del danno emergente; c) del lucro cessante; d) delle somme già incassate dal gestore uscente.
Il richiamato D.P.R. n.902/1986 disciplina, tra l'altro, il procedimento relativo al riscatto anticipato prevedendo:
· che la manifestazione di volontà dell'ente di avvalersi della facoltà di riscatto anticipato venga adottata con deliberazione del consiglio comunale;
· che la medesima venga notificata al gestore entro i successivi 30 giorni;
· che, nei successivi 30 giorni, il gestore proceda alla redazione dello stato di consistenza dell'impianto;
· che, l'ente svolga anche autonomamente ed in contraddittorio le proprie valutazioni in ordine alle quantificazione dell'indennizzo da corrispondere al gestore uscente;
· che, in caso di disaccordo tra le parti, la quantificazione dell'indennizzo venga rimessa ad un collegio arbitrale.
E' importante sottolineare come la giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, n.7124/2005) abbia evidenziato la necessità che il gestore uscente presti con correttezza e buona fede la propria collaborazione nei confronti dell'ente.
Del resto, già la disciplina posta dagli artt. 8 e ss. del D.P.R. n.902/1986 mostra come la definizione degli elementi tecnico-economici ivi richiamati non possa prescindere dall'apporto collaborativo del gestore uscente, in quanto:
· spetta al gestore uscente redigere lo stato di consistenza dell'impianto (che è essenziale per la determinazione del valore industriale residuo e la quantificazione dell'indennizzo);
· in ogni caso, il gestore uscente è tenuto a mettere a disposizione dell'ente i documenti pertinenti affinché questi possa utilmente procedere, in contraddittorio, alla quantificazione dell'indennizzo.
Come già evidenziato nel paragrafo che precede, occorre sottolineare che anche con riferimento alla distinta ipotesi di riscatto anticipato, in caso di disaccordo tra le parti in ordine al quantum dell'indennizzo, il gestore uscente non ha alcun diritto di ritenzione sicché è comunque tenuto al rilascio degli impianti nelle more della definizione – per via contenziosa – della determinazione del valore del citato indennizzo.
25-11-2012 22:44
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