Sanzione e trasferimento a altro ufficio per un Comandante della Polizia Municipale che ha patteggiato una sentenza penale per tentata concussione
Legittimi la revoca prefettizia del riconoscimento della qualifica di agente di Pubblica Sicurezza e il trasferimento
Consiglio di Stato Sez. Quinta - Sent. del 11.11.2011, n. 5969
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9845 del 1999, proposto da C. V. ,
contro
Comune di S. , rappresentato e difeso dall'avv. Corrado De Simone, con domicilio eletto presso Angelo Clarizia in Roma, via Principessa Clotilde 2;
Prefettura di Latina, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi 12;
sul ricorso numero di registro generale 10481 del 1999, proposto dal Comune di S. , rappresentato e difeso dall'avv. Corrado De Simone, con domicilio eletto presso Roberta Carta in Roma, piazza Mancini 4;
contro
C. V. ,
nei confronti di
Prefettura di Latina, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi 12;
per la riforma
entrambi i ricorsi
della sentenza del T.a.r. Lazio - Sez. Staccata di Latina n. 368/1999, resa tra le parti, concernente TRASFERIMENTO e SANZIONE DISCIPLINARE
Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 ottobre 2011 il Cons. Nicola Gaviano e uditi per le parti gli avvocati Z. e, per l'Avvocatura Generale dello Stato, Borgo;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Con quattro distinti ricorsi al TAR per il Lazio - Sezione di Latina il sig. V. C. , già comandante della Polizia municipale del comune di S. , impugnava rispettivamente:
- l'atto sindacale del 15/10/1997 che, a seguito dell'avvenuto patteggiamento da parte sua della pena di otto mesi di reclusione per l'accusa di tentata concussione, e per l'inopportunità della sua ulteriore permanenza nella posizione di servizio fino ad allora ricoperta, lo assegnava all'ufficio Anagrafe e stato civile;
- la deliberazione della locale Giunta municipale del 9/10/1997 che per gli stessi fatti emersi gli aveva inflitto la sanzione disciplinare della censura;
- il decreto del Prefetto di Latina del 15/1/1994 che gli aveva revocato il riconoscimento della qualifica di agente di p.s. per essere venuti meno, a seguito dell'intervenuto patteggiamento penale, i requisiti prescritti dall'art. 5 della legge n. 65 del 1986;
- la deliberazione della medesima Giunta del 30/10/1997, recante individuazione dei responsabili dei servizi comunali, nella parte in cui assegnava all'interessato la responsabilità dei servizi demografici e collegati.
Resistevano alle impugnative del C. il comune di S. e -per quanto di suo interesse- l'Amministrazione dell'Interno.
Il TAR adìto, riuniti i ricorsi, con la sentenza n. 368/1999 in epigrafe li respingeva tutti ad eccezione del secondo, ritenendo, quanto al medesimo, che l'avversata sanzione della censura fosse stata inflitta a procedimento ormai già perento, per il mancato rispetto dei termini prescritti per la sua conduzione e conclusione.
Quest'ultimo capo della sentenza veniva impugnato mediante appello da parte del Comune interessato; la reiezione degli altri tre ricorsi formava invece oggetto di appello dello stesso C. , articolato su sei motivi d'impugnazione, con i quali si insisteva, in particolare, sulla tesi della non equiparabilità della pronuncia applicativa del patteggiamento ad una sentenza penale di condanna.
Resistevano anche in questo grado di giudizio il comune di S. e l'Amministrazione dell'Interno, che con le loro memorie deducevano -il Comune- la sopravvenuta carenza di interesse a ricorrere dell'appellante a seguito dell'avvenuto suo collocamento in quiescenza, e comunque -entrambe le Amministrazioni- l'infondatezza dell'appello.
Correlativamente, l'appello del Comune veniva contrastato con memoria dall'interessato, che ne deduceva l'infondatezza.
Alla pubblica udienza del 21 ottobre 2011 gli appelli sono stati trattenuti in decisione.
I due gravami, che investono la stessa sentenza, devono essere riuniti in un solo processo, in applicazione dell'art. 96, comma 1, C.P.A., ai fini della loro unitaria decisione.
Ciò premesso, entrambi gli appelli sono infondati.
La trattazione delle impugnative può iniziare dalla disamina di quella proposta dal sig. C.
1 Al riguardo va subito rilevato che l'eccezione comunale circa la sopravvenuta carenza di interesse al ricorso di primo grado che si vorrebbe far discendere dall'intervenuto pensionamento dell'originario ricorrente non può essere accolta, per lo meno nei lati termini in cui è stata formulata, poiché non è compatibile con il principio della sufficienza di un interesse anche solo morale di un amministrato a sorreggerne l'impugnativa giurisdizionale. Si vedrà peraltro nel prosieguo (infra, al n. 7) che una sopravvenuta carenza di interesse risulterà effettivamente opponibile dinanzi alla riproposizione, da parte del ricorrente, dell'originario suo terzo ricorso di primo grado, quello proposto avverso la revoca prefettizia del riconoscimento della qualifica di agente di p.s., una volta che sarà stata confermata la legittimità (già riconosciuta dal primo Giudice) dei provvedimenti amministrativi sub judice vertenti sulla nuova assegnazione di servizio data al C.
L'appello del dipendente, tuttavia, è nel suo insieme infondato.
2 Con il secondo motivo di appello, dalla cui ricognizione conviene partire, il deducente espone che il provvedimento sindacale del 15/10/1997 che lo aveva assegnato all'ufficio Anagrafe e stato civile, poiché richiamava a proprio fondamento sia la delibera di Giunta che aveva inflitto all'appellante la sanzione della censura, sia il decreto prefettizio del 15/1/1994 di revoca al medesimo della qualifica di agente di p.s., sia, infine, la situazione conseguente alla sentenza di patteggiamento, doveva ritenersi affetto da invalidità derivata, come conseguenza dell'illegittimità dell'anzidetto provvedimento disciplinare già riconosciuta dal primo Giudice. Altra ragione di illegittimità dell'atto sindacale sarebbe poi scaturita dal fondarsi, tale provvedimento, su di un atto, il citato decreto prefettizio di revoca, che mai prima era stato portato a conoscenza dell'interessato.
2a I rilievi appena esposti sono stati peraltro già esaminati e motivatamente respinti dal primo Giudice con la sentenza che forma oggetto dei presenti appelli (pagg. 8-9), pronuncia avverso le cui analitiche argomentazioni non è stata portata dall'interessato alcuna puntuale critica, ma semplicemente riproposta l'originaria impostazione ricorsuale. Il T.A.R. ha disatteso il primo rilievo ricordando il pacifico principio per cui, quando un provvedimento amministrativo è retto da una pluralità di ragioni giustificative tra loro autonome, è sufficiente per la sua legittimazione la fondatezza anche di una sola di esse, e facendo conseguentemente notare che il richiamo del provvedimento sindacale alla precedente sanzione disciplinare inflitta al ricorrente avrebbe potuto essere tranquillamente espunto senza mettere a repentaglio in alcun modo la stabilità del fondamento dell'atto del sindaco. Quanto al secondo rilievo, il primo Giudice ha osservato che la mera non conoscenza, da parte di un amministrato, di atti richiamati in un provvedimento che lo concerne, non costituisce ex se un motivo di illegittimità di quest'ultimo, ma può semplicemente dare luogo alla proposizione di motivi aggiunti una volta che gli atti prima ignoti siano stati conosciuti.
2b Entrambe le argomentazioni sono rimaste, tuttavia, prive della confutazione che sarebbe stato onere dell'appellante proporre. Secondo l'insegnamento giurisprudenziale, infatti, non può ammettersi nell'atto di appello la mera riproposizione dei motivi di primo grado ove compiutamente disattesi dal T.A.R., senza che sia stata sviluppata alcuna confutazione della statuizione del giudice di primo grado. Nel giudizio di appello, che non è un iudicium novum, la cognizione del giudice investe le questioni dedotte dall'appellante attraverso l'enunciazione di specifici motivi, e tale requisito di specificità dei motivi esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell'appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime (C.d.S., IV, 9 ottobre 2010, n. 7384). La parte soccombente, quando adisce il giudice di appello, non può, pertanto, limitarsi a riproporre i motivi di doglianza già dedotti e disattesi dal primo Giudice, ma deve anche indicare le ragioni per le quali le conclusioni cui quest'ultimo è pervenuto non potrebbero essere condivise: nell'attuale sistema di giustizia amministrativa il giudizio di primo grado non è difatti un passaggio obbligato che il soggetto è costretto suo malgrado a percorrere pur di giungere dinnanzi al Giudice di appello, e ottenere da questi la decisione finale sulla fondatezza della pretesa, ma è una fase essenziale del processo amministrativo, nel corso della quale il giudice adito confronta le opposte tesi e dichiara quale va ritenuta fondata (V, 17 ottobre 2008, n. 5065). Da qui l'onere dell'appellante di investire puntualmente il decisum di prime cure e, in particolare, di precisare i motivi per cui questo sarebbe erroneo e da riformare (V, 6 ottobre 2009, n. 6094, e 23 dicembre 2008, n. 6535; VI, 24 aprile 2009, n. 2560, e 9 settembre 2008 , n. 4300).
2c E' poi importante osservare che nell'economia del provvedimento sindacale del 15/10/1997, pur venendo richiamata una molteplicità di dati, la motivazione conferita all'atto assegna senza dubbio valenza prioritaria, nel giustificare e sorreggerne il dispositivo, al profilo relativo alla sostanziale incompatibilità della vicenda penale che aveva attinto il C. con una sua ulteriore permanenza nella delicata posizione di responsabilità fino ad allora ricoperta. Nel testo dell'atto, appunto, si legge : “Rilevato che l'incresciosa conclusione del procedimento penale rende incompatibile la permanenza del dipendente al vertice del settore di vigilanza, che tra l'altro, per la natura degli affari trattati, necessita di una assoluta trasparenza ed in sospettabilità”.
3 Quanto appena posto in evidenza, oltre a confermare l'inconsistenza del motivo testé illustrato, avvia a reiezione anche il quarto mezzo d'appello. Il motivo muove dall'assunto che il provvedimento in scrutinio, pur richiamandosi ad esigenze organizzative e di servizio, non avrebbe dato di queste effettivo conto, ma si sarebbe limitato a richiamare sempre e solo il provvedimento disciplinare, la sentenza di patteggiamento ed il decreto prefettizio. Da qui l'assunto di fondo che lo stesso provvedimento sindacale, sotto l'apparenza di un'assegnazione ad altro ufficio per esigenze organizzative e di servizio, avrebbe celato la realtà di una ulteriore volontà sanzionatoria-disciplinare, attuata attraverso la rimozione del dipendente dall'ufficio che da sempre aveva retto.
L'appellante obietta, altresì, che nell'atto sindacale si fa solo genericamente parola di una situazione di incompatibilità, senza valutare autonomamente né i fatti ascritti all'interessato, né la loro effettiva incidenza sull'ufficio da lui al tempo ricoperto. La semplice lettura dell'atto in contestazione vale però ampiamente a smentire la raffigurazione dello stesso fatta dall'interessato alla stregua di un surrettizio provvedimento sanzionatorio. Non si può invero seriamente dubitare del fatto che dinanzi ad un'imputazione tanto seria e odiosa, attinente proprio a fatti connessi alla posizione rivestita dal C. , ed in presenza di un esito penale tutt'altro che assolutorio, che lasciava quindi residuare gravi dubbi, elementari esigenze di tutela della credibilità dell'azione e, ancor prima, della stessa immagine dell'Amministrazione imponevano senz'altro, e senza necessità di ulteriori valutazioni dei fatti (sui quali lo stesso interessato, proprio con la decisione di addivenire a patteggiamento, aveva sostanzialmente impedito di fare chiarezza), che il dipendente venisse trasferito ad altro e meno delicato incarico. Donde l'inconsistenza della configurazione del relativo intervento del sindaco in termini disciplinari, premessa fallace che inficia l'intero motivo, e la sufficienza dell'istruttoria e motivazione comunali che connotano l'atto e valgono a fondarlo.
4 Una volta individuata la corretta ratio giustificativa degli atti di assegnazione dell'interessato al nuovo incarico, ed esclusane perciò ogni connotazione in chiave disciplinare o altrimenti “sanzionatoria”, ci si avvede, inoltre, della non pertinenza, rispetto agli stessi atti, della censura svolta con il primo mezzo dello stesso appello. Il motivo è tutto incentrato sul tema della equiparabilità della sentenza applicativa del patteggiamento ad una sentenza penale di condanna, ai fini dei procedimenti amministrativi sanzionatori. L'interessato contesta, naturalmente, l'anzidetta equiparabilità. Poiché, tuttavia, l'assegnazione del C. ad un nuovo servizio, pur non essendo certo un atto gradito dall'interessato, non integrava affatto un provvedimento sanzionatorio, bensì solo una (legittima) scelta organizzativa, le perplessità espresse attraverso il mezzo si rivelano ininfluenti.
5 Anche il terzo motivo di appello è infondato.
Con esso, dopo avere ricordato che gli artt. 36 e 51 della legge n. 142/1990 vogliono retto da appositi regolamenti locali l'ordinamento generale degli uffici, e prevedono che il conferimento degli incarichi debba procedere secondo le modalità fissate dagli stessi regolamenti, oltre che in conformità a criteri di competenza professionale, viene lamentato che la disposizione impugnata sia stata assunta in assenza della fonte regolamentare presupposta dalla legge e senza tenere conto di criteri di professionalità, per essere stato assegnato l'interessato ad un servizio rispetto al quale non possedeva competenza specifica. Anche in questo caso si impone, però, la notazione che il rilievo di parte era stato già esaminato e motivatamente respinto dal primo Giudice con la sentenza in appello, avverso le cui analitiche argomentazioni non è stata portata in questa sede alcuna puntuale critica, ma solo meccanicamente riproposta l'originaria doglianza. Il T.A.R., invero, aveva in proposito ragionevolmente osservato (pagg. 10-11), a suo tempo, che il potere sindacale di nomina dei responsabili degli uffici e servizi non può reputarsi condizionato (in assenza di una norma che si spinga a disporre tanto) dalla necessità di una previa adozione del regolamento sopra menzionato. Il regolamento, una volta assunto, con i propri contenuti certamente vincola l'esercizio del potere di nomina: ma deve ritenersi che il sindaco possa esercitare tale potere, che la legge gli conferisce, anche in attesa della predetta fonte, salva l'osservanza, in tal caso, dei criteri generali che guidano l'adozione di ogni atto amministrativo discrezionale. Quanto, poi, al punto dell'addotta carenza di competenza specifica dell'interessato rispetto al nuovo servizio di destinazione, il primo Giudice ha fatto notare come, avendo il sindaco ravvisato la necessità dello spostamento del ricorrente per preminenti ragioni di pubblico interesse, era inevitabile il suo trasferimento presso un servizio diverso da quello fino ad allora diretto; ed era nella natura delle cose che rispetto al nuovo servizio la competenza specifica del dipendente potesse non essere in un primo momento ottimale. Né d'altra parte l'interessato aveva indicato l'esistenza di ulteriori servizi (oltre quello di provenienza) per i quali egli potesse vantare maggiori competenze. Le argomentazioni del primo Giudice sono tuttavia rimaste anche sotto questi aspetti prive di confutazione, per averle l'appellante ignorate riproponendo sic et simpliciter in questa sede le proprie originarie critiche.
6 Considerazioni simili valgono per il sesto motivo di appello, quasi riproduttivo di quello appena disatteso.
Il mezzo presenta quale unico elemento di novità la critica per cui l'individuazione dei nuovi responsabili dei servizi sarebbe avvenuta in carenza - oltre che del regolamento di cui si è da ultimo detto - di un'idonea motivazione. Secondo il ricorrente, infatti, non potrebbe essere considerata tale né la semplice affermazione che sarebbe stato necessario ed urgente procedere ad una prima riorganizzazione dei servizi, né quella della pretesa necessità di una redazione del bilancio. Anche da questa angolazione, però, l'appellante ha mancato di fare i conti con la motivazione della sentenza oggetto di appello (pag. 24), limitandosi a riprodurre la propria primitiva contestazione. Senza dire, poi, che, avendosi già avuto modo di riscontrare la sufficienza della motivazione che sorreggeva la determinazione sindacale del 15/10/1997 che aveva trasferito l'interessato al nuovo servizio, non vi sarebbe ragione di intrattenersi su ipotetici vizi formali della successiva delibera giuntale che tale nuova collocazione si è limitata a confermare. Anche nell'ipotetico caso di un annullamento di quest'ultima, difatti, la posizione di servizio del C. sarebbe rimasta inalterata, così come stabilita dal precedente provvedimento.
7 Resta da dire del quinto motivo di appello.
Questo riprende la tesi della non equiparabilità della pronuncia applicativa del patteggiamento ad una sentenza penale di condanna, facendo specifico riferimento all'istituto del conferimento della qualifica di agente di p.s.: ciò avuto riguardo alla norma che pone quale presupposto per l'ottenimento e la conservazione di tale qualità quello del non avere subìto condanna a pena detentiva per delitto non colposo (art. 5, comma 2, lett. b), legge n. 65 del 1986). Il decreto del Prefetto di Latina del 15/1/1994 di revoca del riconoscimento al C. della qualifica di agente di p.s. viene, quindi, censurato per omessa istruttoria circa la verità storica dei fatti e per difetto di motivazione. Sotto questo profilo il ricorso si rivela improcedibile, per quanto discende dalle superiori considerazioni, per sopravvenuta carenza di interesse a ricorrere. Una volta confermata, infatti, la legittimità dei provvedimenti che hanno disposto la nuova assegnazione di servizio data al C. , che è stato spostato dalla direzione della polizia municipale a quella dei servizi demografici, vale a dire in una collocazione priva di qualsivoglia connessione con la qualifica ed i compiti di agente di p.s., sembra evidente come il sunnominato, stante anche l'avvenuto suo pensionamento nelle more del giudizio, non possa più dirsi portatore di alcun interesse neppure solo morale, meritevole di apprezzamento, alla definizione di questo residuo aspetto dell'originario contenzioso.
8 In conclusione, l'appello del C. deve essere nel suo insieme respinto.
9 La stessa sorte compete al gravame proposto dal comune di S. avverso la medesima sentenza.
Si ricorda che il T.A.R. ha annullato la censura inflitta al dipendente per due ragioni: la violazione dell'art. 24, comma 6, del contratto collettivo nazionale del 6 luglio 1995 del comparto Regioni-Autonomie Locali, che prescriveva che il procedimento disciplinare dovesse concludersi, pena la sua estinzione, entro 120 giorni dalla data della contestazione dell'addebito; la concorrente violazione dell'art. 120 del d.P.R. n. 3 del 1957, che impone, sempre a pena di estinzione, un intervallo massimo di inerzia di novanta giorni tra ciascun atto tipico dello stesso procedimento. Ora, è vero che, come si fa notare nell'appello dell'Amministrazione, il suddetto contratto collettivo non era in realtà applicabile alla fattispecie concreta, stante la previsione del suo art. 41, che ne escludeva l'applicazione alle procedure che al momento della sua entrata in vigore si trovavano già in itinere (come quella in controversia, che era stata promossa con contestazione dell'addebito in data 25 gennaio 1994). Ciò nulla toglie, però, alla sussistenza della concorrente violazione dell'art. 120 T.U. imp. civ., parimenti riscontrata dal Tribunale e già da sola sufficiente a determinare la perenzione del procedimento, e dunque la conferma della decisione annullatoria impugnata. Nell'appello si adduce, al riguardo, che il Comune inizialmente non disponeva né del fascicolo del Pubblico Ministero relativo alla vicenda, né di quello del Tribunale penale di Latina, né della stessa sentenza di patteggiamento, atti essenziali ai fini del procedimento disciplinare che erano stati dall'Amministrazione più volte richiesti, ma senza esito; e si soggiunge che non appena l'Ente era venuto in possesso di una parte del (solo) fascicolo del Tribunale, il procedimento era stato portato a conclusione. Al riguardo è però agevole opporre la circostanza, decisiva ai sensi dell'art. 120 cit., che non consta in atti la prova del compimento di alcun atto tipico della sequenza procedimentale disciplinare nei 90 giorni successivi alla contestazione di addebito del 25 gennaio 1994 e alla memoria difensiva del seguente 15 febbraio, né risulta compiuto, nello stesso arco di tempo, alcun atto formale finalizzato all'acquisizione della documentazione del procedimento penale (ed anche se si guarda a ritroso a partire dalla data di assunzione della delibera sanzionatoria, presa il 9 ottobre 1997, si riscontra, del resto, un'analoga stasi procedimentale di durata eccedente il limite posto dalla legge). Da qui l'ineluttabilità della perenzione rilevata dal primo Giudice. Per quanto precede, anche l'appello del Comune di S. deve quindi essere respinto. 10 Le spese processuali, stante la comune soccombenza, possono essere equitativamente compensate tra le parti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), riuniti gli appelli in epigrafe, li respinge. Compensa tra le parti le spese processuali del grado di appello.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 11/11/2011
17-11-2011 00:00
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